Se la democrazia fosse una categoria dello spirito gli uomini sarebbero Dei
19 Luglio 2009
La celebre affermazione di Rousseau secondo la quale “Se ci fosse un popolo di Dei, si governerebbe democraticamente” è leggibile in un duplice senso: il primo come convinzione della superiorità della forma di governo democratica sopra tutte le altre, tanto da renderla adatta agli Dei, e il secondo come consapevolezza che il governo democratico è il più difficile da realizzare, tanto da renderlo possibile per un popolo di Dei dotati di ogni virtù ma non per un popolo composto da esseri umani.
La frase costituisce l’epigrafe del breve volume di Jean-Luc Nancy dal titolo "Verità della democrazia", ma l’autore non la usa né in un senso né nell’altro dei due ricordati. Di fronte alle accuse rivolte in Francia al maggio ’68 come punto di partenza di una rivolta contro la moralità e i valori, Nancy identifica invece il nocciolo di quel movimento nella critica della democrazia gestionale (per inciso, che cos’è la democrazia gestionale?), e si propone di proseguire quella critica. Il ’68 non è a suo parere riconducibile a una rivolta né alla richiesta di riforme, non a una rivoluzione né a una contestazione, non a una ribellione né a una insurrezione: la sua essenza sta in una interrogazione sulla verità della democrazia. Così, Nancy riconduce il ’68 alla profonda, anche se poco manifesta, delusione provata dopo la fine della seconda guerra mondiale nei confronti, appunto, della democrazia: quella democrazia che era tornata trionfalmente a guidare l’Occidente in seguito alla sconfitta dei totalitarismi. In questo senso il ’68 si rivela nella storia “necessario” e non solo “possibile”. La sua necessità dipende dallo stato di profonda incertezza nel quale ci si trovava in quel momento rispetto ai tentativi di “un relativo concerto o di una concertazione, se non di un consenso, del mondo delle nazioni democratiche e l’inizio di un diritto internazionale”: la seconda guerra mondiale appariva come “la deplorata interruzione” di questo processo di pace, mentre in realtà “l’incertezza minava tacitamente ciò che voleva essere una grande ‘ricostruzione’ (..) emblematica dello spirito democratico del tempo”.
Sorgono subito delle obiezioni: la seconda guerra mondiale non viene percepita di per sé come un dramma in quanto interruzione della pace e di progetti di diritto mondiale, quanto piuttosto come la fine dei totalitarismi. Si presenta come una lotta fra le democrazie e i totalitarismi, una lotta dura ma anche giustificata (per quanto una guerra lo possa essere) dalla identità del nemico da battere. E’ ai totalitarismi che viene addebitato di aver messo fine a un’epoca che sembrava essere indirizzata verso una risoluzione concordata e ragionevole dei conflitti internazionali, anche se la Grande guerra aveva già messo una pietra sopra tali speranze.
Il punto è che Nancy non ritiene “totalitarismo” un concetto valido per definire i regimi fascisti e comunisti esistenti fra le due guerre. Idea superficiale e tranquillizzante per la coscienza europea, “totalitarismo” metteva al riparo le democrazie vittoriose con la seconda guerra da ogni accusa che le riguardasse: da una parte stavano i totalitarismi cattivi, dall’altra le democrazie che con quelli non avevano niente a che fare. Qui sorge una nuova obiezione: basta leggere Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt (che esce negli anni della Guerra fredda e lancia su grande scala l’uso del termine, per quanto non sia affatto il primo esempio in tal senso) per trovare le fonti di fascismo, nazismo e stalinismo proprio nelle caratteristiche maggiori delle società democratiche di massa che erano cresciute per tutta la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Comunque, tornando a Nancy, l’uso del termine “totalitarismo” impediva a suo parere di ritrovare nella democrazia le origini del totalitarismo, impediva di poter pensare che la democrazia era inadeguata rispetto alla sua stessa idea, impediva di pensare la verità della democrazia.
Quando si discute di politica contrapporre il vero al falso è di utilità molto discutibile. Che cosa significa cercare la “verità” di un regime, di una forma di governo? Significa darne una rappresentazione adeguata, un concetto che serva a comprenderlo rispetto ad altri, a spiegarne funzionamento e problemi? O significa qualcos’altro e qualcosa di più che non riusciamo a esprimere, che va oltre la politica stessa? E’ proprio questa l’idea che Nancy propone della democrazia: essa gli consente di parlarne in termini di verità e falsità.
Ma – e qui torniamo al problema aperto dalla frase iniziale di Rousseau – gli esseri umani sono adatti alla verità, a ciò che è vero, essenziale e dunque perfetto, o solo a ciò che è probabile, e dunque abbastanza buono, non male, good enough? La convinzione che gli esseri umani siano adatti alla verità e che solo questa debba essere riservata loro conduce alla ricerca del regime vero, più vero di tutti gli altri; la consapevolezza dei limiti dell’essere umano porta, al contrario, a considerare adatto a lui un regime non vero, non essenziale, non perfetto, ma solo abbastanza buono. Nietzsche è un grande pensatore: geniale, paradossale, audace. Ma forse non è il miglior Virgilio che ci si possa augurare come guida in un viaggio nei sistemi politici.
