Se l’Italia non cresce è anche colpa di un uso ideologico della giustizia

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Se l’Italia non cresce è anche colpa di un uso ideologico della giustizia

19 Aprile 2011

Sul “Corriere della Sera” e sul “Sole 24 ore”, come su altra stampa d’opinione, si è dato largo seguito al lamento del presidente uscente di Confindustria Emma Marcegalia, secondo la quale gli industriali italiani sarebbero stati lasciati soli da questo governo. Il professor Roberto Perotti, sul “Sole 24 Ore”, è giunto anche ad affermare che il fatto che il governo in carica, considerato a priori incapace di perseguire obbiettivi di medio e lungo termine, abbia dichiarato, nei suoi documenti finanziari, che nel 2014 l’Italia raggiungerà il pareggio del bilancio non significa nulla, perché il pareggio non verrebbe raggiunto con aggiustamenti strutturali e sarebbe, quindi, effimero.

È facile replicare che per la spesa sanitaria il governo ha stabilito parametri di erogazione basati sui costi standard, ponendo regole severe per il rientro dal deficit: questo è un intervento strutturale non di poco conto. Anche la riforma scolastica e universitaria è intervenuta con interventi strutturali sulla spesa, in un altro settore importante come quello dell’istruzione. I costi standard verranno applicati, inoltre, all’intera finanza regionale e locale. E il Ministro Brunetta ha adottato nel settore della Pubblica Amministrazione importanti misure strutturali. Interventi strutturali sono in atto o in corso di attuazione anche per il recupero dell’evasione fiscale. D’altra parte, una volta raggiunto il pareggio del bilancio non si potrà tornare indietro, dato che si tratta di una regola di portata quasi costituzionale del nuovo Patto europeo di stabilità e crescita.

Altri opinionisti, che si rendono conto che il bilancio in pareggio è un obbiettivo reale attuato in modo serio, pongono l’accento sulla scarsità di provvedimenti del governo per la crescita. È chiara la nostalgia per la cosiddetta politica industriale, consistente in sostanza negli aiuti pubblici. A parte questo, certo, si dovrebbe fare di più in vari campi, come la privatizzazione delle aziende pubbliche locali, la liberalizzazione dell’acqua, lo smantellamento delle regole giustizialiste e formaliste in tema di appalti che paralizzano le opere grandi e piccole, e contro l’ostinata resistenza delle Regioni e degli enti locali a ridurre i loro vincoli burocratici che ostacolano le opere infrastrutturali e dell’edilizia.

Ma il paradosso è che questi vincoli sono stati posti dalla sinistra e sono stati avallati dagli stessi giornali d’opinione che criticano il centro destra. E le resistenze a queste privatizzazioni, liberalizzazioni, eliminazioni di lacci e laccioli vengono soprattutto dai centri di potere della sinistra e del centro, cioè dall’opposizione, che vorrebbe sostituire questo governo che – si dice – non fa abbastanza per la crescita.

È però mia opinione che le difficoltà poste all’aumento del tasso di crescita del nostro Pil stiano, in una misura non indifferente, anche nelle incertezze del sistema giudiziario e nei vincoli alla liberalizzazione del mercato del lavoro, che impediscono di andare sollecitamente verso il modello tedesco basato sul decentramento, l’autonomia e la varietà delle scelte contrattuali e sulla collaborazione per la produttività aziendale.

E un tema cruciale su cui molto stanno facendo, nella nuova Fiat auto, l‘amministratore delegato Sergio Marchionne – con il costante appoggio di John Elkann – e il governo, mediante la riduzione fiscale per il salario di produttività e la nuova legge sull’arbitrato. Legge che purtroppo è stata disarmata dell’importante possibilità di applicazione alla gestione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ciò a causa della dura azione della CGIL e dei partiti della sinistra che hanno indotto il Capo dello Stato a chiedere lo stralcio di quella norma. E ora ci troviamo con una nuova azione della FIOM, questa volta con l’arma giudiziaria, contro i nuovi contratti di lavoro aziendali di Marchionne. E la Confindustria di Emma Marcegaglia lo lascia solo!

Ci si lamenta che l’Italia non cresce abbastanza, che noi non abbiamo abbastanza investimenti esteri e difettiamo di grandi imprese e, si deduce, queste sono fra le cause della minore crescita del Pil dell’Italia rispetto ad altri Paesi. Tutto questo è vero, ma ecco ora due casi emblematici in cui è chiara la non-certezza del diritto, interpretato in chiave evolutiva ideologica, su cui riflettere a mente fredda.

