Se il governo è fragile è (quasi) tutta colpa della Storia d’Italia

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Se il governo è fragile è (quasi) tutta colpa della Storia d’Italia

25 Luglio 2010

Se, come appare sempre più probabile, il disegno di legge per la protezione della privacy contro gli abusi delle intercettazioni e della loro divulgazione mediatica verrà approvato con modifiche sostanziali rispetto all’intento originario, questo sarebbe l’ennesimo caso di un atto politicamente qualificante promosso dall’attuale governo che viene decisamente ridimensionato, o invalidato. Ciò, nonostante il quarto governo Berlusconi goda di una delle maggioranze più ampie nella storia della Repubblica italiana e di una leadership politica indiscussa. Questi ostacoli non vengono dall’opposizione politica e parlamentare – debole, incerta e divisa – ma da altri fattori: pesanti attacchi mediatici, iniziative giudiziarie (da parte di un’ampia gamma di soggetti, dalla Corte costituzionale alle procure ai Tar), resistenze del Capo dello Stato, dissensi interni alla maggioranza.

Naturalmente la vulnerabilità della leadership berlusconiana ad alcuni di questi fattori può essere addebitata per molti versi a ragioni propriamente politiche, sulle quali si possono esprimere valutazioni diverse. Ma in ultima analisi essa va riportata, a mio avviso, in primo luogo ad una questione di ordine schiettamente costituzionale, legata alla storia di lungo periodo della politica italiana: la debolezza della funzione di governo nel nostro ordinamento, "scritta" nelle fondamenta stesse del nostro regime liberale prima, democratico poi.

Charles McIlwain e Nicola Matteucci ci hanno insegnato come la sostanza del costituzionalismo occidentale risieda nell’equilibrio tra la sfera della jurisdictio (la produzione delle norme, prima attraverso le Corti di giustizia, poi congiuntamente attraverso queste e il potere legislativo) e quella del gubernaculum (la "prerogativa", ossia la libertà di azione del titolare del governo: il re nei regimi assolutistici, il primo ministro o il presidente eletto nei regimi liberaldemocratici). Dove il gubernaculum opera in modo arbitrario e incontrollato, i diritti dei governati sono esposti ad ogni violazione. Dove esso è, invece, paralizzato dai freni che la jurisdictio gli impone, il rischio incombente è quello dell’anarchia, dell’ingovernabilità, del dominio di poteri irresponsabili.

Ora, fin dalla nascita dello Stato unitario il potere esecutivo in Italia si è trovato in una posizione difficile e controversa. Per tutta la fase liberale, sotto lo Statuto albertino, esso rimaneva formalmente nelle mani del re, mentre "ufficiosamente" il regime si evolveva verso il parlamentarismo, e la figura del Presidente del Consiglio (equivalente "debole" nostrano del prime minister britannico) emergeva come titolare effettivo del governo, ma senza essere costituzionalmente dotato di poteri adeguati. L’autorità del governo derivante dalla maggioranza elettorale e parlamentare rimaneva così costantemente schiacciata tra le ingerenze della Corona e l’imprevedibile evolversi delle alleanze in un parlamento frammentato, magmatico e "trasformista". Essa era affidata, perciò, soltanto alle capacità di leadership personalistica di grandi "tessitori" come Depretis, Crispi, Giolitti.

Il fascismo si presentò con l’intento di rovesciare specularmente questa situazione, assolutizzando del Capo del Governo, e ponendolo al riparo da qualsiasi freno alla sua azione (pur mantenendo in piedi un ambiguo rapporto di reciproco riconoscimento – la "diarchia" – tra il Duce e il re). Ma la dittatura, congelandone il potere, impediva in realtà qualsiasi maturazione della funzione di governo attraverso una dialettica pluralista con gli altri poteri e l’innesto della democrazia di massa sul tronco liberale, quale invece avvenne nel corso della prima metà del Novecento in altri paesi occidentali.

Nella democrazia parlamentaristica repubblicana succeduta al fascismo e allo Statuto Albertino, il potere esecutivo dei presidenti del Consiglio e delle compagini di governo venne, per contro-reazione, scientemente minimizzato: riportandolo ad un ruolo subordinato nei confronti di un parlamento nuovamente frammentato dal sistema elettorale proporzionale, dominato dagli apparati dei partiti a base ideologica, fisiologicamente fondato sulla "democrazia bloccata" (maggioranze senza alternativa) e sulla "consociazione" tra area di maggioranza moderata e opposizioni. Sullo sfondo rimaneva, poi, incombente l’eredità della Corona, incarnata ora dalla figura del Capo dello Stato, per lungo tempo garante "notarile" degli equilibri interpartitici, ma tendente ad accreditarsi come "supplente" di governo nei momenti di crisi ed instabilità del sistema.

