Se la Moschea a Ground Zero diventa uno scontro tra “noi” e voi”, abbiamo già perso
21 Agosto 2010
Sembra sfumato il progetto di costruire,a quattro passi da Ground Zero una grande moschea e un centro di cultura, Cordoba House. Il Presidente Barack Obama e il sindaco di New York Michel Bloomberg (ebreo) non avevano trovato nulla da eccepire ma l’opinione pubblica, come spesso capita nelle democrazie, è stata più forte delle autorità politiche. Secondo Gad Lerner il centro sarebbe stato intitolato alla <mitica Cordoba> in quanto <città simbolo di una convivenza armoniosa tra fedi e saperi nella Spagna medievale>, Secondo Newt Gingrich, <la verità è che ogni islamico al mondo riconosce in Cordoba il simbolo delle conquiste dell’Islam>. Non ho competenza in materia e, pertanto, mi astengo da ogni giudizio. E’ un fatto, però, che l’estremismo islamico, impegnato nel resuscitare il Grande Califfato, non vede certo in Cordoba un simbolo di tolleranza (quale la città arabo-ispanica certamente fu) ma un motivo di orgoglio, lo stesso manifestato dall’accorto sceicco Faysal—ricordato ne I sette pilastri della saggezza di Thomas E. Lawrence e interpretato da Alec Guinness nel film di David Lean Lawrence d’Arabia(1962)—nel suo rimpianto della città imperiale illuminata a giorno in un’epoca in cui Londra era poco più di un villaggio barbarico. Inoltre è pure indubbio che un centro culturale, aperto all’insegna del dialogo tra le civiltà e tra le religioni, avrebbe potuto intitolarsi ai grandi filosofi islamici che fecero effettiva opera di mediazione tra Oriente e Occidente, tra Maometto e Carlomagno, per citare il grande libro di Henri Perenne: ad es., ad Avicenna o ad <Averroìs che ‘l gran comento feo>, tanto ammirato da Dante Alighieri. Ma forse, nel mondo islamico, il commentatore di Aristotele non gode di buona stampa da quando il regista egiziano Yussuf Shahin, nel film Averroè (1997), lo ha presentato come un illuminista, sia pure credente, anti litteram.
La controversia sul nome e sull’opportunità del centro culturale islamico, però, non può essere chiusa da poche battute :c’è problema ben più complesso che riguarda il tipo di cultura e di ‘etica politica’ che quella controversia ha portato allo scoperto, in Europa come in America. L’impressione che ho avuto, leggendo gli argomenti avanzati da non pochi sostenitori e avversari di Cordoba House, lo dico subito, è desolante, giacché quasi tutti, a destra e a sinistra, mi hanno fatto cogliere con mano che non siamo di fronte al <tramonto dell’Occidente>, per riprendere il noto libro di Oswald Spengler degli anni 1918-1923 ma al <tramonto del liberalismo>, per riprendere, invece, l’assai meno noto libro di Eugenio Giovanetti, pubblicato da Laterza nel 1917. Entrando in medias res, la mia tesi è che il revanscismo dei fondamentalisti islamici, ha riportato una sostanziale vittoria culturale nel momento in cui è riuscito impegnare i suoi avversari sul suo terreno ideale ovvero li ha costretti a interloquire in termini di <noi> e <loro>. Ne costituisce una significativa riprova l’incipit del breve articolo di New Gingrich—un politico conservatore che peraltro mi sembra ingiustamente demonizzato dalla stampa progressista—pubblicato da ‘L’Occidentale’ il 27 luglio u.s., L’America deve dire no alla Moschea di Ground Zero: <Non ci dev’essere alcuna moschea vicino a Ground Zero fino a quando non ci saranno chiese o sinagoghe in Arabia Saudita>. In queste poche parole, c’è tutto l’oblio della quintessenza del liberalismo che non teorizza e riconosce i diritti delle comunità religiose(cattoliche, musulmane o buddiste che siano) o etniche (bianche, nere