Se i finiani sono futuristi, noi preferiamo vivere col Cav. nel presente

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Se i finiani sono futuristi, noi preferiamo vivere col Cav. nel presente

20 Agosto 2010

Rossi Filippo resterà scioccato, ma c’è tanta gente perbene – che vota, segue o fa la politica – che si sente poco “futurista”, e per nulla “pacifica”, “pacificata”, “liberata”, “liberale” e “democratica” (citiamo dal manifesto finiano, vergato dal Nostro il 5 agosto scorso). Questo lo compiacerà nella sua pretesa di altera separatezza da reazionari, fascisti, cattolici, socialisti convertiti e truppe in libertà che hanno letto qualche pagina di S. Agostino, Spengler, Turati o Del Noce, e provano a credere ancora in qualcosa che ha segnato la storia del pensiero e della politica; qualcosa che non sia ripicca personale coperta dal tentativo (strambo) di darle legittimità di “proposta”.

Il guaio è che è durissimo non sprecare più inchiostro e riscoprire la santa abitudine di leggere senza nulla scrivere; o perfino di leggere poco perché un lavoro sfiancante impedisce di darsi al disimpegno intellettualmente sapido. Posti tipo la miniera, la cava di tufo, lo studio professionale, una redazione in cui si stampino notizie e non sproloqui, uno stanzino in cui si fabbricano commenti che attingano a Tocqueville o al Marinetti non tarocco, a Keynes piuttosto che a Smith; luoghi in cui non si viene pagati per dire che con la “pacificazione” e la “liberazione” si fa un partito e si raddrizza l’Italia, con ciò dando a chi non è della congrega, e che ha seguito prima Almirante e quindi Berlusconi, del disadattato antropologicamente colluso. I denari di quanti foraggiano le penne di costoro talvolta non sono pubblici, e prima di concedere loro il favore di proclamarsi “censurati” dai sodali del caudillo di Via del Plebiscito, li invitiamo a continuare a scrivere ogni sorta di manifesto, prosciugando bic in quantità per scrivere che “Ci piace l’apertura dinamica alla connessione globale della rete, l’adesione entusiasta alla politonalità della vita, alla policromia della cultura umana. Osmosi. Ammiriamo il dinamismo fluido del presente, in nome del sacro rispetto di un pantheon altissimo di valori laici. In nome della persona, per conto dell’individuo, alla ricerca di una nuova bellezza della politica”.

E’ profonda, nera, scomoda la miniera, come è poco confortevole la redazione in cui non dispensano stipendi per scrivere di sesso angelico, o per travestire l’odio epidermico di un ex fascista (ovvero di un uomo che non ha mai creduto in nulla) per il suo sdoganatore, da piattaforma molto aggettivata. A patto che quelle qualifiche abbiano la consistenza di un caffè di Starbucks. Con questo considerando la propria comunità politica di origine alla stregua di una massa di neuronicamente svantaggiati, avendo la bronzea faccia di dire loro che si fa una scissione per “ideale”. Che ci si separa per aver compreso il Senso – sapere infuso solo negli estensori e nei sottoscrittori del manifesto –  della politica dell’oggi. 

Ma il documento del Marinetti piegato alle più basse questioni di cortile raggiunge il picco di significato nella chiosa, quando Rossi afferma “Ebbene sì, chiamateci futuristi, allora. Ma di un futurismo pacifico, pacificato, liberato, liberale e democratico. Postmoderno. Riformista. Sorridente. Solare. (…) Dalla parte degli eretici, sempre. Senza conformismi. Senza la triste preoccupazione per ogni mescolanza, per ogni meticciato. Per ogni novità. Spezzando gli steccati che separano il tuo dal mio. Perché il nostro è un futurismo fiducioso e ottimista. Che si fida. E che non ha perso il senso della speranza”.

Applausi. Ma lo spellarsi delle mani che approvano non copre il dubbio su chi sia l’esegeta autentico del pensiero finiano. I falchi o i pontieri? L’interrogativo non è secondario perché a leggere il verbo di Rossi Filippo l’orizzonte è quello vagheggiato dall’on. Granata (quello dei “pezzi di governo che concorrono ad ostacolare l’accertamento delle verità sulle stragi di mafia”) il quale, in coerenza con il “meticciato”, la “mescolanza”, il “sorriso”, il “solarium” propone alle prossime politiche il ticket Vendola–Fini, non vedendo fra loro l’ombra di contrasti su questioni centrali. Del resto, stando a queste righe, non si distingue se lo scriba sia il futurista finiano o il profeta rosso delle Puglie.

Ci scusi, allora, Rossi se ci garba di più dirci “presentisti”, e se all’orgia di aggettivi da fiera del grottesco preferiamo identificarci ricorrendo a categorie che hanno il difetto di esprimere qualcosa, e di agevolare le scelte degli elettori non prendendoli per i fondelli. Siamo “presentisti” cattolici e/o federalisti e/o liberali e/o conservatori e/o liberisti. Quelli che riempiono i manifesti non con la “policromia” ma con quanto fatto dal governo e dalla destra sul fronte dei conti pubblici con la manovra di rigore, mentre la Grecia cade in pezzi e altri traballano; sul versante della sicurezza con il contrasto all’immigrazione clandestina e alle mafie. Maroni, Alfano e Mantovano lo hanno ricordato ieri a Palermo: da maggio 2008 a oggi sono stati catturati 8 mafiosi al giorno e un superlatitante al mese, a fronte di 6.433 criminali arrestati in totale; sono 32.799, invece, i beni sottratti alle cosche, per un valore complessivo di 15 miliardi di euro. Qualcosa di più consistente della destra al sapor progressista di “politonalità della vità”.

Da amanti viscerali delle virtù del presente invitiamo – in conclusione – Rossi Filippo a “ritornare al reale”, suggerendogli di raccontare a Fabio Granata e a personaggi impelagati in affari di cucine e principati, che Thibon e Nichi Vendola non sono così distanti.