Se la Gelmini riceve critiche da destra e da sinistra la strada è quella giusta

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Se la Gelmini riceve critiche da destra e da sinistra la strada è quella giusta

03 Novembre 2009

Il disegno di legge per l’università presentato dal ministro Mariastella Gelmini ha già ricevuto una doppia bordata di attacchi. Il fuoco a tribordo è all’insegna dell’accusa: statalismo. A babordo l’accusa è: aziendalismo. Vien voglia di dire che due accuse tanto simmetriche si elidono e quindi che il ministro ha azzeccato la giusta misura. E in parte è così, ma non del tutto.
Sono propenso a dire che l’accusa più ingiusta è quella di tribordo che si è condita anche di paragoni alquanto azzardati: c’è chi, a proposito del fondo nazionale di merito per gli studenti ha evocato i littoriali mussoliniani… Non esageriamo, ragazzi. D’altra parte, è vero che una certa dose di centralismo e di regole stringenti sono stati introdotti. Ma quando l’autonomia viene intesa male e peggio usata, dando luogo a deviazioni aberranti, che altro si può fare? Concederne altra? In altri termini, seguire la prassi del cattivo medico che, di fronte all’insuccesso della terapia, invece di correggerla raddoppia la dose?

Il ddl non sopprime l’autonomia, ma stringe i bulloni laddove essa aveva prodotto risultati catastrofici. D’altra parte, il nostro è un sistema statale, e lo stato deve intervenire quando l’andazzo degenera. Oppure qualcuno pensa che una delle prime potenze industriali si possa permettere di chiudere il sistema universitario statale e aspettare che sorga spontaneamente un sistema universitario privato? Casomai – e vi tornerò tra poco – vi sarebbero ancora altri bulloni da stringere, soprattutto in tema di reclutamento, sebbene questa sia la parte migliore del ddl. Il quale va apprezzato per aver introdotto una fondamentale novità: la “tenure track” nel reclutamento, ovvero un periodo di prova prima dell’assunzione stabile, invece di andare alla disastrosa formazione di un terzo livello di docenza, secondo le richieste di alcuni sindacati, il che avrebbe fatto dell’Italia un’anomalia mondiale. La progressione della carriera è correttamente congegnata. La struttura generale della “governance” è semplificata, efficiente e abbastanza convincente.

L’accusa di statalismo mi pare quindi fuori luogo. Il criterio ispiratore del ddl è soprattutto quello del merito: se ogni volta che si introducono criteri meritocratici si grida allo statalismo e si reclama più autonomia, allora vuol dire che in realtà si vuole la deresponsabilizzazione.

Inoltre, non si tiene conto di un fatto importante. Le gravi discontinuità nel reclutamento e il fatto che il sistema finora adottato è servito soprattutto alla progressione di carriera interna, hanno prodotto un “gap” generazionale impressionante che lascia semivuota la fascia di docenza attorno ai cinquant’anni di età. Mentre sta iniziando un processo di pensionamento che avrà caratteristiche sempre più vertiginose, il “gap” porta in primo piano una fascia di docenti quarantenni che – lo dico a costo di sollevare un vespaio – non sono adeguati a sostenere il sistema. Difatti, si tratta troppo spesso di persone che non hanno conosciuto altro che l’università degradata delle migliaia di corsi di laurea e dei 150.000 corsi sminuzzati, con il sistema barocco dei crediti in cui si contano le ore o le pagine per credito, in cui la vita del docente è assorbita da innumerevoli incombenze burocratiche. Questa è l’università che hanno conosciuto, e non un’altra, a meno che non siano stati in certi paesi esteri.

Pertanto, in assenza di regole precise che si accompagnino – sperabilmente – a un alleggerimento del sistema e a una diminuzione dei corsi con necessari accorpamenti, il rischio è quello che si vada a una struttura sempre più autorefenziale, burocratica, poco sensibile ai contenuti e assorbita ossessivamente dagli adempimenti che molti giovani docenti sono stati abituati a credere siano la sostanza dell’attività universitaria. È molto male che non vi sia trasmissione di conoscenze ed esperienze in una istituzione culturale. Ma questa è la realtà cui bisogna far fronte, e farvi fronte lasciando il sistema alla cattiva autonomia di cui ha goduto finora significa assestargli il colpo finale.

