Se proprio dev’essere, che federalismo sia ma con molte precauzioni
17 Aprile 2010
Tra il ‘federalismo all’italiana’ e lo stato sociale anch’esso ‘all’italiana’, per la filosofia liberale sta davvero suonando la campana a morto: i ‘diritti soggettivi’ , garantiti dallo stato moderno, non sono più una dotazione effettiva ed eguale per ciascun cittadino fin dalla nascita ma, all’interno dell’unione federale, che certi settori politici e culturali hanno in mente, possono venire in un luogo rispettati, in un altro ignorati. In una regione, la parola del Papa sull’aborto è vincolante e ha più peso morale (e conseguenze pratiche) della norma fissata dal legislatore, in un’altra, si potrebbe decidere di protrarre, come in Inghilterra, alla sedicesima settimana la soppressione del feto. In una regione, continuerebbero ad aver vigore leggi sull’immigrazione come la vecchia Bossi-Fini, in un’altra il monito, dei vescovi e dei preti di marciapiede, come si definisce don Andrea Gallo, indurrebbe a non tenerle in alcun conto. Ed è forse superfluo rilevare che il Vaticano, nel primo caso, verrebbe accusato di intollerabile ingerenza negli affari politici, con tutti gli alti lai elevati al cielo per il neo-clericalismo rampante e aggressivo simboleggiato dal Cardinal Ruini, nell’altro, verrebbe elogiato per la sensibilità mostrata nei confronti della sofferenza umana e per la sua opposizione alle leggi crudeli ed etnocide dello Stato.
Nell’imminenza dei centocinquant’anni della proclamazione del Regno d’Italia, è proprio il caso di ripetere, e questa volta senza la pur nobile retorica carducciana: ”ahi non per questo!” Quanti esposero le loro giovani vite sui campi di battaglia di Curtatone e Montanara, di Solferino e di Calatafimi, non volevano sentirsi incatenati alle loro piccole ‘comunità di destino’, soffocati dallo spirito di famiglia e di clan, legati per la vita a un ‘piccolo mondo antico’ dialettale, a costumi e a ritualità sociali imposti e non scelti liberamente: non volevano saperne, insomma, di una identità etico-politica definita dall’essere genovesi, grossetani, catanesi, ma, diventando italiani, intendevano respirare a pieni polmoni l’aria dell’Occidente, allargare le libertà civili e far ricadere su tutti i popoli della penisola quelle che sono state definite da Albert Hirschman le ’benedizioni della ‘modernità’.
Oggi il ‘federalismo all’italiana’ rischia di riportarci a ciò che eravamo un secolo e mezzo fa: accanto a una regione cattolica, il Veneto, che pretende non solo di coltivare le sue radici religiose – ciò che è lecito a livello di ‘società civile’ – ma, altresì, di ritagliarsi un diritto regionale che le rispecchi fedelmente, infischiandosi delle minoranze non cattoliche e delle prerogative di “cittadinanza” impensabili senza la laicità dello Stato, potremmo averne un’altra, la Toscana, ‘verde’, pacifista, non violenta, che si ritiene autorizzata a mettere al bando l’energia nucleare e a scaricarla sulle regioni vicine o lontane, ma pur sempre italiane. Di questo passo vi saranno (e le avvisaglie non mancano) enti locali che ammettono il matrimonio civile gay e, persino, l’adozione e altri che, fedeli ai vecchi costumi, ritenendo riprovevole la convivenza di persone dello stesso sesso, faranno di tutto per rendere loro la vita difficile, magari estromettendole de facto da ogni ufficio e condannandole al pubblico disprezzo.
In fondo, è la lezione che impartisce il libertario Murray Rothbard nelle sue riflessioni sul nazionalismo – v. il saggio ‘Nazioni per consenso: decomporre lo stato nazionale (in Ernest Renan – Murray N. Rothbard, Nazione, cos’è , a cura di Nicola Iannello e Carlo Lottieri, Ed. Leonardo Facco, 1996): ogni comunità ha il diritto di decidere quali principi etici imporre a chi voglia farne parte. Ne derivano strane conseguenze e convergenze che dimostrano, semmai ce ne fosse stato bisogno, come la rinuncia a quel minimum di etica pubblica fondata su valori forti e condivisi che definiva il liberalismo storico trasformi il vino di Constant e di Tocqueville nell’aceto di Nock e di Rothbard. “Alcuni quartieri – ipotizza il libertario americano – sarebbero etnicamente o economicamente diversificati, mentre altri sarebbero etnicamente o economicamente omogenea. Alcune località permetterebbero la pornografia, la prostituzione, la droga o l’aborto; altre proibirebbero alcune di queste attività o anche tutte. Le proibizioni non sarebbero imposte dallo Stato, ma sarebbero semplicemente requisiti per la residenza o l’uso dell’area di terra di qualche persona o della comunità”. Se in una regione si ha la libertà sovrana di condannare al rogo inquistoriale libri e autori proibiti e in un’altra quella di consentire la pedofilia – come auspicherebbe apertis verbis, se potesse farlo senza perdere le simpatie di tanti suoi estimatori, qualche libertario nostrano – nessun problema. Chi non accetta le regole fissate dai condomini – detentori, beninteso, non del ‘potere politico’ che è stato messo alla porta ma del ‘potere sociale’ che agli antistatalisti appare come cosa qualitativamente diversa giacché è in grado di ‘cacciare’ ma non di ‘costringere’…. – non ha che da fare le valigie.
