Se la sinistra rileggesse la storia di Garibaldi avrebbe di che imparare

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Se la sinistra rileggesse la storia di Garibaldi avrebbe di che imparare

06 Dicembre 2009

Il 28 marzo del 1882, poco più di un mese prima della scomparsa, Giuseppe Garibaldi, accetta di tornare il Sicilia in occasione del sesto centenario dei Vespri, la celebre e sanguinosa rivolta antifrancerse del 1282. Oramai il generale è allo stremo. Viaggia in carrozzella e ha energie solo in alcuni tratti della giornata. Eppure non riesce a dire di no all’invito degli amici di quell’isola, dove si è compiuto il suo capolavoro politico-militare.

Ad accoglierlo al porto di Palermo c’è, naturalmente, una folla immensa e ordinatissima che sa di non poter turbare il vecchio condottiero e perciò lo riceve con un “impressionante silenzio”. Thomas A. Trollope, ai tempi inviato di un quotidiano inglese, così racconta quella straordinaria circostanza e quella superba forma di amore e riconoscenza: “Mai ho assistito a una scena così imponente, così patetica. Quella massa densa di popolo, tutta Palermo e gli abitanti dei dintorni aspettano il liberatore giubilanti, deliranti. Ma alla vista di lui pallido, immobile, muto, essi non fiatarono più. Dopo il primo evviva, che tuona riecheggiato dalla Conca d’oro, non più un grido, un’acclamazione. Fin la musica taceva. Durante un tragitto di tre chilometri, neppur un battimano, neppur un solo evviva ruppe quel solenne silenzio che giustificò il detto del sindaco al popolo: Mai siete stati come oggi sublimi”.

E’ questo un episodio che si può leggere in un bellissimo libro di Mino Milani, “Giuseppe Garibaldi”, appena ristampato per i tipi della Mursia (pagine 614,  euro 18 con “Prefazione” di Giovanni Spadolini), forse la più intrigante e completa biografia dell’eroe dei due mondi. La prima edizione del volume risale oltre venticinque anni fa, l’autore è uno scrittore dalle molte frecce nel suo arco e dalla solida preparazione erudita e storiografia.  Il libro racconta con piglio narrativo, per capirci all’inglese, le gesta del grande Nizzardo. E lo fa con molta simpatia, ma senza spirito apologetico. Gli episodi noti della ricca vicenda umana del generale naturalmente sono descritti per filo e per segno, con un’acribia da ricercatore e insieme un gusto per il particolare che solo un temperamento romanzesco, alle spalle una produzione letteraria di tutto conto, come quello di Milani, può avere.

Le parti più interessanti, quando non inedite, riguardano però i dettagli. E’ così per l’episodio panormita, ma anche per i segmenti meno celebrati dell’epopea garibaldina. A cominciare dalla stagione sudamericana, intorno a cui l’autore si dilunga con competenza non comune. Oltreoceano, infatti, si forma quel grumo di esperienze politico-militari che sono alla base dei successi risorgimentali. Milani segue anche da vicino l’uomo e il personaggio quel misto di vocazione all’azione e di amore per la poesia che lo rendono tanto speciale, un figura di ammaliatore con pochi eguali nella intera storia moderna.

Il libro discute le concezioni politiche e la funzione del garibaldinismo nella formazione della Nuova Italia. La parola a Milani: “Non è dunque con Garibaldi che gli italiani entrano nel Risorgimento, dove già erano; ma con lui ad essi viene proposto un programma politico che non coincide con quello sabaudo né con quello mazziniano; non è definito ma si propone di creare un’Italia nuova il cui governo… sia ‘del popolo, dal popolo, per il popolo’: non è il rinnovamento mazziniano, ma è pur sempre rinnovamento, e di coscienza prima che di sistemi. Dietro Garibaldi, che sogna il ‘dittatore onesto’, e che nel suo sogno è in sostanza solitario, marceranno monarchici o repubblicani o socialisti o radicali che non faranno questioni di forma istituzionale, ma di effettiva sovranità popolare. Con Garibaldi, la Sinistra italiana accetta di agire…nell’ambito dello Stato monarchico, costringendo questo a fare i conti con forse attive, massicce, capaci di mobilitarsi, che godono di larghe simpatie in Europa e che hanno un capo il cui carisma rappresenta, di per sé, una forza effettiva”. Appunto, proprio ciò di cui è sprovvista, la sinistra, oggi, su piazza.