Se i processi di mafia lambiscono gli intoccabili della vita pubblica italiana

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Se i processi di mafia lambiscono gli intoccabili della vita pubblica italiana

09 Febbraio 2011

Da quando le notizie sulla famigerata Trattativa tra Stato e mafia hanno preso a lambire, come la logica imponeva, quanti sedevano ai vertici delle istituzioni nei primi anni novanta, l’attenzione di alcuni massmedia si è fatta a dir poco cauta; il girare distante dall’obiettivo preferito dei consueti predicatori con ricco seguito, quel Silvio Berlusconi che in cuor loro anche i più accesi rivali sperano resti sulla scena per parecchi anni ancora (altrimenti chi compra libri, dvd, giornali antipatizzanti?), ha indotto i migliori segugi delle testate democratiche doc (non in senso di partito, beninteso) a frequentare altri pulpiti giudiziari meglio collegati con l’attualità, e magari adatti a mutare il quadro di Montecitorio e dintorni. E vai con Milano, Napoli, e ogni Procura che sappia scaldare i cuori con richieste di giudizi immediati e supertestimoni spesso improbabili. A seguire, momenti di indignazione edificante al Palasharp di turno.

Eppure, nel processo di Palermo che punta a svelare fatti e misfatti su papelli e dintorni, cose interessanti se ne registrano ad ogni udienza che passa. L’ultima, riguarda le parole del generale Giuseppe Tavormina, capo della Dia in quel periodo tormentato ed ancora denso di ombre, che ha parlato l’otto febbraio dopo le deposizioni spontanee di Mario Mori, il quale ha tenuto a ribadire che il suo reparto è sempre stato contrario ad abbozzare un accordo con Cosa Nostra sull’attenuazione del regime carcerario 41 bis, attaccando il giudice Sabella (che aveva esternato su un presunto patto tra il Ros dei carabinieri e la fazione criminale vicina a Bernardo Provenzano ) e Giovanni Conso, secondo il già numero uno del Sisde "contraddittorio" nelle dichiarazioni rese negli ultimi tempi . Tavormina ha smentito recisamente la versione dell’ex ministro Martelli, che riferì ai giudici siciliani di averlo informato sui contatti tra gli uomini del Ros e quel Vito Ciancimino che immaginiamo seguire con un pizzico di scetticismo, dall’aldilà, le mosse del figlio minore Massimo. Nell’aprile del 2010 era toccato a Nicola Mancino, all’epoca titolare dell’Interno, confutare i ricordi di colui che fu non disprezzabile braccio destro di Bettino Craxi.

Il dibattimento che si celebra nel capoluogo di Trinacria sembra quindi procedere con un continuo rimpallo di responsabilità tra politici ed esponenti delle forze di sicurezza.

In attesa della prossima puntata, il 22 del mese, con l’esame di altri pezzi da novanta come il generale in pensione Francesco Delfino e il tenente colonnello Canale, il partito dei convinti che chi occupava posti apicali nell’esecutivo in quegli anni tormentati della Repubblica "potesse non sapere" di quanto andava maturando in certe cucine perde sostenitori. Facile sospettare che i nodi restino attorcigliati anche dopo l’attesa sentenza, nonostante il lieve tremolio di monumenti della vita pubblica italiana considerati finora intoccabili per chiara fama.