Se il movimento 5 stelle fa il partito della nazione

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Se il movimento 5 stelle fa il partito della nazione

20 Giugno 2016

Lo scivolone di Renzi, già leggibile al primo turno delle amministrative, si conferma in modo rovinoso ai ballottaggi, da cui emerge un quadro frammentato ma inequivocabile.

Il progetto del premier-segretario Pd si articolava su pochi punti molto chiari. Il primo: trasformare il Pd, da partito di sinistra novecentesca, caratterizzato da un’ideologia invecchiata e da un insediamento ormai legato a un sistema di potere più che a una reale rappresentanza sociale, in un classico “partito pigliatutto” all’americana (o, come si è mormorato a lungo, in un “partito della nazione”). Una forza che avrebbe dovuto allargarsi al centro, sottrarre voti ai moderati e anche alla destra, perdendo le caratteristiche più tradizionali, e rinnovando profondamente la propria immagine.

Secondo: proporre il dualismo sistema/antisistema al posto della classica distinzione tra destra e sinistra. Per bloccare il pericolo di un tripolarismo disturbante, l’idea era marginalizzare i cinque stelle consegnandoli esclusivamente al voto di protesta, bollandoli come “unfit” a governare, populisti pericolosi a cui non si poteva dare fiducia. 

Terzo, la rottamazione. Per il ripulisti renziano era necessario trovare personale politico adeguato, in grado di rappresentare in modo visibile la novità, il dinamismo di una classe dirigente giovane, legata al leader, capace di fare squadra uccidendo i giochi interni di corrente.

Ultimo punto, la leadership. Imparata la lezione berlusconiana, Renzi l’ha portata alle estreme conseguenze, forzandola. Il risultato è stato l’uomo solo al comando, l’occupazione dei media, l’ottimismo come strategia comunicativa, con la criminalizzazione dei poveri gufi, e la polarizzazione “o con me o contro di me”.

Tutti questi punti, uno per uno, si sono dimostrati fallimentari o controproducenti. Il partito della nazione, alla fine, l’hanno fatto i cinque stelle, acchiappando voti a destra e manca, aldilà dei tradizionali schieramenti. I grillini hanno catalizzato il consenso del centrodestra ai ballottaggi, come ha dimostrato non solo la vittoria della Raggi, ma soprattutto il caso Torino, dove la Appendino ha rimontato uno svantaggio molto consistente, ribaltando la situazione.

L’opposizione tra destra e sinistra ha resistito, annullando lo schema sistema/antisistema: pur di colpire la sinistra, gli elettori di centrodestra al ballottaggio hanno votato i 5 stelle, dimostrando che sono disposti ad affidare loro il governo di città importanti, addirittura della capitale. Non solo la manovra di allargamento al centro da parte del Pd non è riuscita, ma si conferma che tra destra e sinistra esiste una profonda estraneità culturale.

La nuova classe dirigente giovane, che avrebbe dovuto segnare la discontinuità con il vecchio Pd, si è eclissata, o è apparsa scolorita e poco significativa. La forte caratterizzazione personale, “o con me o contro di me”, che il leader imprime a tutte le sue battaglie, gli si è ritorta contro: Renzi non ha capito che gli italiani non lo amano.

Alla sua leadership manca calore e condivisione popolare. Mentre Berlusconi spaccava in due l’Italia, era appassionatamente amato o appassionatamente odiato, il premier toscano non ha la capacità di coinvolgere, di mettersi al livello dell’interlocutore, che aveva l’altro.

Il progetto renziano, dunque, si è sbriciolato contro la resistenza degli elettori, e la situazione è quanto mai fluida.

Il centrodestra, invece, si è presentato al voto senza un progetto, e senza un leader. O meglio: con più progetti e più aspiranti leader. Dopo il primo turno, con il suicidio messo in atto a Roma, e il buon risultato di Parisi, in molti hanno sottolineato come “uniti si vince”: se si mettono insieme tutti gli spezzoni del centrodestra, e si torna a un’alleanza larga e inclusiva, si è ancora competitivi. La sconfitta, sia pure per poche migliaia di voti, di Milano, temo metta in forse questo assioma.

A cosa si deve la rimonta di Parisi, che all’inizio era dato molto indietro rispetto a Sala, al candidato o allo schieramento? E’ il centrodestra unito, che sfiora la vittoria, o è l’apporto di un candidato civico che fa la differenza? Difficile dirlo, ma Milano va analizzata alla luce del caso romano.

A Roma la Meloni ha colto un successo che in realtà è stata una sconfitta, non solo per l’intero centrodestra, ma anche per Fratelli d’Italia e la Lega, che la sostenevano. Anche aggiungendo i voti di Forza Italia Giorgia non sarebbe arrivata al ballottaggio, e il consenso ottenuto è dovuto, oltre che alla sua personale popolarità, alla capacità di presentarsi come la “vera” candidata di centrodestra.

Eppure Meloni non è riuscita a bissare il risultato di Fini contro Rutelli, e non ha scalfito l’area dei 5 stelle, pur entrando in competizione con loro come contenuti e stile della campagna elettorale. La lezione che se ne può trarre è che il metodo grillino non è imitabile, e che agitare temi e toni populisti porta a piccoli successi personali ma a grandi sconfitte per un progetto di governo.

A Milano, invece, si è visto uno stile profondamente diverso: una candidatura che si è mossa in modo autonomo, senza farsi troppo condizionare dai partiti che aveva alle spalle e dalle loro divisioni, che ha affrontato i problemi senza toni roboanti ma con efficacia e serietà, e che ha portato in dote quel “di più” civico a cui si è rinunciato nella capitale.

Ma la mancanza di progettualità dello schieramento, le contraddizioni interne (qualcuno dentro il governo e qualcuno all’opposizione), hanno influito, e alla fine non si è riusciti a dare al candidato quello slancio ulteriore di entusiasmo e di coesione che serviva per la volata finale.

Per tornare a vincere, più che l’unità aritmetica dello schieramento pesano i contenuti, la capacità di svecchiarsi assorbendo nuova linfa dall’impegno civico “vero” (non certe liste civiche fittizie di cui si è riempita l’Italia) e di fare anche un passo indietro. Per il centrodestra c’è spazio, e queste elezioni l’hanno dimostrato, ma bisogna accettare un rinnovamento autentico, volti nuovi, contenuti adeguati agli enormi mutamenti intervenuti, e aggiungere un po’ di generosità.