Il primo caso è la condanna a 16 anni di reclusione di Harald Espenhahn, amministratore delegato di Tyssenkrupp, per omicidio volontario “con dolo eventuale”. Una sentenza che è stata definita correttamente dal procuratore della Repubblica di Torino Guariniello come svolta epocale. E che è stata commentata in modo analogo dal Presidente del tribunale Caselli. I due hanno pienamente ragione e sbagliano i giornali di opinione che si affannano a negare che questa sentenza sia una svolta epocale, perché provano imbarazzo ad ammetterlo, sapendo che si tratta di un’interpretazione del diritto penale, al di là del testo scritto, giustificata solamente sulla rilevanza dei nuovi interessi in gioco. Ciò sulla base della teoria della sinistra giuridica (così auto denominatasi, con autorevoli studiosi) secondo cui questo tipo di interpretazione sarebbe un compito della dottrina e della giurisprudenza, per adeguare il diritto ai bisogni della società.

Il secondo caso, anche questo degli ultimi giorni, è il ricorso della FIOM, aderente alla CGIL, al tribunale del lavoro contro i contratti per Pomigliano e Mirafiori di Fiat auto, sulla base dell’articolo 2112 del codice civile interpretato, anche questa volta, al di là del semplice testo. I giudici del lavoro hanno fatto largo uso della teoria evolutiva del diritto, in particolare in relazione all’interpretazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, snaturandolo. La lotta sindacale così si è trasformata in lotta nei tribunali, secondo la deriva della nuova fase dell’opposizione, sia essa quella politica, che ricorre ai processi contro Berlusconi (ma anche contro altri politici) per cercare di modificare la volontà degli elettori o quella sindacale che, avendo perso i referendum aziendali, vuole ribaltare il giudizio dei lavoratori con i cavilli giudiziari.

In entrambi questi casi, ci si trova di fronte al fondato rischio che gli stabilimenti italiani delle due grandi imprese siano chiusi, i lavoratori perdano il posto, l’indotto venga meno con danno per l’occupazione e la produzione italiana. E c’è il rischio che il movimento verso il decentramento dei contratti di lavoro, essenziale per lo sviluppo del Mezzogiorno e per la crescita delle nostre imprese, venga bloccato per via giudiziaria. Klaus Schmitz, presidente della TyssenKrupp, ha dichiarato che la  sentenza a carico di Harald Espenhahn per omicidio volontario “con dolo eventuale” è inspiegabile e incomprensibile e ha aggiunto che essa fa sorgere il problema di prevedere la nuova giurisprudenza in tema di sicurezza sul lavoro.

Ha concluso che data la nuova incertezza, consistente nel rischio di condanne per omicidio volontario di persone che hanno commesso errori di valutazione o negligenze, aggravate da comportamenti negligenti di altri, a loro non note, sarà da ora in poi difficilissimo lavorare in Italia. Ed ecco quanto ha dichiarato Feliciano Polli, del PD, che è presidente della provincia di Terni, è stato dirigente di imprese siderurgiche e membro della presidenza dell’Associazione Nazionale comuni italiani (ANCI), dunque un personaggio rilevante. Polli afferma che il verdetto, eccessivamente duro, preoccupa fortemente lui, la cittadinanza e i sindacati, per gli effetti sulle prospettive di una grande azienda come la Thyssenkrup che ha a Terni un importante stabilimento siderurgico.

Il dolo eventuale che ha comportato la condanna in primo grado a 16 anni per l’a. d. tedesco è una costruzione della dottrina, che non trova riscontro nel codice penale. Per la Cassazione il dolo eventuale, ossia il dolo collegato all’evento, di chi ha causato la morte di una o più persone, in relazione a infortuni per evitare i quali occorrevano precauzioni, si distingue dalla colpa cosciente perché comporta la rappresentazione della concreta possibilità della realizzazione del fatto dovuto alla mancanza di tali precauzioni e l’accettazione del rischio da ciò derivante: e per conseguenza la volontà di tale fatto. Non è questo ciò che hanno sentenziato i giudici di Torino. Essi hanno innovato e sono andati oltre la teoria oggettiva a cui fa riferimento la Cassazione. Hanno trascurato la concretezza oggettiva della rappresentazione dell’evento e considerato solo la gravità del rischio. In Italia è la prima volta che si applica questa nozione, che non si trova nel testo degli articoli del codice penale sul dolo, a casi come questo. In Germania e negli altri Stati non si è ancora giunti a questa dottrina. Ora c’è un precedente sul dolo eventuale, soggettivo anziché oggettivo e concreto, dovuto a una sentenza, non a una definizione testuale della legge.

