Se il Cav. è come il Duce cos’era davvero il Fascismo?

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Se il Cav. è come il Duce cos’era davvero il Fascismo?

04 Luglio 2008

 Un breve scambio di email sull’interpretazione del fascismo come fenomeno totalitario, avuto di recente con due  amici e colleghi che onorano la categoria degli storici contemporaneisti italiani, Roberto Pertici e Giovanni Sabbatucci, mi ha riconfermato in una mia vecchia idea. Per dirla in rapidissima sintesi: l’uso ideologico delle categorie  politiche e storiografiche è sempre un’arma a doppio taglio da maneggiare con estrema prudenza. Nella fattispecie, dire che il fascismo fu totalitario può servire alla sinistra per mettere fuori gioco, senza remissione, quanti a quell’esperienza debbono il loro apprendistato politico e culturale: con chi ha fatto parte dell’universo nazifascista, infatti, non si può avere alcun rapporto; ma, nello stesso tempo, la denuncia del carattere totalitario del governo mussoliniano rischia di esporre la sinistra dura e pura al ridicolo giacché se davvero il fascismo fu una dittatura terroristica—e solo una vittima delle metastasi ideologiche può pensare a un totalitarismo senza terrore: sarebbe come parlare di un liberalismo senza habeas corpus, senza limitazione del potere statuale e senza divisione dei poteri—,ogni assimilazione di Berlusconi al duce diventa assurda, un boomerang sicuro, come mostrano, involontariamente, gli elzeviri dei giuristi, degli storici, dei filosofi che sulla ‘Repubblica’ denunciano la svolta autoritaria segnata dal governo di centro-destra. 

 D’altra parte, accreditare l’immagine (quella più vicina alla verità storica) del fascismo come ‘totalitarismo imperfetto’, caratterizzato da una strategia ben calibrata di repressione e di (relativa) libertà, ovvero da zone nere disposte a macchia di leopardo, se, da un lato, potrebbe più facilmente consentire il confronto del regime con i governi di centro-destra, dall’altro, potrebbe comportare il rischio—non sottovalutabile– di indebolire, con il ridimensionamento del carattere demoniaco del PNF, la mistica antifascista: il legame duce/cavaliere   sul piano di una seria analisi storico-politica, resterebbe, beninteso, assolutamente privo di fondamento ma con qualche apparenza in più di credibilità.  Specialmente se si considerano:

a) il peso culturale della immarcescibile vulgata antifascista che, ancora oggi, nell’articolo di Mario Pirani, A chi serve la versione edulcorata del fascismo (‘La Repubblica’ 23 aprile 2008), riduce il fascismo a "una dittatura in primo luogo antiliberale, che soffocò la libertà di stampa, di parola, di associazione, di sciopero; soppresse la libertà rappresentativa; istituì tribunali speciali, incarcerò e talora assassinò gli oppositori; infine trascinò l’Italia in una guerra rovinosa contro le più grandi potenze del mondo", come se non ci fosse null’altro da dire e come se la scienza politica, che da più di mezzo secolo ha studiato a fondo il fenomeno, fosse rimasta ferma a  Piero Gobetti;

b) l’attribuzione al centro-destra di taluni di quei caratteri (il monopolio televisivo,  le leggi antisindacali, l’appiattimento sulla politica imperialista americana, il tentato asservimento della magistratura etc.)

Al di là dei rispettivi inconvenienti, però, le due diverse interpretazioni — la ‘totalitaria’ e la ‘semitotalitaria’ –  sono frecce che la sinistra del ‘muro contro muro’ custodisce gelosamente nella sua faretra. Anche se, va detto, da qualche tempo sembra privilegiare l’interpretazione ‘forte’, quella sostenuta da uno storico, Emilio Gentile, che, per molti anni fu accanto a Renzo de Felice per distaccarsene in seguito proprio sulla vexata quaestio della natura del regime fascista.

 Nel lungo brano riportato qualche settimana fa dal domenicale del ‘Sole 24 Ore’, in occasione della riedizione de La via italiana  al totalitarismo (Ed. Carocci), l’autore, in polemica con Hannah Arendt, ribadisce per l’ennesima volta che il carattere totalitario del regime fascista sarebbe stato dimostrato da tempo dai  "risultati della ricerca storica".  Alla Arendt, che com’è noto, ne dubitava, vengono contrapposti  "studiosi come Luigi Sturzo, Hans Kohn, Michael Florinsky, Raymond Aron" e altri che "malgrado le loro differenti e opposte ideologie, nella loro analisi del totalitarismo, avevano considerato il fascismo un regime totalitario".