Da questo punto di vista penso che il difetto principale del ddl consista nel fatto che la lista nazionale di idoneità sia aperta. Mi rendo perfettamente conto che questo modello – così come funziona, e bene, in Francia – prevede la lista aperta. Ma è facile prevedere che, con una così lunga lista di ricercatori in attesa di passare a una fascia di docenza e di associati in attesa di diventare ordinari, la prima lista nazionale includerà tutti. Non credo che questo sia pessimismo. Credo che sia semplice realismo. Pertanto, per evitare l’ennesimo ope legis, accompagnato da assunzioni locali che sarebbero ancor più “localistiche” dei concorsi attuali, sarebbe bene che, per un periodo transitorio, la lista fosse a numero programmato e che, poi, dopo il primo ciclo di sei anni previsto per la “tenure track”, a regime diventi aperta.

Veniamo ora all’accusa di aziendalismo, che è soprattutto avanzata da gran parte dell’opposizione e dei sindacati. A me pare molto esagerata, soprattutto se si confronta questo ddl con le prime versioni circolate. Tuttavia, qualche punto può essere aggiustato. Il potere del Senato accademico appare troppo evanescente, sebbene sia apprezzabile che il corpo docente sia responsabile degli aspetti didattico-scientifici. Si può anche rivedere la struttura del Consiglio di amministrazione per evitare rischi di una gestione simile alle ASL. E’ vero che i compiti dei due organismi sono distinti, ma una certa evanescenza dei poteri del Senato accademico potrebbe concentrarne troppo nel Consiglio di amministrazione e fare del Direttore generale il vero dominus dell’università.

In generale, colpisce un certo silenzio sul fronte della ricerca. E qui l’accusa di aziendalismo potrebbe aver maggiore fondamento, in quanto una università prevalentemente dedita alla didattica – in un paese privo di strutture di ricerca superiore e di “alte scuole” – condurrebbe a una dequalificazione e corrisponderebbe a una propensione alquanto ottusa di parte del mondo imprenditoriale italiano, ma soprattutto di quello che si occupa attivamente di dire all’università cosa deve fare e che appare interessato prevalentemente a una struttura didattica fortemente dipendente dalle esigenze produttive.

Quindi, il ruolo dell’università rispetto alla ricerca deve risaltare in modo più chiaro e deve essere difeso lo spazio e il ruolo della ricerca di base, senza cui tutto il sistema della ricerca è destinato al deperimento.

Infine, un’osservazione che non ha a che fare né con il tema dell’aziendalismo né con quello dello statalismo, bensì con quello della demagogia. Si elimini l’assurda pariteticità tra studenti e docenti in molti organi universitari e il potere eccessivo dato agli studenti nella valutazione dei docenti. Sia chiaro: la valutazione ci deve essere, e severa. Ma la valutazione si fa tra competenti, anche per quanto riguarda la didattica. Si ricordi un principio elementare: la via maestra per un docente al fine di farsi valutare bene è promuovere tutti. Il docente rigoroso, soprattutto nell’attuale rilassamento etico, è valutato male e destinato a una brutta fine. Perciò, se si conferisce questo enorme potere agli studenti, il risultato sarà un abbassamento di livello della preparazione. Certo: vi sarà anche una diminuzione dell’abbandono scolastico e molti più laureati in tempo. Già nel passato altri ministri hanno pensato bene di finanziare di più le università che miglioravano i parametri di abbandono e di laurea in tempo, e poi hanno proclamato ai quattro venti che la situazione era migliorata… Speriamo davvero che questa prassi poco intelligente venga definitivamente abbandonata.

Concludendo, questo ddl è un documento organico e coraggioso, che va emendato su alcuni punti importanti, ma che sarebbe assolutamente irresponsabile silurare e combattere a oltranza, invece di assumerlo come un’occasione per far riprendere all’università un cammino virtuoso.