o gialle) ma quelli degli individui uti singuli : non è il colore della pelle o le credenze nell’aldilà a conferire la citizenship nella polis liberale ma la qualità di ‘essere umano’, capace di intelligere e di soffrire, di collaborare liberamente con gli altri in spirito di reciprocità etc. Se in Arabia Saudita—spazio sacro dell’Islam—non si possono costruire chiese e sinagoghe,non si violano i diritti dei cristiani e degli ebrei, intesi come comunità di credenti, ma si offendono innanzitutto degli uomini, indipendentemente dal fatto che giurino solo nell’Antico Testamento o su entrambi. L’allarme degli ultras dell’Occidente–<non consentiamo agli ‘altri’di fare a pezzi la nostra identità culturale>–è giustificato soltanto se il <noi> si dissolve nell’oceano del ‘genere umano’. Chiedere una reciprocità di trattamento sulla base del principio <vi ricambiamo con la vostra stessa moneta> significa– dispiace dirlo ad amici con i quali condivido tanti valori ‘forti’–la regressione tribale. Forse qualche esempio può essere più chiarificatore di tanti discorsi. Portando alle estreme conseguenze la logica di Gingrich, se a Riyad un newyorchese non ha il diritto di andare in chiesa (o in sinagoga), a New York, un saudita non dovrebbe avere quello di pregare in una moschea. Sennonché a un bravo giovane (cristiano o ebreo o buddista), in viaggio nel Negged, potrebbe capitare di innamorarsi di una ragazza islamica e di non poter convolare con lei a giuste nozze perché la legge coranica vieta i matrimoni misti: ebbene dovremmo ricambiare gli arabi con la stessa moneta? Impedendo, ad esempio, a un bravo giovane musulmano di sposare la ragazza yankee che ama sinceramente e da cui è ricambiato? Ma avventuriamoci in uno scenario futuro peraltro improbabile. Mettiamo che il monarca saudita si sia convinto della bontà degli argomenti ‘alla Gingrich’ e che accetti la ‘reciprocità’:< Voi cattolici potete costruirvi una bella cattedrale a Riyad in stile arabo-bizantino ma che gli ebrei si guardino bene dal chiederci una sinagoga>. Un cattolico liberale (ce ne sono ancora in giro) approfitterebbe dell’occasione, all’insegna del principio ‘ognuno curi innanzitutto i propri affari’, o se ne sentirebbe umiliato–come capitò a quegli europei che, durante l’occupazione nazista, furono tentati di appuntarsi la stella gialla per solidarietà con i discriminati—e pertanto rifiuterebbe l’offerta? Insomma, un liberale si batte per i diritti di tutti e se protesta davanti all’ambasciata di uno Stato che li viola non lo fa <in divisa> o con le bandiere e le insegne di un ‘gruppo di appartenenza’.
Anche a me piacerebbe che ci fosse una chiesa in tutte le capitali islamiche ma è un diritto che non voglio far valere in quanto membro di un <noi> bensì in quanto appartenente al <seme d’Adamo>: in caso contrario, mi sentirei intruppato nelle compagnie della fede di Antonio Socci e di Angela Pellicciari e, semmai, con in testa il basco dei Comitati Civici di geddiana memoria. Le libertà fondamentali non si rivendicano per la propria ‘famiglia’(naturale, religiosa, ideologica etc.) ma per tutte le ‘famiglie’ anche se poi, una volta concesse e riconosciute, è la comunità di appartenenza, con le sue tradizioni e le sue identità, a indicare i modi e i limiti istituzionali che debbono disciplinarne e regolarne l’esercizio, come si dirà in seguito.
E’ un discorso, questo, che non ha nulla a che vedere con l’attitudine a ‘calarsi le braghe’dinanzi alle pretese (talora arroganti e provocatorie) degli imam che operano nei paesi ‘cristiani’, pretese così spesso denunciate—e non sempre a torto—dalla destra ‘occidentalista’.
