Se l’Occidente non va a sinistra è tutta colpa della cultura di massa?
08 Giugno 2008
Raffaele Simone si chiede perché l’Occidente non vada a sinistra, e prova a darne una spiegazione in linea con i suoi interventi degli ultimi anni. Mostra la nascita di una neosinistra e una neodestra caratterizzate entrambe da ideologie sbiadite e adesione alla realtà mediatica, e a dominare tutto il Mostro Mite: una versione attualizzata del dispotismo della maggioranza di tocquevilliana memoria. Scrive: “In nessun paese la sinistra ha saputo prevedere, e tanto meno governare, la nascita di quella sorta di ‘dispotismo culturale’ in cui viviamo da più di un ventennio e che ci iviluppa ormai nella sua rete. Non è la sola negligenza, ma è una delle più gravi. Si riferisce infatti a un sistema gestito da conglomerati multinazionali e da centri mondiali di potere finanziario, incentrato sui consumi, l’ubiquità dei media e l’entertainment, su continui appelli alla volontà del popolo e un generico bisogno di religione e di spiritualità.”
Simone traccia un quadro sinistro e senza uscita della realtà in cui viviamo, la cui caratteristica principale è quella di essere una moderna, ipermoderna, società di massa. La cultura che vi regna? Una degradata cultura di massa, in cui si mischiano industria culturale e trash, merci e spettacolo, divertimento forzato e materialismo.
Ci si chiede a quale idealtipo di sinistra e di destra Simone guardi nell’analizzare la sinistra e la destra di oggi: è infatti difficile rintracciare nella storia, e nella storia del pensiero politico, le categorie alle quali fa riferimento. Mai nessun partito politico si è schiacciato su una appartenenza di classe quale Simone chiede alla sinistra e riconosce nella neodestra. Probabilmente le categorie politiche di destra e sinistra che usa traggono sostanza dall’opposizione alla realtà presente, che all’autore sembra priva di ideologie, di punti fermi e di solidi ancoraggi nelle classi. Ma il punto è che tutte le osservazioni e i criteri di Simone dipendono dalla sua immagine di modernità: un processo pervasivo e dolce, attraente e semplificatorio, secolarizzante e inarrestabile, che mette i giovani al centro della società, chiude il futuro, sostituisce alla lettura il guardare (e soprattutto il guardare schermi), e al quale le tecnologie digitali hanno dato un contributo potentissimo nel rendere indistinguibili il vero e il falso. I processi che vanno in senso contrario sono ignorati dall’autore, il quale vede la coerenza di tutti i fenomeni attuali e il loro procedere verso una direzione unica: la sempre maggiore modernità.
Sembra che destra e sinistra abbiano subito entrambe senza reagire il trionfo della modernità di massa, anche se è solo la destra a trarne vantaggio elettorale. Non riuscendo a opporsi a questa realtà che ha schiacciato ogni valore, ogni gerarchia, ogni tradizione non per consegnarci tutti a un mondo migliore ma per gettarci inermi nelle braccia dei reality show e delle merci, la destra (non quella sociale) ha realizzato la sua vera essenza e può dirsi felice, mentre la sinistra ha abdicato a ogni possibilità di affermarsi come sinistra: si è edulcorata, annacquata, scolorita fino a risultare indistinguibile dalla parte avversa.
Certo, se come interprete della storia italiana si prende Pier Paolo Pasolini, molte cose si spiegano. Non perché Pasolini non fosse geniale, ma perché la sua diagnosi del passaggio dell’Italia dal premoderno alla modernità come una catastrofe culturale, una perdita, una sconfitta, è il segno caratteristico della sua lettura della storia italiana.
Simone deplora che la classe operaia si sia snaturata dandosi completamente ai consumi, annullando la sua carica eversiva nella disperata mimesi della borghesia. La demonizzazione del consumismo appare proprio come il segno della difficoltà di alcuni a comprendere l’oggi. Che l’orizzonte dei consumi sia un orizzonte limitato è ovvio; ma che ai consumi si possano addebitare la perdita della sinistra dei suoi ideali, l’abbandono da parte del suo elettorato della tensione ideale sembra francamente eccessivo. Forse sarebbe il caso di rendere giustizia ai consumi considerandoli per qual che sono: una appropriazione non solo delle merci che si acquistano ma anche della partecipazione a un mondo condiviso (fittiziamente, certo, ma è pur sempre un modo), della possibilità di inventarsi vite diverse da quelle vissute. Questo è sempre accaduto, dacché merce è esistita. Simone scrive: “Già trentacinque anni fa era possibile registare il diffondersi dell’’ideologia del consumo’, la superba astuzia che il capitalismo era riuscito a far passare creando anche presso i suoi nemici paradigmi a cui tutti pensavano di attingere.” Tra Hegel e francofortesi, e con il ritratto benedicente di Pasolini, il consumo si fa leggere come astuzia della storia più che come fenomeno sociale che si è affermato nella società dei consumi.
La stessa cosa vale per le televisioni: che sfornino robaccia inguardabile è assodato. Ma attribuire a quelle e ai reality lo statuto di causa di tutte le nefandezze della realtà attuale significa esaltare il potere di quei mezzi e di quelle brutte trasmissioni. La sopravalutazione della televisione trascura il grande spazio che ha nella vita dei più giovani un altro mezzo di comunicazione: Internet. E contemporaneamente svaluta le altre agenzie educative: famiglia, scuola, associazioni delle quali si fa parte, gruppi di lavoro, gruppi locali. In tutte queste aggregazioni (volontarie o naturali) l’individuo viene socializzato alla realtà: gli si insegnano regole, gli si trasmettono valori, gli si indicano ideali da seguire e principi a cui conformare la propria vita.
Ci si chiede come è possibile che nel mondo del dispotismo culturale possa trovare spazio un libro di denuncia come questo. Ci si chiede chi siano i lettori che lo hanno già acquistato in massa. Già, in massa: una bella contraddizione.
Raffaele Simone, Il Mostro Mite. Perché l’Occidente non va a sinistra, Milano, Garzanti, 2008