Se per colpa della crisi il giornalismo piange, Tv e web di certo non ridono
18 Agosto 2009
Il tempo non è sempre galantuomo. Soprattutto non lo è per chi soffre di miopia e non sa guardare al di là delle stanghette dei propri occhiali . Esattamente dieci anni fa , in un’isoletta non lontana da Manhattan veniva celebrata, con una festa super-esclusiva (solo 1000 invitati, molti direttori di quotidiani e di periodici italiani fecero carte false per ottenere un biglietto d’invito) la nascita di quello che sarebbe dovuto essere il periodico del secolo, “The Talk”, frutto dell’iniziativa congiunta di due giganti dei media , la Hearst Corp. e Miramax. Lo avrebbe diretto Tina Brown , reduce di veri e propri trionfi di tiratura e di pubblicità con “The New Yorker” e “Vanity Fair”. Fu un “party” memorabile – affermano coloro che vi sono stati presenti. Madison Avenue esultava. Un po’ come le ultime feste a Versailles, che tanto più erano lussuose quanto più nelle strade di Parigi erano già in corso i moti rivoluzionari.
E’ proprio il caso di dire che la festa è finita. Tutti sanno che la stampa scritta è in serio pericolo, specialmente negli Usa ed in Europa. Negli ultimi cinque anni, il margine operativo lordo di The Washington Post ha segnato una flessione del 25% e quello del New York Times del 50%. Il Chicago Tribune, il Los Angeles Times ed altre sei testate un tempo importanti hanno dichiarato fallimento. La chiusura di giornali, anche piccoli, scalfisce ed incrina uno dei beni pubblici per eccellenza: la democrazia. Lo diceva Thomas Jefferson oltre 200 anni fa e lo dimostra oggi un’analisi empirica recente della Università di Princeton : la morte per inedia, a fine 2007, del piccolo Cincinnati Post (una circolazione di appena 27.000 copie) ha comportato una riduzione della partecipazione alle elezioni nei quartieri dove il quotidiano era più letto, nonché la sconfitta sistematica dei canditati a incarichi municipali residenti nei quartieri medesimi. Quasi in parallelo, uno studio comparato della University of Virginia, mostra che, in 115 Paesi (sull’arco di venti anni), c’è un forte nesso tra investimenti diretti dall’estero, progresso tecnologico e libertà di stampa.
Pochi scrivono, però, che è a rischio pure l’informazione televisiva e quella su web. In primo luogo, non è più considerata un veicolo utile per la pubblicità. Basta guardare gli ultimi dati resi noti da Nielsen Media Research, relativi al periodo gennaio-maggio 2009, per averne conferma: flessione del 16,5% rispetto al 2008 per un giro d’affari complessivo di poco meno di 3,8 miliardi di euro. Il conteggio comprende vecchi e nuovi media (Tv, carta stampata, radio, cinema, affissioni, Internet e pure Transit, la pubblicità su metropolitane, aeroporti, autobus e tram) e ribadisce una tendenza in atto già dal secondo semestre dell’anno scorso.
Le aziende stanno spendendo meno in campagne pubblicitarie – il discorso vale anche per la maggior parte dei cosiddetti "big spender", con in testa Wind, Unilever, Vodafone, Ferrero e Volkswagen – e il solo mezzo che dimostra di essere in attivo è il Web, che segna un incremento nei primi cinque mesi del 7,8%. Per Tv e stampa il bilancio è in profondo rosso: -14,8% di entrate per il piccolo schermo (il dato comprende sia i canali generalisti che quelli a pagamento) e -25,1% per quotidiani e periodici.
Per molti commentatori , il problema è soprattutto di "media mix", ossia della diversa distribuzione della spesa in pubblicità sui vari canali di comunicazione. Fra le domande che ricorrono da tempo fra gli operatori del settore ve sono almeno un paio che riguardano la decantata convergenza fra Tv e Internet: il Web sta assorbendo parte dei budget destinati agli spot televisivi o si aggiunge a questi come voce strategica della pianificazione pubblicitaria? È una vetrina che si presta a "replicare" gli spot trasmessi sul piccolo schermo o richiede il confezionamento di campagne mirate? Difficile dare risposte precise per un semplice motivo: l’advertising on line è ancora un mercato giovane, in fortissima evoluzione e in cerca di un suo spazio strutturato all’interno del sistema pubblicitario italiano, dove la Tv fa sempre la parte del leone anche in tempi di crisi (i grandi investitori destinano mediamente il 90% del loro budget a questo media) e dove le concessionarie di pubblicità hanno di fatto in mano il pallino delle operazioni nel gestire gli investimenti delle aziende.
