Se il popolo sovrano è, come Gulliver, un gigante incatenato
18 Gennaio 2010
Si può dire che da quando ha fatto la sua apparizione, nella storia dell’Occidente, la democrazia – il governo del popolo – come “forma di governo” alternativa all’aristocrazia – il governo dei migliori che quando cessano di essere tali instaurano l’oligarchia – e alla monarchia – il governo di uno solo – , non sono mancati, accanto ai pochi apologeti i molti critici. Tra questi ultimi un posto d’onore va a Platone che in diversi dialoghi e nelle ‘Lettere’ denuncia i mali della partecipazione del demos alle decisioni politiche. In particolare, nel libro VI della ‘Repubblica’ scrive: “Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quante ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, son dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui; che i giovani pretendono gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi e questi, per non parere troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo né rispetto per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia”. Tra i pochi difensori troviamo Otane uno dei tre personaggi che, nelle ‘Storie’ di Erodoto, illustrano il rispettivo punto di vista sulle ‘forme di governo’ – gli altri due sono Megabizo, difensore dell’aristocrazia e Dario, sostenitore, pour cause, della monarchia. “Il governo popolare, fa rilevare, anzi tutto ha il nome più bello di tutti, l’uguaglianza dinanzi alla legge, in secondo luogo niente fa di quanto fa il monarca, perché a sorte esercita le magistrature ed ha un potere soggetto a controllo e presenta tutti i decreti dell’assemblea generale. Io dunque propongo di abbandonare la monarchia e di elevare il popolo al potere, perché nella massa sta ogni potenza”. Ma soprattutto è rimasto fulgido esempio della saggezza dell’Occidente la difesa che della democrazia fa Pericle, nella ‘Storia della guerra del Peloponneso’ di Tucidide. Nel discorso di commemorazione dei caduti del primo anno di guerra, lo statista pronuncia parole che ancora oggi destano una profonda commozione in quanti hanno a cuore la libertà e la dignità dei popoli. ”Noi abbiamo una forma di governo che non guarda con invidia le costituzioni dei vicini, e non solo non imitiamo altri, ma anzi siamo noi stessi di esempio a qualcuno. Quanto al nome, essa è chiamata democrazia, poiché è amministrata non già per il bene di poche persone, bensì di una cerchia più vasta: di fronte alle leggi, però, tutti, nelle private controversie, godono di uguale trattamento; e secondo la considerazione di cui uno gode, poiché in qualche campo si distingue, non tanto per il suo partito, quanto per il suo merito, viene preferito nelle cariche pubbliche; né, d’altra parte, la povertà, se uno è in grado di fare qualche cosa di utile alla città, gli è di impedimento per l’oscura sua posizione sociale”. E conclude con orgoglio: “In una parola, io dico che non solo la città nostra, nel suo complesso, è la scuola dell’Ellade, ma mi pare che in particolare ciascun Ateniese, cresciuto a questa scuola, possa rendere la sua persona adatta alle più svariate attività, con la maggior destrezza e con decoro, a se stesso bastante”.
Come si vede, due immagini diverse della stessa forma di governo, due diverse filosofie politiche che, nel precipitare dei secoli, si riproporranno spesso in termini quasi immutati.
Ci sono volute due guerre mondiali, il trauma dei regimi totalitari di destra e di sinistra, le violenze innescate dai nazionalismi e dai fanatismi ideologici religiosi e laici per far pendere la bilancia dalla parte di Otane e di Pericle. Per usare una facile metafora, oggi siamo consapevoli che la democrazia, come la libertà, è come l’aria: non se ne può fare a meno se si vuol preservare il rispetto di sé. L’aria può essere inquinata finché si vuole ma rimane indispensabile alla vita: se si respira troppo smog ne viene un danno sicuro ai polmoni ma al danno non si rimedia rifugiandosi nel vuoto dello spazio intergalattico. Tutte le volte che nei paesi occidentali, per rimediare ai suoi inconvenienti – decisioni non meditate, sindromi demagogiche, clientelismo, voto di scambio etc. – la democrazia è stata soppressa, si è ripetuta la classica esperienza della caduta dalla padella nella brace. I popoli hanno pagato a caro prezzo il rispetto dell’ordine e della legge e, sui tempi lunghi, la pacificazione sociale imposta dall’alto ha scatenato violenza e guerre civili.
Eppure oggi c’è chi ripropone il discorso (antico) della ‘crisi della democrazia’ in termini di ‘déjà vu’. Ai cultori della filosofia del linguaggio e della retorica vengono in mente le ‘nozioni confuse’ di cui parlava Eugéne Dupréel, il maestro belga di Chaim Perelman. Ci troviamo dinanzi a espressioni del linguaggio comune, a modi di dire, a massime di saggezza la cui comprensione sembra alla portata di tutte le intelligenze ma il cui significato è avvolto in una fitta nebbia di equivoci e di contraddizioni.”O tempora, o mores” dicevano gli antichi e ripetono i moderni: ma quali sono poi i vizi sottesi a ‘lamentationes’ che, in apparenza, trovano tutti concordi?
