Se proprio dobbiamo andare all’inferno meglio che sia quello cattolico
04 Giugno 2016
di Luca Negri
“Io non Enea, io non Paulo sono: / me degno a ciò né io né altri crede” diceva uno spaventato Dante a Virgilio nel secondo canto dell’Inferno. Sbigottimento più che comprensibile, dato che gli era stata prospettata la possibilità di viaggiare nell’oltretomba mentre era ancora in vita. Tremendo dono concesso prima che a lui solo al figlio di Venere profugo da Troia e al santo convertito sulla strada di Damasco. Ma alla fine anche il gran fiorentino trovò il coraggio di fare la sua escursione nei tre regni ultraterreni e al suo ritorno compose il capolavoro che, se non altro, lo rese del tutto degno di tale privilegio.
Senza aver compiuto un’esperienza sconvolgente come quella dantesca, i due geni della letteratura argentina Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares, scelsero proprio quei due versi della Commedia come epigrafe per l’antologia di condizioni post mortem intitolata Il libro del cielo e dell’inferno che diedero alle stampe nel 1959 (pubblicata da noi in edizione Adelphi). Questo piccolo viaggio nella “millenaria evoluzione dei concetti di cielo e di inferno”, era l’ulteriore dimostrazione di interesse dei due nei confronti del meraviglioso, già testimoniato dall’Antologia della letteratura fantastica compilata in combutta nel 1940.
Interesse non meramente artistico, né tanto meno freddamente accademico. Entrambi agnostici, non erano però insensibili al fascinoso potere della fantasia e della sua misteriosa origine. “Ho venerato la graduale invenzione di Dio”, disse Borges; su chi fosse l’inventore e quale fosse lo scopo dell’invenzione sospendeva cautamente il giudizio. Comunque una raccolta di cieli e di inferni, di compensi e condanne per le anime, dovrebbe stimolare la curiosità e far meditare tutti, credenti o meno. A meno che si sia così poco fantasiosi e così tanto pessimisti da prospettarsi un noiosissimo e grigio nulla dopo la vita terrena.
Borges e Bioy selezionarono poesie, brandelli di testi religiosi e filosofici di variegata e contraddittoria provenienza (e come erano soliti fare, misero in mezzo autori immaginari, fecero qualche spiritosa aggiunta e ordirono un paio di falsificazioni bibliografiche). Ce n’è per tutti i gusti: dalla profonda fede di Sant’Agostino allo scetticismo di Bernard Shaw, dalle ossessioni morali di Dostoevskij all’umorismo distaccato di Mark Twain. Nella Chanson de Roland, capolavoro dell’epica alto-medioevale, Dio invia al morente paladino di Carlo Magno una trinità celestiale: il suo angelo cherubico, “san Michele del Periglio” e l’arcangelo Gabriele.
Nel decimo libro della Repubblica Platone racconta la bizzarra avventura sotterranea di Er l’Armeno, mentre le Edda di Snorri Sturluson (XIII secolo d.C.) tramandano il mito germanico del Valhalla, il paradiso di Odino destinato ai morti in battaglia che “ogni mattina si armano, combattono, si uccidono e rinascono. Un “cielo bellicoso”, l’unico paradiso, quello nordico, in cui il piacere stia nel combattere (“una cangiante e nebulosa leggenda, forse più infernale che paradisiaca”, nota Borges). Per il bizzarro mistico svedese Emanuel Swedenborg il cielo ha la forma di un uomo e l’inferno quella di un diavolo, mentre Franz Kafka ci rivela che “i cieli significano appunto impossibilità di corvi”, dunque di simboli mortiferi.
Sfilano poi le intuizioni karmiche dell’antroposofo Rudolf Steiner e quelle umoristiche di Robert Louis Stevenson, le ammonizioni profetiche dell’Apocalisse di Giovanni e il sarcasmo ateo di Voltaire. Molto spazio viene dato alle dottrine buddiste ed islamiche, catalogate (insieme a quelle indù, cinesi, iraniche, egizie, greche, etrusche, celtiche e dei nativi americani) dall’erudito amico di Manzoni Cesare Cantù nella sua “Storia universale” (parecchio saccheggiata dai due argentini).
Terminata la lettura, il destino ultraterreno più affascinante e forse più auspicabile ci pare risulti quello cattolico, lo stesso, guarda caso, messo in versi da Dante. Dove i beati risorgono nella materialità della carne e non come diafano spirito (bene lo spiega San Tommaso d’Aquino in passo del suo Compendio di Teologia) e i dannati si dannano con le loro stesse forze, con la loro stessa volontà di separazione dal cielo. Secondo Victor Hugo “ogni colpa è una cella che si apre” e “ogni malvagio genera, morendo, il mostro che la sua vita ha plasmato”. L’Alighieri ha dipinto con terzine immortali tutti quei mostri, probabilmente solo simbolici o allegorici.
In fondo, come scrisse nell’Ottocento l’abate Bandeville: “Non peggiorate l’Inferno con orrori immaginari: la Scrittura ci parla di nostalgie per la felicità perduta, dei dolori di un supplizio senza fine, dell’oblio di Dio. Quanto deboli sono i mostri della fantasia di fronte a tale spaventosa verità”.
[Pubblicato il 12 giugno 2011]