Se il diritto alla riservatezza diventa l’eccezione e l’intercettazione la regola

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Se il diritto alla riservatezza diventa l’eccezione e l’intercettazione la regola

17 Giugno 2010

Secondo uno schema ormai consolidato nel nostro Paese, il dibattito pubblico sul tema delle intercettazioni rischia di perdere qualunque contatto con la realtà e di diventare semplicemente uno dei tanti strumenti con i quali una parte della nostra classe dirigente (politica, economica, giornalistica) cerca di avvelenare i pozzi. Ovvero di far crescere sensazioni collettive e movimenti di opinione fondati sull’equivoco utili essenzialmente per cercare di cambiare i rapporti di forza sanciti dalle elezioni democratiche.

Il tema in realtà è assai semplice e ruota intorno a due domande essenziali e ineludibili. Riteniamo che negli ultimi anni vi sia stato un ricorso eccessivo da parte dei sostituti procuratori alle intercettazioni telefoniche? E’ vero che le intercettazioni sono state usate non solo, come è giusto, come strumento per ricercare la prova di delitti particolarmente gravi e difficili da individuare ma anche come strumento per la ricerca della stessa notitia criminis in tal modo sovvertendo i principi dello stato di diritto?

E’ compatibile con la civiltà giuridica la prassi delle intercettazioni a strascico, nella quale la inevitabile compressione del diritto individuale alla riservatezza delle proprie comunicazioni inevitabilmente prodotta dall’intercettazione non è condizionata all’esistenza di seri indizi di reato a carico del soggetto intercettato? Se la risposta a questa prima serie di domande è (e non vediamo come possa non esserlo) affermativa, allora non può essere negata non solo la legittimità ma anche l’opportunità di una disciplina che regoli modalità termini e condizioni per il ricorso a questo strumento di indagine. La regola è la riservatezza delle comunicazioni personali. L’eccezione è l’intercettazione delle stesse motivata da pressanti esigenze di ordine pubblico. La legge deve regolare la materia cercando di scongiurare il rischio che l’eccezione diventi regola e la regola eccezione.

Seconda domanda. E’ vero o no che negli ultimi vent’anni abbiamo assistito ad un preoccupante trasferimento, dalle aule processuali ai giornali, della sede di somministrazione della giustizia? E’ vero o no che i più importanti processi si sono celebrati sui giornali mentre erano ancora in corso le indagini preliminari? E’ vero o no che spesso le intercettazioni pubblicate sulla stampa hanno riguardato persone nemmeno indagate e fatti privi di qualunque rilevo penale?

E’ vero o non che molte condanne inflitte dalle pagine dei giornali sono state poi sovvertite dalle sentenza definitive emesse dai giudici? E’ vero o no che la principale sanzione inflitta agli indagati, la condanna della pubblica opinione, non è risarcibile anche se interviene una sentenza di assoluzione? E’ vero o no che già oggi la condotta del giornalista che pubblica il testo di un’intercettazione coperta dal segreto istruttorio è penalmente rilevante (al pari di quella del magistrato, dell’agente di polizia giudiziaria o del cancelliere che passa al giornalista i testi)?

E’ vero o no che in questi anni a fronte di centinaia di violazione del segreto istruttorio non vi sono casi di accertamento dei responsabili di tali condotte penalmente rilevanti? E se la risposta a questa seconda domanda è (e non vediamo come possa non esserlo) affermativa allora è non solo legittimo ma anche opportuno definire un nuovo quadro di regole in grado di rendere effettivo il quadro legislativo vigente. La regola del processo è la pubblicità. Quella delle indagini la riservatezza.

Il diritto alla libera manifestazione e alla libertà di informare del pensiero non c’entra nulla. In questi casi non di manifestazione del pensiero si tratta. Non di libertà di informare. Ma di pretesa all’impunità a fronte di condotte illecite: illegittima intromissione nell’attività degli apparati dello Stato, devastazione della vita di cittadini prima ed indipendentemente dall’accertamento di loro responsabilità penali.

Ma se è affermativa la risposta alle due serie di domande ci dovremmo aspettare che vi sia un consenso unanime sulla necessità di un intervento legislativo in materia. Potremo dividerci sulle soluzioni puntuali legislative da approvare. Ma tutti dovremmo convenire sulla tematica di fondo e quindi dimettere i toni apocalittici cui stiamo assistendo. E che così dovrebbe essere ce lo conferma un fatto chiarissimo ma che oggi in pochi richiamano.

Sul finire della scorsa legislatura la Camera dei deputati approvò un disegno di legge del Governo Prodi che interveniva esattamente sulla materia. E sul provvedimento si registrò l’unanimità (con soli quattro astenuti) e il voto favorevole di tutti i partiti dell’allora maggioranza (Italia dei valori e Rifondazione comunista inclusi) oltre che quelli dell’allora opposizione (Alleanza nazionale, Udc inclusi). In particolare il provvedimento fissava nuovi limiti per il ricorso allo strumento delle intercettazioni (ed in particolare un termine massimo per l’effettuazione delle medesime) e nuove e più severe sanzioni penali a carico fra l’altro dei giornalisti che pubblicavano consapevolmente intercettazioni coperte da segreto.

In realtà l’unica novità qualitativamente significativa del testo approvato dal Senato è la previsione di una responsabilità pecuniaria a carico degli editori dei giornali su cui vengano illegittimamente pubblicate le intercettazioni. Ma a ben vedere prevedere una responsabilità degli editori altro non è che un modo per rendere più effettivo il divieto di pubblicazioni, sanzionando chi trae un diretto vantaggio economico dalla violazione del divieto, e quindi, in ultima analisi, un modo di tutelare i giornalisti che altrimenti verrebbero individuati come gli unici responsabili delle degenerazioni alle quali assistiamo da anni.

Nonostante questi solidi argomenti, sono ormai mesi che assistiamo ad un’ignobile pantomima nella quale la fanno da padrona la demagogia parolaia, il giustizialismo militante e Fini(ssima) tattica politica. Ma in tal modo la classe dirigente del Paese abdica definitivamente alla propria funzione!