Se il Pd dovesse implodere sarebbe un danno per tutti
18 Febbraio 2009
Da uno dei territori più autonomisti d’Italia, la Sardegna, paradossalmente è giunto al centrodestra un segnale di portata nazionale: il nascituro Popolo della Libertà può guardare al futuro con ottimismo. Detta così, sembra un’assoluta ovvietà. Ma a ben vedere, i test regionali seguiti alle elezioni politiche, il modo in cui Silvio Berlusconi e il PdL hanno scelto di interpretarli, e le vittorie conseguite, confermano che attorno al leader e alla sua forza carismatica sta prendendo forma una classe dirigente consapevole, in grado di irradiarne il carisma sul territorio.
Si stanno muovendo i primi passi, insomma, verso la concretizzazione di quel modello di partito carismatico a vocazione maggioritaria che Max Weber aveva ben delineato attorno a un cardine: l’alleanza tra il leader e le classi dirigenti locali, ancor più importante oggi che la concorrenza al Nord della Lega e al Sud di altre formazioni ci pone di fronte alla sfida della territorializzazione della politica.
La Sardegna, dunque. La vittoria elettorale è innanzi tutto un trionfo di Silvio Berlusconi. E’ inoltre la conferma della solidità di una base elettorale di cui qualche poco lungimirante cassandra alcuni anni fa aveva pronosticato una rapida dissoluzione. E, per quanto riguarda il momento contingente, è un inequivocabile segnale di gradimento nei confronti di quel "decisionismo" di cui, nel merito così come nel metodo, il presidente del Consiglio ha dato dimostrazione con il decreto relativo alla vicenda di Eluana Englaro.
Da un punto di vista interno al PdL e alle forze che in esso si apprestano a confluire nell’ormai imminente congresso, l’affermazione di Ugo Cappellacci è la consacrazione ulteriore, dopo la precedente esperienza dell’Abruzzo, di un’idea di PdL che vada oltre la sommatoria tra i partiti che lo compongono e sappia trasmettere, nell’immagine così come nella concretezza, il senso di quel rinnovamento di sostanza e di linguaggio che è coronamento della lunga marcia intrapresa nel 1994.
Quanto invece al rapporto con gli alleati, vale la pena soffermarsi su due aspetti. La questione Lega, innanzi tutto. La Sardegna non è la Lombardia, naturalmente, né il Veneto né il Trentino Alto Adige. Ma un’affermazione così netta a ridosso delle europee e delle amministrative di primavera dovrebbe servire al PdL per recuperare quello slancio che il cammino del federalismo fiscale e la centralità mediatica del tema dell’immigrazione avevano parzialmente fiaccato a tutto vantaggio dell’alleato-concorrente. Consapevolezza sì, complessi di inferiorità assolutamente no. In Sardegna, e anche in Abruzzo, il PdL ha messo alla prova una strategia per le elezioni amministrative in grado di coniugare la forza e l’immagine nazionale del leader e la capacità di cogliere, anche sfruttando il sistema delle alleanze, istanze di carattere locale: in Abruzzo lo si è fatto attraverso la lista civica "Rialzati Abruzzo", in Sardegna attraverso l’alleanza con gli autonomisti. E ha scelto di sostenere due candidati – Gianni Chiodi e Ugo Cappellacci – che, pur nella loro diversità, hanno in comune quell’immagine di uomini preparati e di buon senso nella quale ogni cittadino può identificarsi, e che così spesso ha determinato la fortuna della Lega che ne ha fatto la sua bandiera contro la cosiddetta "politica politicante".
C’è poi la questione Udc, che torna a riproporsi in un momento particolarmente significativo, nel quale il dramma di Eluana Englaro e il dibattito che ne è derivato hanno evidenziato un comune sentire che sarebbe un errore non considerare. E’ indubbio che il partito di Casini abbia avuto in Sardegna un considerevole consenso. Ma se si paragona questo dato con i risultati abruzzesi, appare chiaro che a trainare il partito centrista è l’alleanza con il PdL e non certo la vocazione minoritaria di un identitarismo fuori dal tempo e dalla storia. E se a dicembre tale alleanza non si è realizzata, lo si deve anche al fatto che non si può pretendere di correre nella stessa tornata elettorale col Pd in Trentino e col PdL in Abruzzo.
L’ultimo spunto di riflessione riguarda infine il pericolo che il Partito democratico possa definitivamente implodere. E’ un’eventualità che da bipolaristi responsabili non dobbiamo neanche lontanamente augurarci, ma che non possiamo non considerare soprattutto alla luce della scelta di Walter Veltroni di confermare le sue dimissioni. Non è un bene, perché se l’Italia fino ad oggi sembrava avviata ad essere una nazione moderna, tendenzialmente bipartitica, lo si è dovuto a due scelte convergenti non ancora consolidate da nessun atto di riforma, ad eccezione della soglia di sbarramento del 4% alle europee, che non basta ma è pur sempre un inizio. Se la spinta da sinistra viene meno, le cose non possono che complicarsi.
Anche noi, come ha fatto Concita De Gregorio sull’Unità all’indomani della disfatta sarda, ci auguriamo che dopo aver toccato il fondo il Pd possa risalire. Ce lo auguriamo per il Paese, per il sistema e anche per il nascente Popolo della Libertà. Sappiamo che mentre le oligarchie rincorrono ognuna le proprie rendite di posizione, l’unico Pd che come avversario ci può far paura, e che quindi paradossalmente auspichiamo possa consolidarsi, è quello incarnato da Matteo Renzi a Firenze. Non si tratta di un altro Veltroni (come Renato Soru), ma di una persona che, nel suo ambito, può portare il Pd a lanciare la sfida al PdL sul terreno moderato. Deve far riflettere il fatto che nelle sue prime interviste all’indomani della vittoria alle primarie Renzi sembra aver rivendicato il suo successo "contro" il partito e non "nel" partito. Questo è ancor più significativo della sconfitta di Soru o delle guerre fratricide fra le dirigenze nazionali. Saprà il Pd comprendere la lezione?