In tal modo, il modello rothbardiano, per ironia della sorte, finisce per riproporre proprio quella ‘polis’ che Benjamin Constant contrapponeva alla libertà dei moderni. Nella versione più tollerante di città-Stato, Atene, le Leggi dicono a Socrate, nel ‘Critone’ di Platone – ”E, come te, così similmente ogni Ateniese ch’è in età d’esser cittadino e preso che ha contezza dei costumi della città e di noi leggi; t’avvisammo che, a caso non ti garbiamo, noi ti diamo la licenza di torre teco tutta la tua roba e andartene dove ti piace; perché nessuna di noi leggi vieta e impedisce ad alcun di voi Ateniesi ch’e’ non se ne vada in alcuna colonia, semmai è scontento di noi e della città”. Nessun dubbio che il restare e l’andarsene potessero essere decisioni non da poco e non certo equivalenti alla scelta tra l’assistere a una commedia di Aristofane o a una tragedia di Euripide o tra il comprare una Ford o una Opel. In fondo alla versione radicale del libertarismo, a ben riflettere, c’è l’unanimismo, la fine del conflitto: nel quartiere dove tutti la pensano allo stesso modo, il ‘bargaining’ – ”l’immensa transazione” che secondo Cattaneo definisce il mondo moderno – non ha più ragion d‘essere, nessuno dovendo più essere costretto a cedere su qualcosa per conservare qualcos’altro, in condizioni di parità con gli altri concittadini, tenuti anch’essi a far qualche sacrificio per poter convivere con quanti hanno gusti, interessi, valori diversi.
Non è certo questo lo ‘spirito del liberalismo’ ottocentesco, inconcepibile senza l’universalismo etico kantiano e senza l’empirismo sociologico tocquevilliano. Un liberale “all’antica” non reputa una eventuale ricomposizione federale dello Stato una conditio sine qua non della società aperta, così come non pensa che la repubblica garantisca le libertà civili e politiche più della monarchia o viceversa. Per lui, sono i diritti ‘indisponibili’ dei cittadini a fare la differenza e il potenziale nemico di quei diritti non è solo lo Stato ma ogni comunità politica le cui ‘proibizioni’ s’impongano a tutti, indipendentemente dal fatto che investano la sfera privata o quella pubblica (non separate da madre natura ma dalle sensibilità umane che mutano nel tempo). Anche la Germania di Guglielmo II e il Messico di Agostino Iturbide erano ‘stati federali’ ma le libertà e i diritti non vi erano certo più protetti che in stati accentratori come la Francia.
E tuttavia se federalismo dev’essere, il federalismo è impensabile senza l’attributo “fiscale”. Ciò significa che le risorse materiali e culturali in senso lato prodotte in una regione debbono essere amministrate dai suoi abitanti e che la destinazione del prelievo fiscale (relativo) è unicamente affar loro – se le tasse saranno troppo alte, saranno gli elettori a punire le Giunte sprecone. Ciò significa pure, al di là della insopportabile retorica buonista, che le regioni più ricche potranno permettersi servizi sociali più numerosi ed efficienti delle regioni più povere e che queste, per rimontare lo svantaggio, dovranno rimboccarsi le maniche, ingegnarsi a valorizzare le loro produzioni, attrarre capitali e imprese attraverso agevolazioni varie (purché lecite, beninteso). La solidarietà, che giustifica lo ‘stare insieme’ anche in una mutata repubblica federale, deve tradursi nel soccorso dell’intera comunità nazionale ai ‘governatorati’ poveri ma, in questo caso, il beneficiario ha l’obbligo di sottoporsi al controllo severo e oculato degli organi statali. Solo in Italia si può pensare che ‘autonomia’ equivalga a ‘irresponsabilità’: chi dà (lo Stato) ha il dovere di dare, chi riceve (la regione) ha il diritto di amministrare quanto gli viene dato con criteri insindacabili.