 In realtà, Gentile mostra sia di non aver letto l’analisi forse più acuta e profonda che sia stata scritta, almeno nel nostro paese, sul "Totalitarismo", la voce curata da Mario Stoppino per il Dizionario di Politica di Norberto Bobbio e Nicola Matteucci, sia di aver dato  poco peso agli studi, ormai classici, di Domenico Fisichella; ma, quel ch’è peggio, attribuisce agli autori che cita tesi opposte a quelle da essi effettivamente sostenute, come nel caso di Raymond Aron.

 Stoppino, che sulla nazista ‘etica del destino’ aveva  svolto riflessioni tanto originali quanto penetranti, aveva visto nel terrore totalitario uno degli elementi cruciali—accanto all’ideologia, al partito unico e al dittatore carismatico—del fenomeno totalitario. "Il terrore totalitario—aveva scritto– che è sprigionato congiuntamente dal movimento di trasformazione radicale imposto dalla ideologia e dalla logica della personalizzazione del potere, inibisce ogni opposizione e anche le critiche più tenui e genera coercitivamente l’adesione e il sostegno attivo delle masse al regime e al capo personale". La sua non era una mera analisi di ‘storia delle idee’ ma nasceva sul solido terreno di una scienza politica realistica e weberiana , in cui le istituzioni e le loro dinamiche (la politica come ‘struttura’ e la politica come ‘processo’) assumevano un ruolo decisivo nella spiegazione dei fatti storici.

  Quanto ad Aron, Gentile forse ignora  che nel saggio Existe-t-il un mystère nazi?—v. ‘Commentaire’, vol.2, n.7, 1979– il Tocqueville del XX secolo scriveva testualmente: <Il regime di Mussolini non fu mai totalitario: le università, gli intellettuali non furono mai irreggimentati anche se la loro libertà d’espressione fu ristretta. Mussolini prese a prestito l’antisemitismo dalla Germania nazista ma non soppresse né la monarchia né le istituzioni tradizionali dell’Italia> Il duce fu <più simile a un caudillo dell’America latina che a un Hitler>.

  Sennonché la migliore confutazione del discutibile impianto teorico di Gentile viene da un personaggio insospettato, da un giurista che sarebbe stato considerato, in seguito, la più alta coscienza morale dell’antifascismo e che, nell’ottavo anniversario del sacrificio di Duccio Galimberti, avrebbe dettato la nota epigrafe <Lo avrai camerata Kesselring il monumento che pretendi da noi italiani..>, Piero Calamandrei.

 Nella Conferenza tenuta a Firenze il 21 gennaio 1940, a due anni dalle leggi razziali, parlando ai giovani della fede nel diritto ( il saggio ripubblicato da Laterza esce in questi giorni ), Calamandrei attaccava a fondo i regimi comunista e nazista che pretendevano, entrambi, dai magistrati <di cessare di essere i servitori delle leggi vigenti per diventare invece i promotori delle leggi dell’avvenire>.<Là dove impera il principio della legalità, faceva osservare, il giudice non deve conoscere altro diritto che quello consacrato nella legge>. E’ quanto, a suo avviso, si verificava  in Italia dove <nel campo dei congressi giuridici e delle riforme legislative gli interpreti ufficiali del pensiero italiano sono sempre rimasti fedeli al sistema della legalità, com’è avvenuto in recenti congressi internazionali di diritto penale comparato nei quali i delegati dell’Italia si sono decisamente  schierati a difesa del principio nulla poena sine lege o come è avvenuto ancor più recentemente nei lavori del Comitato italo germanico, durante i quali i delegati italiani (Carlo Costamagna e  Leopoldo  Piccardi)  hanno svolto  <una lucida relazione su Il giudice e la legge>. E, a riprova della differenza incolmabile che separava l’Italia fascista, dalla Germania hitleriana e dalla Russia di Stalin, il giurista fiorentino citava le <autorevoli e definitive affermazioni contenute nel discorso tenuto il 16 ottobre 1939 dal guardasigilli  Dino Grandi, nel quale |…| energicamente si proclamava che ‘le frontiere del diritto, del nostro diritto romano e italiano, debbono essere difese da noi colla stessa tenacia con cui difendiamo le nostre frontiere storiche e geografiche>.