Con il passaggio dalla "prima" alla "seconda Repubblica" e il mutamento del quadro politico-partitico, il potere di governo appariva recuperare terreno e rafforzare decisamente la connessione tra investitura popolare e autonomia di azione, grazie all’avvento di una logica bipolare tra coalizioni e di una nuova tipologia di leadership personalistica. Ma la transizione al bipolarismo e all’alternanza nasceva, in realtà, già gravata di una pesante ipoteca. Nel frattempo, infatti, accanto a quello del potere legislativo era enormemente cresciuto, assumendo un significato direttamente politico fino a pochi decenni prima impensabile, il ruolo costituzionale del potere giudiziario.

Più in particolare, parallelamente alla crisi del sistema dei partiti dagli anni Settanta in poi (precisamente, a partire dagli anni della massima diffusione della violenza politica e del terrorismo brigatista) era stata una magistratura sempre più politicizzata e sindacalizzata ad assumere una crescente funzione di "supplenza" rispetto alla classe politica. Quest’ultima coronava infine la propria influenza all’inizio degli anni Novanta, attraverso le inchieste sulla corruzione politica e sul finanziamento illecito dei partiti che contribuirono decisivamente al crollo della democrazia "consociativa" e delle formazioni politiche post-antifasciste di area liberaldemocratica.

Accanto a questo nuovo, sostanzialmente incontrollabile "controllore" dei governi, si era poi già pienamente manifestato il potere "implicito" della presidenza della Repubblica, che ormai con la crisi di transizione del 1992-1994 assumeva un ruolo di "supervisore" effettivo degli esecutivi. Intorno, cresceva, infine, l’incidenza di nuovi agglomerati di potere extra- o semi-istituzionali, costituiti da blocchi sindacali (in particolare quelli connessi all’ipertrofico pubblico impiego) e associazioni imprenditoriali o di categoria, consolidatisi in realtà proprio attraverso il consociativismo "primo-repubblicano", e adusi da tempo alla prassi neo-corporativa della "concertazione" con i governi. E, non meno, quella di grandi lobbies d’interesse in settori strategici (energia, telecomunicazioni, informazione) parimenti interessati a condizionare gli esecutivi, e dunque intenzionati a mantenerli in condizione di endemica debolezza.

Questa concentrazione di nuovi "freni" al potere esecutivo, aggiunti a quelli già storicamente esistenti, può aiutarci a comprendere i fattori strutturali di debolezza ai quali nemmeno la presente compagine di governo riesce a sfuggire. E’ solo a partire da questa stortura sistemica propria del regime rappresentativo italiano che traggono forza i giochi di potere interni alla coalizione di governo, i quali contribuiscono a loro volta ad aumentare l’instabilità dell’esecutivo.

Certo, una causa non trascurabile dell’ostruzionismo antigovernativo istituzionale o extraistituzionale può paradossalmente essere indicata proprio nell’estrema debolezza attuale dell’opposizione politica di centrosinistra, che spinge gli ambienti e i gruppi d’interesse più ostili a Silvio Berlusconi a cercare di combatterlo attraverso altri canali. Ma occorre sempre tener presente che quell’ostilità, a sua volta, non è specificamente ed esclusivamente diretta – checché ne dicano e pensino gli stessi interessati – a Berlusconi, alle sue idee e alle sue azioni.

Essa si rivolge contro di lui innanzitutto perché egli, con la sua storia politica, rappresenta oggi il principale rappresentante di una concezione "governante" della democrazia, di un’idea del potere esecutivo come forza capace di agire e realizzare progetti. Una concorrenza di analoghi agenti di "freno" e "demolizione" si è infatti già verificata, in varie forme, nell’ultima fase della storia politica italiana anche nei confronti di altre leadership potenzialmente forti e radicate nell’area di centrosinistra, come quelle di Romano Prodi o di Massimo D’Alema.

Il dato strutturale emergente dalla storia degli ultimi decenni è che proprio di fronte alla tendenza al rafforzamento di un autonomo potere di governo tutti i poteri di "controgoverno" dentro e fuori le istituzioni costituzionali italiane tendono regolarmente a "fare muro" per porre sotto scacco l’esecutivo e restaurare un equilibrio politico-costituzionale corporativo-consociativo, fondato non sui "freni e contrappesi" ma sulla paralisi sostanziale determinata da un sistema di veti incrociati.