Se la Sicilia non vuol finire come la Grecia si deve assumere le sue responsabilità

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Se la Sicilia non vuol finire come la Grecia si deve assumere le sue responsabilità

22 Luglio 2012

 

La Sicilia è sul banco degli imputati. Dopo che l’allarme lanciato dal vicepresidente di Confindustria Ivan Lo Bello ha acceso i riflettori sul disastro dei conti dell’isola, in tanti si sono sbizzarriti a scovare gli sprechi più eclatanti. La Stampa ha ricordato che nel 1984 la Regione spese 200 milioni di lire per comprare orche destinate ad un parco acquatico; il parco non si è mai fatto e la Regione ha continuato a pagare 6 milioni al mese per mantenere i cetacei in Islanda. Bracalini sul Giornale ha scritto della “Commissione sci nordico” che fa il paio con la pista per lo sci di fondo da 6,3 milioni sulle Madonie citata da Cobianchi in Mani bucate. È emblematico il caso del comune di Comitini, finito anche sul New York Times, che su 900 abitanti ha 64 impiegati o il 118 regionale con i suoi 3.360 dipendenti per 256 ambulanze. Secondo i calcoli di Sergio Rizzo sul Corriere, la Sicilia ha 10 volte gli impiegati della Lombardia e gli uffici di Raffaele Lombardo hanno più dipendenti di David Cameron. In totale sono 21mila dipendenti regionali, 2300 dirigenti, altri 7000 assunti nelle partecipate a cui si vanno ad aggiungere 30mila forestali. Si potrebbe continuare all’infinito: pensioni baby, rimborsi telefonici, società partecipate, stipendi di manager pubblici e politici, contributi per le spese funerarie, etc. La conclusione è che la Sicilia ha oltre 5 miliardi di debiti e, cosa ancora più preoccupante, 15 miliardi di crediti forse mai esigibili.

La Corte dei Conti ha evidenziato come, nonostante gli annunci di provvedimenti di contenimento e taglio (maddeche?), la spesa pubblica regionale nel 2011 sia aumentata dell’1,5% e la presidente della Corte regionale, Rita Arrigoni, ha sottolineato che il debito è “in continua crescita”. Sempre la Arrigoni, pur denunciando le inefficienze, gli sprechi e un bilancio che “non appare costruito in modo metodologicamente corretto”, ha invocato l’aiuto di Stato per la Sicilia e le altre regioni meridionali coi conti in rosso: “E’ auspicabile un sostegno da parte del governo nazionale, al pari di quanto si va prospettando in ambito europeo per Stati con difficoltà’ di bilancio e in pericolo di default”.

Ivan Lo Bello nella sua denuncia ha detto chiaramente che la Sicilia è la Grecia d’Italia, un “modello basato sull’utilizzo disinvolto delle assunzioni pubbliche, trasformato in un grande bacino elettorale che ha creato degrado civile e ha compresso la crescita economica”. Franco Debenedetti con uno splendido tweet l’ha definita una “magna” Grecia, nel senso romanesco e non latino dell’aggettivo. La reazione di Lombardo è una di quelle cose che non si sono viste nemmeno in Grecia: i conti sono a posto e chi chiede una riduzione del parassitismo pubblico “può andare a morire ammazzato”. Sempre tenendosi sul paragone Sicilia-Grecia, Mario Sechi ha scritto sul Tempo parole di buon senso: “Ci stiamo preoccupando della Grecia – e facciamo bene – ma ce l’abbiamo in casa e si chiama Sicilia…senza una classe dirigente all’altezza, la devoluzione di poteri è solo una moltiplicazione della spesa. Vogliono il federalismo? Allora le Regioni che non tengono i conti in ordine dovranno fare crac. E chi lo provoca farà la fine dei bancarottieri: andrà in cella”.

Però, come spesso accade, il ruolo di “rigorista” o “lassista” dipende dalla nostra parte in gioco. Circa un mese fa durante gli europei di calcio, lo stesso Sechi, in un duro editoriale contro la Merkel, scriveva: “Il direttore di questo giornale tiferà Grecia. Ho ammirazione per i deboli che sfidano i titani. I giocatori della Grecia in campo domani sono la metafora del Paese povero, con una classe dirigente inetta, che ha bisogno di aiuto e fiducia”.

Il direttore del Tempo da buon liberal-conservatore ci ha dato due insegnamenti più uno: ci ha ricordato che non esiste libertà senza responsabilità (è la differenza tra libertà e licenza di cui parlava Locke) e che il libero mercato responsabile non è regolato in ultima istanza da un prestatore, ma dal fallimento.

La prospettiva del fallimento induce ad una gestione oculata delle risorse, evita continui sprechi di risorse quando i bilanci non reggono e dà informazioni agli altri operatori su come non gestire un’attività economica in modo fallimentare. La terza lezione di Sechi non è economica, ma di saggezza popolare e ci dice, parafrasando un vecchio proverbio, che siamo tutti solidali con i soldi degli altri.