Se io fossi Fini ragionerei bene su chi (e perché) mi consiglia certe scelte
08 Marzo 2010
Nelle prossime settimane sarà possibile valutare bene gli effetti che le vicende delle liste elettorali hanno prodotto sull’opinione pubblica. Così a occhio si è partiti da una certa deplorazione per i disordini del centrodestra a un’esterrefatta constatazione dell’indifferenza del centrosinistra per il peso del voto dei cittadini nonché a una nuova riconferma (non del tutto tollerata dai cittadini) dell’attitudine combattente di ampi settori della magistratura.
Comunque prosegue lo scontro tra chi cerca di stabilizzare la democrazia italiana e chi vuole disgregarla. Di quest’ultima tendenza fa parte tutta la propaganda sui prossimi partiti che si verrebbero a creare a medio termine: Gianfranco Fini ne starebbe preparando uno, così Walter Veltroni, così Luigi De Magistris. Cornice di tutti questi progetti sarebbe un ritorno al proporzionale per cui già sono impegnati attivamente Carlo De Benedetti (che ha aiutato a fondare il partito di Francesco Rutelli), Massimo D’Alema e Pierferdinando Casini: sia pure molto differenziati e divisi tra loro. Molto del programma minimo dei neoproporzionalisti poggia sul rafforzamento dei poteri della magistratura militante-corporativa: istruttiva oltre la vicenda delle liste per cui i radicali, passati da splendidi combattenti dei conformismi a guardie armate del regime in toga, hanno lavorato per consegnare regioni fondamentali come Lazio e Lombardia alla discrezionalità dei togati, anche quella dell’arbitrato nei conflitti di lavoro. Consentire a lavoratori e imprenditori di adire ad arbitrati invece che a giudizi in tribunale, significherebbe distruggere il diritto del lavoro. Esemplare in questo senso la protesta dell’Anm: ci togliete potere. L’idea di una società libera in cui non tutto passa per una corporazione sempre più pervasiva, per cui si vota o ci si accorda senza bisogno di una toga, diventerebbe la distruzione del diritto.
La prevalenza della tendenza alla disgregazione con restaurazione di un regime partitocratico sotto tutela delle toghe combattenti non è scontata: quello dei magistrati è un potere formidabile (basta analizzare la gestione delle ultime inchieste tutto giocata sugli effetti d’immagine invece che su procedure da paese civile) ma non semplice da unificare. Ce l’avevano fatta Luciano Violante e Francesco Saverio Borrelli ma il loro fallimento ha lasciato dietro un fronte molto scomposto. L’omino di De Magistris, o viceversa probabilmente, Gioacchino Genchi attacca Nello Rossi uomo chiave di magistratura democratica. Marco Travaglio assedia Piero Grasso e Livia Pomodoro, elementi centrali dell’area liberal delle toghe. Francesco Greco e Armando Spataro lottano per chi comanda a Milano. Una corte d’appello del tribunale di Palermo nel processo a Marcello Dell’Utri spiega come Antonio Ingroia e i pm che hanno ascoltato con riverenza Massimo Ciancimino siano dei completi incompetenti.
Il potere delle toghe (che è diverso da quello della Legge basata sulla sovranità del potere esecutivo e legislativo, su distinzioni di ruoli tra giudici e inquirenti, e su reali contrappesi) non può non avere una natura feudale e senza imperatori deflagra. Ma tutto ciò non stabilizza la democrazia italiana corrosa da più generali tendenze disgregatrici (anche se poi nella società civile grazie a ministri come Maurizio Sacconi e Giulio Tremonti, innanzi tutto emergono forti spinte alla conciliazione).
Anche l’ultimo editoriale di Ernesto Galli della Loggia contro il berlusconismo ha un certo saporino disgregativo. Non tanto per le critiche in sé, alcune corrette anche se prive di un adeguato contesto storico, al centrodestra. Bensì perché sembra riaffacciarsi l’idea che le partite non le debbano giocare gli atleti bensì gli arbitri. Questa volta parrebbe che si voglia puntare per la solita operazione del governo dei tecnici, dei migliori, dei presidenti su Gianfranco Fini. Galli della Loggia che pure aveva avuto una funzione critica meno puntata alla disgregazione (nell’ala intellettuale del montezemolismo questa funzione è passata essenzialmente agli opinionisti raccolti dal Sole 24 ore) sembra avere deciso di cambiare linea. Forse pesa l’indicazione che ha dato l’intellettuale più fine di questa tendenza, Paolo Mieli, particolarmente ascoltato da Fini, per cui si sarebbe assai vicini a un cambiamento di fase politica.
Il che non è impossibile anche se l’attivarsi dei montezemoliani sia materiali (quelli che si occupano del soldo) sia di quelli delle idee pare più riflettere una disperazione che una speranza. Il montezemolismo è il frutto ormai degenrato di una tendenza non priva di gloria e fulgore determinata dalla centralità di Torino nella storia nazionale: questa centralità con tutto il suo peso che si è portata dietro di cultura laica sia moderata sia radical-azionista poggiava all’inizio sul potere sabaudo e si era quasi naturalmente trasmesso alla Fiat. L’annuncio della prossima detroitizzazione della casa automobilistica suona come un segnale tremendo per i montezemoliani di ogni specie (questo si è un cambiamento di epoca altro che di fase) che vedono crearsi nuovi assi nell’establishment (vedere i movimenti di Giovanni Bazoli, Tremonti, Cesare Geronzi e connessi). Questo spinge a cariche un po’ improvvisate e senza le abituali “garanzie” di successo. Se io fossi Fini ragionerei bene su chi mi suggerisce e perché mi vengono consigliate certe scelte.