Se il mondo non si divide più tra Est e Ovest è grazie a Mikhail Gorbacev
05 Novembre 2009
Alla vigilia del ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino, i tre protagonisti – Helmut Kohl, George Bush senior e Mikhail Gorbacev – si sono riuniti nella capitale della Germania per celebrare questo avvenimento epocale. L’incontro ci offre l’occasione di ricordare i meriti che questi statisti hanno avuto nella vicenda: la risolutezza di Kohl nel perseguire l’obiettivo della riunificazione tedesca; la capacità di Bush di superare i postulati decennali della politica estera americana, aprendo a nuovi scenari e cogliendo nuove opportunità; il ruolo cruciale di Gorbacev nel rendere possibile il crollo del Muro e il dissolvimento del blocco comunista senza violenza e spargimento di sangue.
L’importanza del "fattore Gorbacev" richiede però un ulteriore approfondimento. Da primo segretario del partito comunista, Gorbacev ha dovuto presiedere alla fase terminale del comunismo e gioco forza ha avuto un ruolo tragico. E’ rimasto nella storia come una figura che univa in sé i tratti del pessimo riformatore e del grande statista. Ricordiamo che, nel periodo di Brezhnev in Unione Sovietica inizia un processo di «contro-modernizzazione», di inversione piuttosto brusca delle principali tendenze di sviluppo che fino a quel momento avevano caratterizzato tutte le società industriali. Si verificano infatti una drastica diminuzione della crescita economica, il calo della produttività, la caduta del tasso di innovazione, l’aumento della mortalità infantile e l’abbassamento della lunghezza media di vita della popolazione. Il tentativo delle forze riformiste in seno al partito di invertire le tendenze degenerative è strettamente collegato al nome di Gorbacev.
Arrivato al vertice del partito-Stato sovietico, per contrastare la crescente crisi economica Gorbacev non aveva altro modello riformista a disposizione e, in mancanza di alternative, non poté far altro che rilanciare la strategia del suo patrono, il capo del KGB Yurij Andropov, morto solo un anno prima. La campagna di mobilitazione gorbaceviana combinava i tentativi di suscitare l’entusiasmo popolare, invocando una maggiore produttività e responsabilità, con una campagna demagogica contro i «redditi illegali», il mercato nero, l’alcolismo e così via. Questa mobilitazione burocratica fallì esattamente come quella di Andropov che puntava su metodi polizieschi per migliorare la disciplina sul lavoro.
Per niente scoraggiato, Gorbacev inaugurò il suo primo programma di riforme economiche, la famosa perestrojka, cioè un tentativo di radicale rinnovamento del sistema sovietico. Fin dall’inizio della perestrojka, i politici e gli studiosi si divisero sulla strategia da seguire: si doveva assegnare la priorità ai cambiamenti economici, alla liberalizzazione del mercato interno, come avevano fatto i riformatori cinesi dopo Mao, oppure avviare una democratizzazione del sistema politico? La maggioranza di esperti, rifacendosi all’esempio della Spagna, della Corea del Sud e della Cina, propendeva per una transizione autoritaria all’economia di mercato, in cui la leadership riformatrice avrebbe introdotto la liberalizzazione economica dall’alto con il «pugno di ferro».
Gorbacev ha sperimentato direttamente l’impossibilità di intraprendere la «via cinese» e di introdurre l’economia di mercato, mantenendo nel frattempo un rigido controllo sul sistema politico nelle mani del partito-Stato. L’esperienza di Gorbacev, così come quella dei riformatori precedenti, da Krusciov a Kossygin, ha dimostrato che i tentativi di incoraggiare l’innovazione e di aumentare gli investimenti nei settori la cui produzione sarebbe stata competitiva nell’economia di mercato si scontravano con l’agguerrita resistenza dell’apparato burocratico del partito-Stato e del complesso militare-industriale. Queste due strutture staliniste, a causa della posizione di monopolio e dei privilegi di cui godevano, erano per loro natura avverse all’economia di mercato.
Le speranze dei riformatori al vertice del partito di trasformare il sistema economico, rinviando la riforma del rigido monopartitismo politico a un secondo momento, si rivelarono illusorie. A questo punto Gorbacev si trovò di fronte all’alternativa cruciale: abbandonare le riforme e affidarsi all’enorme inerzia sistemica, come aveva fatto prima di lui Kossygin, oppure scegliere il percorso della democratizzazione della società sovietica. Gorbacev fece la scelta di continuare le riforme favorendo il percorso democratico. Ciò implicava una riduzione della coercizione e l’introduzione di una limitata democratizzazione, di cui le elezioni competitive furono il segno più tangibile. Seguirono una rapida successione di riforme democratiche, incluse campagne per screditare il KGB, elezioni sempre più competitive, una significativa riduzione della censura e infine il ripudio formale del monopolio del potere politico da parte del PCUS. Queste riforme cambiarono in modo sostanziale non solo il carattere del regime politico sovietico, ma anche l’atmosfera sociale nel paese e in tutto il mondo.