 Sconcerta questo quadro positivo della pratica del diritto nel regime fascista, non certo dettato da mero opportunismo ma, semmai, dal generoso disegno di mettere in guardia il paese, usando la  leva patriottica della civiltà giuridica italiana, da alleanze impure con i regimi totalitari. In ogni caso, una conferenza come quella di Calamandrei sarebbe stata concepibile a Mosca o a Berlino?  Ed è irrilevante, come ricorda spesso Sabbatucci, che il duce sia stato arrestato, su ordine del re, da un reparto di carabinieri ovvero da militari che, evidentemente, consideravano il giuramento di fedeltà al monarca ben più impegnativo di quello prestato al capo del governo?

<Nell’Italia fascista—per citare ancora Stoppino—la mobilitazione della società non fu mai paragonabile a quella conseguita dal regime hitleriano e da quello staliniano; né furono mai presenti, nella loro dimensione specifica gli elementi costitutivi del totalitarismo. |…| Il partito fascista fu un’organizzazione piuttosto debole, di fronte al quale la burocrazia dello Stato, la magistratura e l’esercito conservarono gran parte della loro autonomia; e la cui azione di indottrinamento ideologico fu limita e venne a patto per  esempio con le potenti organizzazioni cattoliche. Il terrore totalitario mancò pressoché del tutto>.

  Si tratta di un’analisi, per certi aspetti, definitiva che conferma, a un livello rigorosamente politologico, le ricerche di Renzo De Felice (che aveva un’altissima considerazione per Stoppino al punto da adottare, nel suo corso alla Facoltà di Scienze politiche della Sapienza un testo dello studioso pavese che gli studenti trovarono particolarmente ostico) ma che, temo, non metterà fine agli usi ideologici delle categorie storiografiche.

 In realtà, il problema ancora in sospeso è tanto semplice quanto cruciale e consiste nello stabilire se il fascismo debba trovare una spiegazione nel<sistema sociale>—si tratti di malattia morale, di autobiografia della nazione nei suoi aspetti peggiori, di reazione egoistica di una borghesia minacciata nei suoi privilegi—o nel <sistema politico>. In altre parole, indipendentemente  dagli interessi particolari di classi e di ceti determinati, ci fu o non ci fu una crisi oggettiva della ‘comunità politica’– seguita alla guerra mondiale e ai traumi profondi che ne derivarono—alla quale i ‘ceti medi emergenti’, sicuri dell’acquiescenza del paese, cercarono di porre rimedio anche contro  le istituzioni (relativamente) liberali e democratiche ereditate da Cavour e da Giolitti?

<Se il 14 luglio è la festa di tutti i francesi, degli eredi dei giacobini come dei vandeani, dei laici come dei cattolici, di chi si richiama alla Comune e dei gollisti che inalberano Giovanna d’Arco perché tutti gli italiani non debbono finalmente ritrovarsi nel 25 aprile e nel 2 giugno?>. Alla domanda che si pone Pirani non è difficile rispondere. Non ci può essere conciliazione se si continua a vedere nel fascismo  una forma del Male e si pretende l’atto di contrizione da quanti, a torto o a ragione, guardano ad esso, o meglio a taluni suoi aspetti, con qualche nostalgia—quasi tutti, va detto, ne espungono l’appendice razzista e l’Asse Roma-Berlino. Alle celebrazioni nazionali debbono partecipare tutti con l’abito della festa: è inconcepibile che alcuni siano ammessi solo col cilicio addosso e il capo cosparso di cenere.

Occorre riconoscere che se gli amanti della libertà e della democrazia coltivavano stili di vita  del tutto incompatibili con quelli proclamati dal regime e dal movimento fascista, altri italiani potevano nutrire idealità diverse, ad esempio una fedeltà alla Nazione spinta fino a tenere in  nessun conto  le <dee dell’89>. Non fu, ripeto, un mero scontro tra il Bene e il Male ma tra valori inconciliabili se spinti all’estremo, che giustificavano opposte soluzioni alla malattia mortale che minacciava uno Stato nazionale esaurito e privo di forte legittimità. E’ superfluo dire da quale parte stavano i liberali, ma forse è venuto il momento di riconoscere, una buona volta, che anche i loro nemici avevano un’etica politica, una disposizione al sacrificio, un progetto di riscatto del paese prostrato dalla guerra. Finché durerà la sua criminalizzazione, il fascismo rimarrà sempre una facile risorsa retorica, diversamente utilizzata a seconda  dell’interpretazione che se ne sceglierà (totalitarismo perfetto o imperfetto). Quando la storia del ventennio sarà riconsegnata all’Italia, c’è da credere, ci sarà tanta poca voglia di farne un criterio di divisione tra i partiti quanta ce n’è oggi nel dividersi politicamente nel nome di Cavour o nel  nome di Garibaldi.