Essere inflessibili nella difesa intransigente dei diritti e delle libertà degli individui comporta il rigetto di ogni ‘buonismo’(così diffuso nel mondo cattolico) e di ogni melassa pluralistica. Il dialogo delle culture, le tavole rotonde–col rabbino, con l’imam, col pastore, col prete—hanno senso all’interno della ‘società civile’, se possono ingenerare abiti di tolleranza e di apertura ai diversi, purché non si perda di vista il principio aureo che il diritto e la costituzione (se dettati da spiriti liberali) non conoscono i <soggetti del pluralismo> ma soltanto i <soggetti umani>. Diritti e doveri, ancora una volta, non riguardano le ‘tribù’ ma gli individui, nella loro irriducibilità alle diverse appartenenze–e specialmente a quelle non scelte–: un reato deve essere tale per tutti e, tutt’al più, i condizionamenti culturali del colpevole possono valere solo come ‘attenuanti generiche’ (quanto più si afferma, però, la ‘civiltà del diritto’ tanto meno i pregiudizi comunitari dovrebbero venir presi in considerazione: si pensi, in Italia, all’abolizione del <delitto d’onore>).
E tuttavia l’antitribalismo liberale, sin qui evidenziato, è solo una faccia della Luna. Ce n’è un’altra, non meno importante, che differenzia il liberalismo dal libertarismo pseudo-universalistico e in definitiva inconsapevolmente e involontariamente terroristico, in nome della Raison. L’altro lato della medaglia si riassume nella consapevolezza che l’esercizio dei diritti va, in ogni caso, <regolamentato> e che a regolamentarlo sono gli Stati in quanto (se liberali) terreni d’incontro e di mediazione tra Kant e Burke, tra la società universale e quella comunità particolare che è il corpo organico che consente alla prima di radicarsi nel mondo e nella storia. Il compito dello Stato—nazionale o federale che sia—è quello di raccordare ragione e tradizione, di affermare i diritti senza sacrificare le identità che rendono concreti i diritti.
Sotto questo profilo, non bisogna nascondersi dietro un dito, la cosiddetta cultura progressista si è allontanata dal porto liberale ancora più dell’altra. Al fondo delle sue posizioni, infatti, sembra esserci (inavvertitamente, beninteso) un <buonismo imposto per legge>, fondato sull’intolleranza verso quanti si limitano al ‘rispetto’ degli altri ma guardano con scetticismo al ‘dialogo’ e al ‘confronto’ tra le varie fedi , mostrano di non averne <stima> e non credono all’eguale dignità morale e culturale di tutte le ‘tradizioni’. Tale buonismo è così poco ‘pluralista’ da imporre la propria interpretazione della storia passata e recente come una verità incontrovertibile. Andrea Riccardi, ad esempio, in un articolo sul ‘Corriere della Sera’ del 15 agosto—Il coraggio di Obama sulla moschea a Ground Zero—se la prende con quanti manifestano <una forte convinzione>: che l’attentato dell’11 settembre <sia dovuto all’Islam in senso globale>. Ma è proprio così errata tale convinzione? Più radicale dello storico romano, animatore della benemerita Comunità di Sant’Egidio, una giornalista di ‘Lettera 24’, commentando giorni fa su Radio 3,le reazioni degli Americani contrari alla moschea, è andata oltre per ribadire che con le Twin Towers l’Islam non c’entra niente (tra i morti ci sarebbero stati anche cittadini americani e turisti di fede musulmana). Se ne deduce che oggi gli eredi di una famiglia ideologica che voleva <écraser l’infame>, identificando la Chiesa con l’Inquisizione e rimuovendone la dimensione francescana, non esitano a proporre il sillogismo:< la religione coranica ha una profonda spiritualità non inferiore a quella cristiana; tale spiritualità è incompatibile con la violenza; i violenti che si richiamano all’Islam non sono islamici>. In tal modo, come succede quando la conoscenza viene sacrificata sull’altare dell’<impegno>, problemi estremamente ardui e spinosi—quale il rapporto tra religione e politica—vengono azzerati dalle ‘ragioni del cuore’ col risultato paradossale di scavalcare in ‘buonismo’ gli stessi sacerdoti delle chiese celesti e terrene. Se la vera religione, infatti, è quella che <apre gli occhi e i cuori> e i violenti non ne fanno parte, perché un pontefice romano avrebbe dovuto chiedere perdono per i crimini commessi in nome di Cristo (l’Inquisizione, Galileo, le stragi sassoni, albigesi etc.)