Il federalismo è un modello politico che evoca un’idea ‘virile’ di disuguaglianza , ovvero il riconoscimento realistico delle diverse dotazioni naturali e culturali delle diverse parti della comunità politica: dire che, una volta instaurato, dalle Dolomiti alle Madonie, ci troveremo “subito” tutti meglio significa soltanto accreditare non “generose menzogne”. La sua filosofia, lo ripeto, sta tutta nel ‘Principio Responsabilità’, nell’educazione civica contenuta nella massima popolare che “vieta di fare il passo più lungo della gamba” e che fa dello svantaggio iniziale lo stimolo a uscire dalla passività del suddito per ritagliarsi il proprio posto al sole nella ‘comunità dei cittadini’. Se Umberto Bossi, forte del successo elettorale, riuscirà a imporlo, per diversi anni, lucani e calabresi potrebbero essere costretti a stringere ulteriormente la cinghia. Forse le conseguenze di destabilizzazione del sistema politico non saranno facilmente controllabili ma non se ne esce: l’ inevitabile allargamento della forbice dei redditi, sarà, piaccia o no, la prova che si sta facendo sul serio, che non è più pensabile la pioggia di denari che, in passato cadeva, nel Mezzogiorno, su contenitori piatti e non su capienti bacini istituzionali in grado di investirli in opere durature. Se si lavora per assicurare agli abitanti delle varie regioni lo stesso reddito, c’è un solo strumento a disposizione: un sistema d’imposte elevate che faccia affluire il prelievo fiscale al centro e poi lo ridistribuisca equamente secondo il principio del “dare di più a chi ne ha più bisogno” (“a ciascuno secondo i suoi bisogni” era la formula del vecchio Marx). Ma è difficile che ciò si realizzi senza un rinnovato dirigismo statale e senza attribuire vasti poteri a funzionari imparziali che non debbono provvedere agli appetiti delle clientele elettorali né venire incontro agli egoismi locali per garantire il sostegno al governo.
Se si vuol mettere ogni regione in condizione di ‘farcela con le sue sole forze’, lo Stato deve fare un bel passo indietro, chiudere la ‘mensa del convento’ e concedere alle autonomie locali le più ampie libertà economiche, sottraendo loro solo quanto appartiene alla collettività nazionale – una regione in difficoltà, ovviamente, non può vendere all’estero un Mantegna o lottizzare un parco nazionale…
La ‘cura d’urto’ inevitabile – almeno per chi voglia prendere il ‘federalismo sul serio’ – va accompagnata, però, sia da un fortissimo senso dei diritti individuali, che in nessun modo potranno essere limitati dalle ‘culture’ e dai ‘costumi’ regionali, sia dal rigido controllo statale di beni ambientali e artistici considerati “patrimonio della nazione” (se non dell’umanità). Non solo i diritti contenuti nel tripode di John Locke – vita, proprietà, libertà – debbono valere incondizionatamente su tutto il territorio nazionale e l’universalismo giuridico non deve tollerare alcuna eccezione ma neppure, come s’è appena detto, ciò che appartiene idealmente a tutti può essere affidato alle cure esclusive di alcuni –i residenti locali. Quanto più va avanti il processo federale, tanto più vanno precisate, limitate ma anche rafforzate, nell’ambito ad esse rimaste, le competenze dello Stato. Non è l’indebolimento mortale di quest’ultimo che nutre il federalismo classico ma una dialettica centro/periferia volta ad arricchire la società civile e a fare della diversità una risorsa dell’individualità in polemica con la filosofia politica che riduca gli individui ad arti di un corpo organico ed esigente e faccia dipendere la loro libertà e felicità dalla gratificazione dell’appartenenza.
Sulla possibilità che in Italia – e forse non solo in Italia – ci si possa riuscire continuo a rimanere scettico. Se, però, si ritiene inevitabile incamminarsi su questa strada, occorre essere consapevoli che con le istituzioni, come con i santi, non è lecito scherzare: non è federalismo, ad esempio, chiedere al Ministero dei Beni culturali di restaurare, con i soldi degli Italiani, un monumento storico e poi riservarsi, in nome delle autonomie locali, ogni decisione sul progetto e sui criteri del restauro. Se non si vuol decadere a ‘repubblica delle banane’, ci si deve guardar bene dall’ estendere alla politica il lassismo tipico della famiglia italiana post-sessantottesca in cui i figli pretendono tutto – appartamento, macchina, paghetta – ma guai a interferire sulle loro scelte! La massima terra terra del vero federalismo dovrebbe essere: “quello che è tuo te lo amministri tu ,nel rispetto delle leggi generali dello Stato di diritto, s’intende; di quello che ti do io decidiamo assieme l’utilizzo e, in ogni caso, mi riservo il diritto di controllare come lo hai speso”. Al di fuori di questo, c’è solo l’infinita chiacchiera ideologica.