Siamo sicuri che i capi d’accusa rivolti alla democrazia “reale” (adopero l’aggettivo nello stesso doppio senso in cui lo si adopera trattando del “socialismo reale”, dove può significare tanto una pratica che contraddice le idealità contenute nella teoria quanto una pratica che mostra a quali spiacevoli esiti porti, invece, la teoria, qualora la si prenda sul serio) siano tali per ogni critico, sia esso un intellettuale o un ‘uomo qualunque’ che discetta di politica in treno per passare il tempo? Citiamone qualcuno, a volo d’uccello:
– L’incompetenza (il voto del colto e dell’analfabeta, del farabutto e della persona onesta stanno sullo stesso piano);
– L’eccesso di potere decisionale (il popolo, o meglio la maggioranza, può tutto, tranne cambiare un uomo in donna, come diceva quel deputato inglese, ignaro che la biotecnologia ora è in grado anche di trasformare un genere in un altro);
– L’emotività (il popolo si lascia guidare dai suoi impulsi e dalle sue passioni più che dalla ragione:v. la condanna a morte di Socrate o l’episodio del ‘Crucifige’ al quale Gustavo Zagrebelsky ha dedicato addirittura un libro);
– L’influenzabilità (il popolo cambia idea, in maniera repentina, dinanzi a un messaggio o a una forte personalità che riesce a toccarlo dov’ è il suo debole’: v., nel ‘Giulio Cesare’ di Shakespeare il repentino mutamento di umore che porta la plebe, dopo aver sentito il discorso di Marco Antonio sugli ‘uomini d’onore’,a incendiare le case dei congiurati, Bruto e Cassio);
– L’eccesso di lentezza (quando servono decisioni rapide, il popolo si perde in chiacchiere:è allora che si avverte il bisogno di un leader decisionista, che non stia a perdere tempo per spiegare e per convincere)o, al contrario,
– l’eccesso di velocità (laddove occorre ponderazione, in virtù della materia da trattare, il popolo o i suoi rappresentanti si tolgono presto d’impiccio: per questo i grandi liberali, come Tocqueville, erano favorevoli al bicameralismo, ritenendo che la seconda Camera smorzasse gli entusiasmi e consentisse una più accurata riflessione sul da fare);
– La tendenza a dimenticare (i benefici ricevuti- v. l’ingratitudine verso i “salvatori della patria”)o i torti subiti a causa di un superficiale buonismo disposto a perdonare se il perdono non costa niente) o ,al contrario,
– la tendenza a ricordare troppo (che porta a covare la vendetta anche quando i protagonisti di eventi disgraziati sono da tempo morti e sepolti).
Sarebbe fin troppo facile dimostrare che non v’è ‘forma di governo in cui il sovrano – il popolo in democrazia, le elite nell’aristocrazia, il re nella monarchia – sia immune dai vizi sommariamente elencati, riconducibili, in ultima istanza, a quei ‘difetti di fabbricazione’ che contrassegnano il ‘legno storto’ dell’umanità – la trascrizione laica fatta da Kant del ‘peccato originale’ (architrave, sia detto en passant della filosofia liberale: che senso avrebbero, infatti, i freni e i contrappesi, le garanzie dagli abusi dell’autorità, i recinti invalicabili della ‘privacy’se non si partisse dal presupposto che, per la fragilità della natura umana, il potere corrompe e, pertanto, ce ne dobbiamo difendere?). Il problema è quello di stabilire se quei ‘difetti di fabbricazione’ fanno più danni in una democrazia che nelle altre due forme di governo, se sia preferibile, ad es., che il sovrano, nel caso del re, sia influenzato dalla sua favorita o, nel caso del popolo, dal ‘trascinatore delle folle.’E qui i ‘giudizi di fatto s’intrecciano, in nodi inestricabili, ai giudizi di valore sicché diventa difficile venirne a capo e accordarsi su criteri scientifici, ovvero intersoggettivi, di comparazione.
Sennonché, lasciando alle nostre spalle l’irrimediabile ginepraio, nel quale, come sapevano i nostri padri romani, si finisce sempre per constatare la verità della massima “tot capita, tot sententiae”, sembra più proficuo sottoporre a una seria analisi, ovvero a una trattazione non ideologica, l’ambigua espressione “crisi della democrazia”: non per trovare convergenze etiche ma per stabilire un comune terreno d’intesa in cui le parole rivestano lo stesso significato per tutti. Per semplificare, quando leggiamo libri e articoli sulla “crisi della democrazia”, ci imbattiamo in due diverse accezioni:
a) c’è crisi della democrazia perche il popolo ormai non conta più niente:
b) c’è crisi della democrazia perché il popolo – o quanti parlano in suo nome, leader di partito, fondatori di movimenti populisti , intellettuali militanti – conta troppo.
Talvolta le due tesi slittano l’una nell’altra: il popolo conta poco, si sostiene, perché lo si è espropriato della sua sovranità ma i responsabili, gli usurpatori, che sventolano la bandiera della democrazia, quelli sì che continuano a contare e in modo tale da mettere in pericolo i diritti e le libertà dei cittadini. Più spesso le due lamentationes sono espressioni (peraltro legittime) di sentimenti politici che si servono delle stesse parole per significare cose opposte.