Se Israele non userà la forza prepariamoci a un Iran nucleare
06 Luglio 2009
Adesso che i mullah fautori della linea dura e le Guardie della Rivoluzione Islamica hanno ripreso decisamente il controllo dell’Iran, è più urgente che mai capire se Israele deciderà di impiegare la forza militare contro il programma di armi nucleari di Teheran.
Non ci sono mai stati dubbi sulla minaccia nucleare iraniana durante la campagna per le presidenziali, ma la resistenza dopo le elezioni aveva riaperto la possibilità di una qualche forma di “cambio di regime”. Ora questa prospettiva sembra persa nel breve periodo o perlomeno fino a quando l’Iran non avrà ultimato la sua capacità di dotarsi dell’arma nucleare. Di conseguenza, e mancando altre opzioni tempestive, la logica altrettanto convincente di un attacco israeliano sta diventando quasi inesorabile. Sicuramente Israele ha messo in moto gli ingranaggi del suo processo decisionale. Ma è quasi altrettanto certo che Obama non lo sta facendo.
Obama cerca sempre una qualche forma di “partecipazione” (un termine particolarmente evocativo in questo momento) con l’attuale regime dell’Iran. Giovedì scorso, il Dipartimento di Stato ha confermato che Hillary Clinton ha parlato con le sue controparti russe e cinesi circa la possibilità di “riavere l’Iran a negoziare su alcune di quelle preoccupanti questioni che interessano la comunità internazionale”. Questo è precisamente il punto di vista del ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov, com’è stato riportato il giorno successivo in un comunicato del G8. Il Senatore John Kerry pensa che le recenti tensioni sul voto a Teheran ritarderanno i negoziati solo di qualche settimana.
Fonti dell’amministrazione Obama hanno ipotizzato (in modo anonimo) che l’Iran sarà più entusiasta di negoziare adesso, rispetto al periodo prima delle elezioni, perché sta tentando di trovare una qualche “approvazione” all’interno della “comunità internazionale”. Altre voci hanno fatto trapelare che i negoziati dovrebbero produrre dei risultati prima dell’apertura della prossima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per la fine di settembre; altre ancora hanno previsto che i negoziati dureranno fino alla fine del 2009 per mostrare se ci sono dei progressi. Questi scenari trasparenti presuppongono che al regime di Tehran interessi qualcosa della “approvazione” o meno della comunità internazionale, o che si senta in qualche modo imbarazzato dal fatto di aver eliminato i suoi nemici. Entrambe queste proposizioni suscitano dei dubbi.
Ciononostante Obama proverà a spronare i negoziati bilaterali con l’Iran, anche se il tempo stringe rispetto alla tempistica trapelata sui media. Ci sono due problemi nell’approccio di Obama. In primo luogo, Teheran non andrà a negoziare in buona fede. Non l’ha fatto negli ultimi sei anni con l’Europa che faceva da supplente agli Stati Uniti, e non comincerà a farlo adesso. Come ha detto la Clinton martedì, l’Iran ha un gap di “mancanza di credibilità” che gli deriva dai brogli elettorali. In secondo luogo, visti i progressi del nucleare iraniano, se anche si trovasse un accordo sulle pesanti sanzioni minacciate da Obama queste ultime non impedirebbero all’Iran di fabbricare armi e "sistemi di consegna" quando vuole, come si è sforzato di fare in questo ventennio. C’è troppo poco tempo, e le sanzioni hanno fallito molto tempo fa.
Solo coloro che si sono impegnati quasi teologicamente nei negoziati credono ancora che l’Iran rinuncerà completamente al suo programma nucleare. Sfortunatamente l’amministrazione Obama ha formulato un “Piano B” che permetterebbe a Teheran di avere un programma di energia nucleare a “scopi pacifici”, “rinunciando” pubblicamente all’obiettivo di dotarsi di armi nucleari. Obama potrà anche definire questo risultato “un successo”, ma in realtà non sarebbe molto diverso da ciò che l’Iran sta facendo e dicendo in questo momento. Un programma “pacifico” di arricchimento dell’uranio, reattori nucleari “pacifici” come a Bushehr, progetti “pacifici” di acqua pesante come quello in costruzione ad Arak, lasceranno l’Iran con un’enorme capacità di produrre armi nucleari su ordinazione e in breve tempo. E chiunque crede che le Guardie della Rivoluzione Islamica abbandoneranno la loro corsa agli armamenti e i programmi sui missili ballistici probabilmente pensa anche che non ci sia stata nessuna frode durante le elezioni del 12 giugno scorso. Occhio alla “mancanza di credibilità”, come sopra.
Praticamente le elezioni rubate e i tumulti che ne sono seguiti hanno evidenziato in modo drammatico le debolezze tattiche e strategiche nel “game plan” di Obama. Con il “cambio di regime” che attualmente non è più proponibile – visto che stiamo andando verso un periodo critico nel programma di sviluppo nucleare iraniano – diventa più facile e più urgente che Israele decida di impiegare la forza. Visto che è improbabile che la diplomazia riuscirà a partire o a finire in tempo, e visto che se anche ci fossero dei progressi non comporterebbero nessuna reale differenza, aspettare che finiscano i negoziati non ha senso. Infatti considerando che a breve, e certamente, Obama cambierà la sua definizione di “successo”, i negoziati rappresentano una trappola ancor più pericolosa per Israele.
Per quelli che si oppongono alla possibilità che l’Iran ottenga armi nucleari rimane solo l’opzione di un attacco militare mirato contro le strutture belliche iraniane. La cosa significativa è che la rivolta in Iran favorisce una efficace campagna pubblica della diplomazia che informi gli iraniani sulla natura dell’attacco israeliano, chiarendo che sarebbe diretto contro il regime e non contro la popolazione dell’Iran. Questo è sempre stato vero, ma è diventato ancora più importante – se vogliamo capire chiaramente perché va fatto – nel momento in cui l’abisso che si è aperto tra la Rivoluzione Islamica del 1979 e i cittadini dell’Iran non è mai stato più grande ed evidente. Attacchi militari contro il programma nucleare iraniano e l’obiettivo finale del “cambio di regime” possono lavorare insieme coerentemente.
Altrimenti preparatevi a un Iran con armi nucleari che alcuni, compresi i consiglieri di Obama, credono di poter affrontare con il contenimento o la deterrenza. Questa non è una ipotesi che dovremmo mettere alla prova nel mondo reale. Il costo di questo errore potrebbe essere fatale.
John R. Bolton è "senior fellow" presso l’American Enterprise Institute. E’ stato ambasciatore degli Stati Uniti alle Nazioni Unite dall’agosto del 2005 al dicembre del 2006. Ha scritto “Surrender Is Not an Option; Defending America at the United Nations and Abroad”, tra gli altri.
Tratto da Washington Post
Traduzione di Ashleigh Rose