Le conseguenze del nuovo corso riformistico di Gorbacev si materializzarono immediatamente, tanto in URSS quanto nella sua sfera d’influenza in Europa orientale. Questa mobilitazione democratica confermò sia il successo delle riforme politiche di Gorbacev sia le conseguenze inintenzionali della perestrojka, che il suo iniziatore non riuscì più a controllare. Gorbacev iniziò una limitata democratizzazione, puntando su un «fronte popolare in difesa della perestrojka». Questo fronte popolare avrebbe dovuto diventare lo strumento della partecipazione di massa a sostegno dei riformatori nella loro lotta contro l’arroccamento dell’apparato del partito e del complesso militare-industriale. Gorbacev, da vero marxista, non ha mai capito l’importanza del nazionalismo come surrogato dei fattori di integrazione in una società in disintegrazione. Ignorò, così, il potenziale della mobilitazione etnica e dei movimenti nazionalisti e separatisti in una società complessa come quella dell’Unione Sovietica.
La democratizzazione, anche se parziale, e la riduzione del ruolo dell’apparato coercitivo, produssero condizioni favorevoli a una mobilitazione di massa che, con sorpresa di Gorbacev e di tutta l’ala riformista, era fondata non sul fattore politico bensì su quello etnico. Le nazionalità si trasformarono in partiti politici, dando origine a forti movimenti separatisti che vennero apertamente allo scoperto nelle Repubbliche baltiche, in Ucraina, Georgia, Moldavia e così via. Le forze del nazionalismo e del secessionismo funzionarono come irresistibili agenti disgregatori in tutti gli Stati multietnici del blocco sovietico, dall’URSS alla Jugoslavia alla Cecoslovacchia.
I risultati più spettacolari della liberalizzazione e della democratizzazione sistemica promosse da Gorbacev si manifestarono nello scenario internazionale con il collasso sorprendentemente rapido del blocco sovietico. Prima delle riforme gorbaceviane, i regimi a partito unico dell’Europa orientale e le loro obsolete economie a pianificazione centrale restavano a galla grazie alle forze militari sovietiche e ai sussidi provenienti da Mosca, che assicurava ai suoi satelliti materie prime e forniture energetiche a prezzi di gran lunga più bassi rispetto a quelli del mercato mondiale. La stabilità interna del blocco sovietico si basava quindi sull’esistenza di un forte centro ridistribuivo che disponeva di risorse massicce e di un esteso apparato militare. Quando questi presupposti vennero meno, l’opposizione di milioni di europei orientali alla sovietizzazione, insieme alla politica di riforme democratiche e al rifiuto dell’uso della forza da parte di Gorbacev, si manifestò nella «rivoluzione di velluto» del 1989.
La grandezza di Gorbacev-riformatore emerge dalle sue azioni a cominciare proprio dal 1989, quando il segretario generale e i suoi fedeli al vertice dell’Unione Sovietica abbandonarono la politica della guerra fredda e rifiutarono sia l’uso della forza sia i suggerimenti dei consiglieri che, condizionati da una Realpolitik vecchio stampo, volevano trattare fino all’ultimo per guadagnare tempo o strappare piccoli vantaggi economici. Gorbacev invece assunse una posizione di principio che ne fa uno dei maggiori statisti del secolo. Riconobbe apertamente la responsabilità staliniana per la sottomissione dell’Europa orientale e cessò le ostilità della guerra fredda, dimostrando la sua buona fede sia ai politici occidentali sia alla propria popolazione. Così la riunificazione della Germania si rivelò d’un tratto realizzabile.
Di fronte alla ferma volontà politica dimostrata dalla popolazione della Germania orientale di abbattere il Muro di Berlino, di uscire dal fallimentare «campo socialista» e porre fine alla divisione della Germania, Gorbacev prese la decisione più importante di tutta la sua politica estera: cedere all’evidente volontà popolare e consentire alla popolazione della Germania orientale di scegliere liberamente il proprio futuro. L’irriducibile Erich Honecker non solo prese le distanze dalla politica della perestrojka, ma con un gesto clamoroso approvò la strage di piazza Tienanmen.