? E perché i leader di quella religione secolare che è il comunismo dovrebbero condannare i <compagni che sbagliano>? Nell’uno e nell’altro caso, ci si troverebbe dinanzi a lupi travestiti da agnelli per entrare nella casa del Signore, o del Partito, e quindi non si vede il motivo del perdono. Che invece ha senso proprio perché in questione non sono crimini commessi da paranoici o da corrotti profittatori delle istituzioni ma da uomini che, in buona fede, avrebbero voluto convertire il mondo alla ‘vera religione’ o unificarlo, con la violenza rivoluzionaria, perchè tutti godessero della fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Se il divieto di ridurre l’Islam al terrorismo dell’11 settembre è tanto assurdo quanto lo sarebbe identificare Torquemada col cattolicesimo, non va dimenticato che sul capo di quanti venivano torturati dall’inquisitore campeggiava il crocefisso come sugli attentatori dell’11 settembre sventolava la mezza luna. Certo l’<essenza del cristianesimo>non sta nella persecuzione degli eretici–una verità, questa, tanto evidente da essere banale e che non va certo ricordata ai liberali, consapevoli di quanto la loro ‘filosofia politica’ sia debitrice nei confronti del messaggio biblico–ma ciò non toglie che anche le interpretazioni più lontane dalla nostra sensibilità morale che si possano dare di un credo religioso (o ideologico) facciano parte della sua storia. Di qui la comprensibile ostilità degli americani a una moschea nelle immediate vicinanze di Ground Zero. Sarà pur vero, come scrive Faared Zakaria sul ‘Corriere della Sera’ del 18 agosto—La moschea aiuterà l’Islam dei moderati—che il promotore dell’iniziativa, l’imam Feisal Adul Rauf, <è un religioso musulmano moderato> che <non perde occasione per condannare ogni forma di terrorismo> (sarebbe davvero strano il contrario…) ma è altrettanto innegabile, come rileva invece Charles Krauthammer sullo stesso quotidiano—Un sacrilegio scegliere Ground Zero—,che <i luoghi hanno un peso. Questo luogo in particolare. Ground Zero è il luogo del più grande omicidio di massa della storia americana—commesso da musulmani di una particolare ortodossia islamica, per la cui causa sono morti e nel cui nome hanno ucciso>.
Il diritto ad avere una moschea in cui pregare è sacrosanto ma, come tutti i diritti, non può venir fatto valere sempre e dovunque. A regolamentarlo, infatti, come si è detto, è la ‘politica’ intesa come bilanciamento di diritti e di simboli (identitari, di comunità). Un americano potrebbe vedersi riconosciuto in Giappone il diritto di aprire un Centro di Cultura Abraham Lincoln ma chi potrebbe dare torto al governo nipponico se gli rifiutasse il permesso di aprirlo proprio a Hiroshima?
Citando i due americani di diverse opinioni, Faared Zakaria e Charles Krauthammer, avrei dovuto sottolineare che il loro dissenso si è manifestato nelle forme civili che ci si aspettano dai cittadini del ‘grande paese’ che più di ogni altro è stato segnato dal liberalismo. Lo stesso non può certo dirsi dall’intervento polemico di Gad Lerner su ‘La Repubblica’ del 17 agosto—Il minareto americano e i timori di casa nostra. Qui dell’oggettiva complessità della questione non si vede neppure l’ombra. L’argomento di quanti sono contrari a Cordoba House, è soltanto <storico-emotivo>.<Si tratta di esponenti mossi da finalità politiche che vorrebbero però assolutizzare col ricatto morale, rivestendo arbitrariamente i panni dei portavoce delle vittime>. Insomma chi non è d’accordo con Feisal Adul Rauf –che tra l’altro ha definito la politica degli Stati Uniti <una componente del crimine> dell’11 settembre–va delegittimato moralmente, è potenzialmente un razzista, testimonia una <stagione di conflitti che di religioso non hanno proprio nulla>. In fondo al pluralismo della sinistra italiana c’è una colpevolizzazione degli avversari che, per fortuna, non si è ancora tradotta in criminalizzazione politica.