A riguardo , occorre ricordare che il nodo è molto più profondo: il crollo della pubblicità (anche e soprattutto di quella televisiva). Nel libro collettaneo (Bezzi e altri “Valutazione in azione”, Franco Angeli, collana Aiv, 2005) si descrive in dettaglio come nel 2002-2003 un gruppo di economisti incaricati dal Ministro delle Comunicazioni dell’epoca, Maurizio Gasparri, di effettuare un’analisi economica della transizione da televisione analogica e digitale terrestre propose la misura impolitica (ma accettata dal responsabile politico) di posporre dal 2006 al 2012 il passaggio al nuovo sistema perché si vedeva ormai imminente (dopo anni di crescita) la flessione oppure il tracollo della pubblicità come principale fonte di finanziamento per la televisione.
Molte delle proposte formulate in queste settimane non si fondano su una teoria economica solida del giornalismo. In politica economica, e nelle politiche pubbliche settoriali, le carte vincenti sono sempre basate su una teoria rigorosa. Un appello in tal senso viene dalla Vecchia Europa e dal Paese (la Repubblica Federale Tedesca), il cui maggiore editore di stampa scritta (Axel Springer) ha appena chiuso il consuntivo 2008 con il più utile netto segnato nei 61 anni in cui è in operatività . La lanciano, in uno degli ultimi numeri della rivista scientifica tedesca “Kyklos”, Susanne Fenger e Stephan Russ-Mohl . L’idea è di costruire una teoria economica del giornalismo, analoga alla teoria economica della democrazia, della politica, delle religioni, dell’arte e via discorrendo: mettendo gli strumenti più recenti della disciplina economica a servizio della professione, si possono curare una serie di malanni (quali l’influenza delle relazioni pubbliche sui media, la vera o presunta leggerezza – oppure l’eccesso – nel trattamento delle informazioni, il giornalismo “da rincorsa”, il giornalismo da “consigliere del principe”) che non hanno giovato al settore e sono causa di perdita di lettori e di pubblicità.
Sussanne Fenger e Stephan Russ-Mohl tratteggiano le basi di una teoria economica del giornalismo da cui scaturirebbero quelle prassi d’effettiva indipendenza, ed autorevolezza che , da un lato, farebbero riacquistare prestigio alla professione e, dall’altro, renderebbero finanziariamente, politicamente e socialmente fattibili soluzioni innovative.
Merita interesse la proposta formulata da David Swensen, direttore della finanza alla Università di Yale, e Michael Schmidt, docente di finanza aziendale presso lo stesso ateneo: dato che la carta stampata è essenziale alla democrazia trasformiamo la natura economica dell’editoria in un comparto come le fondazioni non-profit (analogo alle università private) il cui stock di capitale sia una dotazione, fornita da filantropi (agevolati da esenzioni tributarie) e le cui finalità siano quelle di fornire informazioni ed analisi (se si vuole pure di tendenza) ma svincolate dalle esigenze di breve periodo di rispondere a questa o a quella lobby, o a questo o a quel partito politico, per pubblicità, per acquisti d’abbonamenti all’ingrosso e per altre facilitazioni. Si tratterebbe di fondazioni svincolate solo in parte dal mercato: così come le università fanno pagare rette (direttamente proporzionali alla loro qualità e reputazione), i giornali andrebbero in edicola e farebbero a gara per il mercato pubblicitario.
Potrebbero avere sovvenzioni pubbliche dirette a combattere “il morbo di Baumol” dal nome dell’economista che formulò teoremi secondo cui perdono continuamente competitività (e muoiono per progressivo appassimento) i settori dove l’innovazione tecnologica è bassa e sono molto importanti certe categorie di lavoro professionale. In giornali di proprietà di fondazioni non profit , i giornalisti guadagnerebbero in autonomia ed autorevolezza; come per le università, la pubblicità, i lettori e le sovvenzioni correrebbero verso chi è più autorevole.
Occorre, infine, tenere sempre presente che, mentre nei Paesi poveri ad economia prevalentemente rurale, i soggetti economici hanno una visione circolare del tempo (agganciato alle stagioni agricole), nei Paesi ad alto reddito la visione è lineare: il tempo è finito ed è sempre troppo poco in relazione alle esigenze relative a ciò che si deve fare (o per impegno professionale o per obbligo sociale). Nelle nostre società, il tempo è risorsa scarsissima, da utilizzare con parsimonia e perspicacia. In una teoria economica del giornalismo, sarà importante individuare quale strumento d’informazione saprà contribuire a farlo impiegare meglio.