Quando arrivò il suo turno, davanti all’esodo di massa dei tedeschi orientali e alle dimostrazioni oceaniche a Dresda e a Lipsia contro il suo regime, Honecker cercò di assicurarsi l’appoggio militare di Mosca per stroncare la sollevazione popolare e chiese con grande insistenza il permesso di usare le truppe sovietiche di stanza nella Germania orientale, 350 mila militari dotati di aerei e carri armati, per frenare le manifestazioni. Durante la visita a Berlino nel novembre 1989 Gorbacev ammonì il leader tedesco che «la vita avrebbe punito i ritardatari» e che le truppe sovietiche non sarebbero intervenute come avevano fatto nel 1953. Infatti, alle truppe fu dato l’ordine di astenersi da qualsiasi azione repressiva contro i dimostranti. Il governo di Honecker non avrebbe esitato a scatenare una nuova Tienanmen nel centro dell’Europa, prolungando così l’agonia del blocco sovietico. Privato della forza repressiva, però, cadde nel giro di qualche giorno. Ne seguirono l’immediata distruzione del Muro di Berlino e la fine della divisione della Germania.
Il leader sovietico sfidò le certezze dei principali politici dell’Europa occidentale, da Mitterand a Thatcher a Andreotti, convinti sostenitori dello status quo fondato sugli accordi di Yalta e sulla divisione dell’Europa e della Germania, la visione che Giulio Andreotti aveva riassunto in una nota frase: «Esistono due Stati tedeschi e tali devono rimanere». Gli storici comunisti come Giuseppe Boffa interpretarono la decisione di Gorbacev come un segno di debolezza e di perdita di nervi perché il leader sovietico «non volle o non fu in grado e comunque evitò di dire che l’URSS si sarebbe opposta e magari con energia, a tutti i costi, come aveva sempre fatto, all’unificazione della Germania». La vecchia guardia del Cremlino e vari capi del complesso militare-industriale sovietico condannarono duramente la politica di Gorbacev. Come lamentò il maresciallo Jazov, ministro della Difesa che sarebbe diventato uno dei protagonisti del fallito colpo di Stato dell’agosto 1991: «Abbiamo perso la terza guerra mondiale senza aver sparato un solo colpo di fucile».
Gorbacev era ben consapevole dei possibili risultati della sua politica. In un’intervista del 1999 ha detto: “Non è vero quanto scrivono ancora oggi che la caduta del Muro di Berlino fosse inaspettata per me e per tutto il vertice sovietico, provocando a Mosca una specie di shock. Non ci fu niente del genere perché eravamo pronti a questo sviluppo”. Gorbacev ripeteva regolarmente ai suoi stretti collaboratori la frase che nel luglio 1991 disse anche a Kohl a proposito dell’Europa Orientale: “Loro sono “stufi” di noi, ma anche noi siamo stufi di loro”.
Come si spiega la decisione di Gorbacev di chiudere la stagione della guerra fredda? Non c’è dubbio che il leader del Cremlino fu fortemente condizionato dalla pesante crisi sovietica, cha andava dalla catastrofica situazione alimentare all’emergenza nel campo dei rapporti etnici, all’esplosione del secessionismo e all’imminente bancarotta finanziaria. Come ricorda uno dei collaboratori di Gorbacev, Karen Brutenz, negli anni 1989-1991 non ci fu alcun incontro con leader stranieri in cui Gorbacev non chiedesse dei prestiti: «Abbiamo chiesto prestiti a USA e Inghilterra, Italia e Germania, Arabia Saudita e Kuwait, Giappone e Corea del Sud, Cina e Francia, Spagna e Portogallo, Oman e Sudafrica, Qatar e Bahrein, Israele e Canada, e così via». La cifra del debito estero in tre anni è cresciuta di 70 miliardi di dollari, manifestando tutta la debolezza economica del regime sovietico.
Gorbacev decise di non perseguire finalità puramente tattiche, aprendo lunghe trattative con i paesi occidentali per strappare qualche concessione politica e compensazioni più ampie sul terreno economico-finanziario. Infatti, egli puntò sulla buona volontà della Germania e non ne restò deluso. Presentò al governo tedesco un conto molto salato, chiedendo che Bonn coprisse le spese del mantenimento delle truppe sovietiche nella Germania orientale e il costo del loro rimpatrio e reinserimento nell’Urss. Tutto sommato, si deve riconoscere che Mosca ottenne una notevole compensazione da parte della Germania occidentale che per diversi anni cercò di soddisfare nei limiti del possibile le esigenze russe, concedendo prestiti e sussidi per forniture alimentari e più tardi per il risanamento dell’economia.
Come ha giustamente concluso Frances Fitzgerald: “Senza Gorbacev l’Unione Sovietica avrebbe potuto sopravvivere per diversi anni perché il sistema, pur in continuo declino, non era ancora vicino al collasso. Furono proprio gli sforzi di Gorbacev volti a frenare il declino e modernizzare il paese che scardinarono le basi del sistema”. La storia, senza ignorare il fallimento di Gorbacev nel rinnovamento del sistema sovietico, ricorderà i suoi straordinari meriti come riformatore delle relazioni internazionali e come difensore dei diritti umani che rinunciò allo Stato totalitario e alla divisione del mondo in due blocchi contrapposti.