Questo invece sta a cuore a Nancy: leggere la politica con gli occhi improntati al nietzscheanesimo e all’heideggerismo, dar seguito alla critica portata da Heidegger alla rappresentazione come rispecchiamento del mondo, alla concezione del mondo come scelta soggettiva, e dunque – per estensione – alla politica come previsione di un obiettivo futuro da raggiungere. Per Nancy bisogna piuttosto “esporre gli obiettivi stessi (della politica) (..) a un superamento di principio: a ciò che una previsione non è in grado di esaurire perché questo mette in gioco un infinito in atto”. Nancy ritiene che questa sia la prospettiva da adottare quando si prenda in esame un regime politico, un programma, un movimento. Per il nostro autore la democrazia è quel sistema politico che ha al suo centro un soggetto (popolo, cittadino) al quale viene attribuita la capacità di scelta. Si dovrebbe invece mettere in questione proprio la capacità di scelta del soggetto, la scelta, la politica intesa come scelta. Il ’68 avrebbe fatto esattamente questo: avrebbe disarticolato concettualmente la politica e ricondotto l’autorità non ad autorizzazione ma a espressione di un desiderio “in cui si esprime e si riconosce un’autentica possibilità di essere tutti insieme, tutti e ognuno”.
Se adottiamo questa prospettiva – prospettiva di verità e non di politica -, nella democrazia non dobbiamo considerare l’”angusto piano giuridico”, ma lo spirito, l’esigenza, il soffio: essi sono infiniti, incalcolabili, inesprimibili. In quanto tali, sono l’opposto di quanto vi è di più calcolabile al mondo: il capitalismo. La politica non ha il compito di gestire l’”esigenza”, ma esclusivamente di garantirne l’accesso, l’apertura. La politica va distinta dunque nel modo più reciso dall’”esigenza”, che Nancy definisce anche come “infinito”. La conseguenza è che “il demos può essere sovrano solo a condizione di distinguerlo appunto dall’assunzione sovrana dello Stato e da qualunque conformazione politica: ecco la condizione della democrazia. E’ quanto, dal 68 in poi, richiede di essere capito.”
La democrazia vive nella distinzione, mentre il nichilismo è assenza di distinzione. La democrazia, come il capitalismo, è equivalenza di fini, mezzi, persone, valori, tutti equivalenti perché tutti ridotti a niente (ecco il nichilismo). Equivalenza significa scambio, denaro. Occorre invece una democrazia che parta dalla disequivalenza: una democrazia nietzscheana. Questa consiste del riconoscimento di ognuno come dotato di valore incommensurabile, e di una uguaglianza rigorosa come regime in cui si condividono tutti gli incommensurabili. Per essere autentica, la democrazia non deve configurare la polis, ma essere lo spazio in cui trovano posto la polis, le molteplici identità, gli incommensurabili. Concludendo, “la democrazia è in primo luogo una metafisica e solo in secondo luogo una politica”. Il che fare? è così delineato: “Pensiamo innanzitutto l’essere del nostro essere-insieme-nel-mondo e poi vedremo quale politica permette che questo pensiero tenti la sua sorte.”
Ecco allora svelarsi il senso della frase di Rousseau: lo capiamo attraverso l’”umano troppo umano” di Nietzsche. L’uomo non è Dio, ma un debole piccolo essere che lotta e si arrabatta, un essere finito. Se fosse Dio, avrebbe senso chiedere la democrazia. Ma non lo è: di conseguenza il compito dell’intellettuale è battersi per una democrazia impolitica, vuota di contenuto positivo, distinta dalla politica come comunemente la intendiamo. “Questo principio – conclude Nancy – sottrae all’ordinamento dello Stato (..) l’assunzione dei fini dell’uomo, dell’esistenza comune e singolare.”
A questo punto chi legge ha qualche dubbio: per distinguere l’uomo dallo Stato occorreva fare questo procelloso viaggio e tirare in ballo Nietzsche e Heidegger (più Derrida e Deleuze), scomodare metafisica e verità, o non bastava ricorrere al liberalismo classico? E poi, giunti dopo lunga navigazione a un approdo, non siamo così punto e daccapo? Come definire infatti in che cosa consistono quei “fini dell’uomo, dell’esistenza comune e singolare” che si collocano su un piano diverso, ineffabile, rispetto alla politica? Non ci troveremo così a difendere o qualcosa di vuoto o qualcosa di ovvio? Una volta che abbiamo distinto la democrazia dalla politica, “democrazia” significa ancora qualcosa? E chi si occuperà della politica? E la politica di che cosa si occuperà se un’idea come quella di democrazia le deve essere sottratta? Siamo così giunti in un territorio più profondo di quello della politica? Sappiamo qualcosa di più sul secondo dopoguerra, sulla democrazia e sui suoi problemi, sui totalitarismi, sull’essenza del ‘68? Abbiamo elucidato il passaggio sempre un po’ misterioso dalla democrazia ai totalitarismi?
L’impressione è piuttosto quella di un ritorno: a vecchi luoghi comuni sulla ineffabilità dello spirito rispetto a ogni definizione e soprattutto al calcolo, alla condanna del capitalismo come calcolo, alla inclusione del liberalismo e della democrazia nella stessa condanna come figli del capitalismo, alla riduzione di capitalismo, liberalismo, democrazia a scambio, alla critica dello scambio in quanto nichilista, e in modo neppure troppo implicito, ancora una volta, alla critica del denaro.
Se questo di Nancy è un esempio del modo radicalmente alternativo di pensare la politica, un modo che tiene conto della rivoluzione di pensiero che corre sulla linea Nietzsche-Derrida, ci teniamo a esprimere la nostra preferenza per l’altro modo, quello che non ne tiene conto.
J.-L. Nancy, Verità della democrazia, Napoli, Cronopio, 2009, pp. 69, euro 9.