Se i Rutelli, i Letta, i Renzi, i Penati ci sono, perché non battono un colpo?

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Se i Rutelli, i Letta, i Renzi, i Penati ci sono, perché non battono un colpo?

14 Luglio 2009

 

L’autocandidatura di Beppe Grillo alla segreteria del Partito democratico – a prescindere dalle sue possibilità pratiche di successo, che appaiono al momento piuttosto basse – non dev’essere considerata  soltanto una provocazione, ma va presa molto seriamente. Si potrebbe addirittura dire, anzi, che essa rappresenta il più logico esito della vicenda del centrosinistra italiano, e del suo maggiore partito, nell’ultimo ventennio.

I raggruppamenti che hanno raccolto l’eredità del Pci (Pds e Ds) hanno costantemente mantenuto, nel quadro bipolare inaugurato nel 1994, una consistenza minoritaria. Occasionalmente vincenti alle elezioni soltanto all’interno di grandi coalizioni/alleanze minate da un’irriducibile conflittualità, non si sono mai nemmeno lontanamente avvicinati ad un profilo in grado di catturare un consenso maggioritario nella società civile, ed hanno al più aspirato a gestire con il minimo dei danni la dispersione di un patrimonio politico accumulato, ma “bloccato”, nella “prima Repubblica”.

La fondazione del Partito democratico e la leadership di Walter Veltroni, con l’obiettivo dichiarato di un partito riformista “a vocazione maggioritaria”, avevano fatto credere per un breve periodo ad un’inversione del processo. Ma, appena pochi mesi dopo, l’abbandono dello stesso Veltroni ha sancito lo scacco di quel tentativo, e il ritorno del centrosinistra italiano a una patologica condizione di incertezza strategica.

Fallito lo sforzo di fondare un contenitore in cui potesse riconoscersi il gran corpo moderato e non pregiudizialmente schierato della società italiana, la cui conquista è decisiva per modificare gli equilibri elettorali strutturalmente vantaggiosi per il centrodestra, il Pd è rapidamente rifluito, all’opposto, in una “vocazione minoritaria” le cui radici affondano, in realtà, in tutta la storia della sinistra post-comunista, da quando essa sostituì il modello ideologico marxleninista sovietico con la rivendicazione berlingueriana di una “diversità” etica nei confronti di una classe politica giudicata corrotta.

Dal crollo della “prima Repubblica” in poi, il tarlo del moralismo elitario – condito dall’appoggio acritico a campagne politiche condotte per via giudiziaria – ha corroso sempre più la cultura politica degli ex-comunisti e degli ex Dc di sinistra, del loro elettorato più fedele, dell’opinione pubblica e intellettuale “di riferimento”. Sicché, posto di fronte alla drammatica alternativa tra la ricerca di una nuova cultura politica moderata, potenzialmente vincente ma rischiosa nell’immediato, e la riconquista degli “ultras” disaffezionati mediante l’uso massiccio della retorica giustizialista, da ultimo anche il Pd di Dario Franceschini ha scelto decisamente la seconda strada, puntando soltanto ad evitare nell’immediato il tracollo. Da qui, come è noto, una campagna elettorale, come quella da poco trascorsa, praticamente giocata tutta a ruota delle campagne mediatiche di furibonda denigrazione moralistica ad personam contro il nemico “antropologico” Berlusconi.

Il risultato è stato, come è altrettanto noto, la stentata (molto stentata) sopravvivenza del progetto Pd, ma al costo di una sempre maggiore sua emarginazione dal cuore della disputa per il governo del paese. La fotografia paradossale offerta dalla somma dei risultati tra elezioni europee e locali è stata quella di un partito che non di rado è ancora capace di produrre, sul territorio, una classe dirigente in grado di parlare un linguaggio comprensibile al “cuore” dell’elettorato, tanto quello tradizionalmente di sinistra quanto quello moderato (i vari Penati, Zanonato, Renzi), ma la cui leadership nazionale appare lontana anni luce da quella classe dirigente, persa tra dispute formali di corrente/apparato e acquiescenza corriva alle retoriche politiche più demagogiche e divisive (giustizialismo-moralismo militante, avversione aprioristica ad ogni politica “securitaria” e di serio contrasto all’immigrazione clandestina, intransigentismo laicista sui temi etici).

In un tale contesto, la candidatura di Beppe Grillo, al di là della sua poca ortodossia formale, si inserisce in maniera perfettamente coerente. Essa va considerata, semmai, in piena continuità con quella – pure esterna all’ "apparato" consolidato del partito – di Ignazio Marino. Preso atto che il Pd sembra ormai rassegnato ad essere solo uno tra i tanti raggruppamenti minoritari rappresentanti di frange ideologiche radicali, perché esso dovrebbe essere guidato da dirigenti ancora eredi del fallito tentativo di “vocazione maggioritaria”, e non invece da volti più consoni alla sua effettiva natura? Se la linea ufficiale del partito in materia bioetica si profila come una versione italiana estrema dello zapaterismo (eutanasia, matrimoni gay, e simili) quale segretario mai sarebbe più adeguato che il chirurgo “cattolico” alfiere dello “stacco della spina”? E se l’argomentazione politica più efficace del Pd è ormai l’invettiva indignata contro la corruzione del premier e del suo “sistema di valori”, quale leader può esprimerla con efficacia pari a quella di Grillo, sommo tribuno mediatico dell’antipolitica?

In più, il comico genovese presenta il “vantaggio” di fondere nella sua persona il profilo dell’intransigentismo moralista-giustizialista con quello di un radicalismo ambientalista pregiudizialmente contrario a qualsiasi “grande opera” o liberalizzazione. Molto lontano, certo, dalle posizioni dei dirigenti locali che miracolosamente riescono ancora ad essere in sintonia con la maggioranza degli elettori e con i ceti produttivi, ma molto gradito invece agli elettori ultras, tanto da poter portare il Pd a rosicchiare forse un buon 0,5% di voti a “Sinistra e libertà” o a Rifondazione…

Insomma, la prospettiva di un Grillo segretario appare tutt’altro che una provocazione o una boutade. Essa è, al contrario, una soluzione molto più coerente con ciò che il Pd è oggi diventato di quanto non lo siano le vaghe indicazioni programmatiche e di schieramento proposte da Franceschini o Bersani.

Piuttosto, se nel Pd c’è ancora qualcuno interessato a farne il contenitore politico della maggioranza degli italiani – i Renzi, i Zanonato, i Penati, i De Luca, gli ultimi moderati come Letta e Rutelli, magari lo stesso Veltroni – proprio questo sarebbe il momento per lui di venire allo scoperto, presentandosi in prima persona, apertamente, come il rappresentante di una piattaforma politica specularmente alternativa al “grillismo” (e al “marinismo”). Oppure, di abbandonare il partito alle minoranze radicali che lo hanno colonizzato, e di rifondare altrove una casa per la sinistra liberaldemocratica.