E ora consideriamo il ricorso della FIOM per Fiat auto presentato lunedì, mentre oggi c’è l’incontro fra Marchionne e i sindacati per decidere le sorti dello stabilimento ex Bertone di Grugliasco nel quale Fiat auto si propone di investire mezzo miliardo di euro per produrre auto sportive Maserati, riportando i 1100 addetti dalla cassa integrazione straordinaria, durata troppo tempo e ora sospesa, all’occupazione permanente. In pratica salvandoli dalla disoccupazione. Però Fiat auto chiede per la ex Bertone lo stesso contratto che ha stipulato per Pomigliano e Mirafiori. A ciò si oppone la FIOM sostenuta dalla CGIL, in cui essa conta moltissimo. È evidente la provocazione del ricorso per la revoca dei due contratti aziendali di Pomigliano e Mirafiori, nei giorni in cui Marchionne li vuole estendere al salvataggio della ex Bertone. FIOM si aggrappa all’articolo 2112 del codice civile che afferma che in caso di trasferimento d’azienda il lavoratore conserva tutti i diritti, compresi quelli previsti dai contratti collettivi nazionali e aziendali vigenti alla data del trasferimento, salvo che siano sostituiti da altri.

Ora, Fiat auto era uscita da Confindustria, quindi dal contratto che imponeva la rappresentanza dei sindacati nelle aziende, anche se questi hanno fatto votare contro il referendum che approva i nuovi contratti aziendali e sono rimasti in minoranza. Insomma FIOM e CGIL vogliono restare nelle fabbriche in cui esse si sono opposte al nuovo contratto, per fare un’opposizione costante e diventare maggioranza sindacale. Ma questo nuovo contratto è stato approvato dai sindacati UIL, CISL e FISMIC ed è stato accettato dalla maggioranza dei lavoratori di Mirafiori e Pomigliano, nel referendum effettuato prima della costituzione delle due nuove società nei due stabilimenti. Inoltre Fiat auto era uscita da Confindustria prima dei referendum, denunciando l’accordo collettivo nazionale di concertazione del 1993 che stabiliva la presenza in fabbrica anche delle rappresentanze sindacali contrarie ai contratti vigenti in esse. Ora le aziende Fiat auto e la ex Bertone e l’indotto auto italiano dipendono da una causa indetta dal sindacato che ha perso i referendum aziendali e che ricorre al giudice contro la maggioranza dei lavoratori e gli altri sindacati. A cui il contratto Marchionne sta bene perché garantisce il posto di lavoro tramite la maggiore produttività. E i frutti del miglioramento di produttività in parte andranno ai lavoratori, secondo il modello tedesco.

Le sentenze dei magistrati del lavoro spesso hanno interpretato l’articolo 18 in modo evolutivo stabilendo a esempio che un lavoratore che è stato condannato per furto in primo e secondo grado non può essere licenziato sinché non si è espressa la Cassazione. Come se le condanne in primo e secondo grado non configurassero un fondato motivo per il licenziamento, in base al testo dell’articolo 18 che ammette i licenziamenti non solo quando ricorra una giusta causa ma anche quando ci sia fondato motivo. Come, appunto, una condanna di primo e/o secondo grado per furto che mette a rischio l’azienda, in quanto il reato potrebbe essere reiterato. Se il pericolo di reiterazione del reato permette la carcerazione di chi non è stato ancora giudicato, perché non è un fondato motivo per un licenziamento degli autori di furti? Se tanto mi dà tanto, cosa farà il giudice del lavoro di fronte al ricorso di FIOM? E perché la FIOM e la CGIL si rivolgono ai magistrati, quando non riescono a vincere in altro modo? Fino a quando in Italia le leggi saranno interpretate in modo innovativo minando la certezza del diritto penale, del diritto del lavoro e del diritto civile, sarà molto difficile investire nel nostro Paese.