Se Renzi si ritrasforma nella solita sinistra
16 Gennaio 2014
Le aspettative create nell’opinione pubblica di centrosinistra, ma non solo, dall’affermazione di Matteo Renzi come leader del Partito democratico e nuovo aspirante uomo-chiave della politica italiana sono molto alte, ma vanno confrontate freddamente con la realtà dell’evoluzione della sua figura politica, e con i risultati che essa può realisticamente indurre nel sistema politico italiano.
L’attuale segretario del Pd continua a beneficiare presso molti osservatori, a distanza di quasi due anni dalla sua "discesa in campo", dell’immagine che inizialmente propose di sé: quella, cioè, di un uomo pragmatico, liberale, non ideologico. Un’immagine che specularmente si contrapponeva, nelle primarie per il candidato premier del centrosinistra, all’"apparato" continuista rappresentato da Pierluigi Bersani.
Solo che nel frattempo, appunto, moltissima acqua è passata sotto i ponti: per la precisione, tutta la sofferta fase di transizione politica, dallo stallo elettorale del febbraio 2013 alla rielezione di Giorgio Napolitano al Quirinale, al varo del governo di "larghe intese" guidato da Enrico Letta, all’uscita della rinnovata Forza Italia di Berlusconi dalla maggioranza. In questi mesi la strategia di Renzi è decisamente cambiata, allontanandosi da quelle posizioni indipendenti che lo avevano fatto percepire come un fenomeno del tutto nuovo in un quadro politico-partitico stagnante.
Il sindaco di Firenze ha deciso infatti di approfittare dello smarrimento del Pd per puntare direttamente alla conquista del partito. E, contestualmente, di giocare la propria partita personale per la leadership non sostenendo l’eccezionale sforzo post-ideologico e pacificatore delle "larghe intese", ma anzi sistematicamente logorandolo per indebolire quello che si è cominciato a profilare come il suo maggiore possibile antagonista nell’area di centrosinistra, ossia proprio Letta.
In breve, per diventare il leader incontrastato della sinistra (impresa fino a pochi mesi fa impensabile, realizzata con la schiacciante vittoria alle primarie dell’8 dicembre 2013) il sindaco di Firenze ha sostanzialmente adeguato (sia pure con grande astuzia e capacità comunicativa) la propria offerta politica a quelli che ormai da decenni sono le idee, gli umori, le idiosincrasie dominanti nel "nocciolo duro" dell’area elettorale di centrosinistra.
Ora, da quando è tramontata la presa dell’ideologia marxista quelle posizioni, che fanno la forza dei raggruppamenti di sinistra ma dall’altro lato ne segnano l’incapacità di conquistare consenso in misura rilevante fuori dal proprio terreno consolidato, si possono sintetizzare in tre punti:
1) soggettivismo radicale sulle questioni "antropologiche" e biopolitiche, in nome della identificazione tra desideri individuali e "diritti";
2) apertura aprioristica verso l’immigrazione, concepita come fenomeno positivo in quanto tale, senza alcuna preoccupazione per la distinzione tra flussi legali e clandestini e per la salvaguardia dell’identità nazionale;
3) pregiudizio giustizialista sul tema della "legalità", spinto fino ad un’acritica subordinazione alle campagne mediatiche/giudiziarie condotte dai settori ideologizzati della magistratura italiana.
Ebbene, in pochi mesi proprio in queste tre direzioni Renzi ha rapidamente adottato – con un suo personale stile giovanilista e guascone ma nella sostanza pedissequamente – tutti i classici punti di vista della sinistra più settaria (e politicamente minoritaria). E’ così che si è guadagnato, tra l’altro, l’appoggio di "Repubblica", voce ufficiale del conformismo "di sinistra" contemporaneo (con la solitaria presa di distanza del "fondatore" Eugenio Scalfari).
I suoi pronunciamenti in materia sono noti: dalla svolta a 180 gradi sul tema delle unioni omosessuali, che oggi appoggia in pieno, alla posizione favorevole alla decadenza da parlamentare di Silvio Berlusconi (che proprio lui aveva dichiarato di voler battere non con mezzi giudiziari ma nelle urne), alla netta contrarietà a qualsiasi ipotesi di amnistia, alla campagna contro il ministro Cancellieri sul tema della carcerazione della famiglia Ligresti, fino alla proposta ufficiale di modifica in senso meno restrittivo della legge Bossi-Fini sull’immigrazione.
In particolare, poi, insistendo sui punti 1) e 3) Renzi non soltanto ritiene di cementare la sua presa sugli elettori "classici" del suo partito, ma spera anche di recuperare almeno in parte i voti persi dalla sinistra a favore del movimento di Grillo. E lanciando proposte divisive sui temi di famiglia/sessualità e dell’immigrazione, mentre dall’altro lato insiste per arrivare in tempi brevissimi ad una riforma della legge elettorale, spera di disarticolare la maggioranza di governo, più risicata dopo la dissociazione della nuova Forza Italia, e di ottenere quello che al momento è l’unico suo obiettivo politico inequivocabilmente definibile: la caduta del governo Letta, la fine rapida della legislatura e nuove elezioni politiche, nelle quali egli ritiene di poter conquistare facilmente una maggioranza.
La nuova linea di Renzi, peraltro, può contare anche su un notevole gioco di sponda da parte della destra berlusconiana recentemente passata all’opposizione, scindendosi dalla componente filogovernativa del Nuovo centrodestra di Angelino Alfano. Ciò innanzitutto per una convergenza tattica immediata: il comune interesse a indebolire il governo Letta e ad andare al più presto a nuove elezioni, che per il Cavaliere significherebbe rafforzare ancora una volta la propria leadership e propiziare un assetto politico bipolare in cui la destra venga nuovamente "normalizzata" sotto la sua indiscussa egemonia. Ma a parte questo, è evidente che esiste pure una oggettiva consonanza tra alcuni aspetti del neo-radicalismo renziano e la cultura politica della nuova Forza Italia, in cui trovano voce le componenti più populiste ma anche più libertario-laiciste del centrodestra (vedi le tendenze in favore delle unioni omosessuali in esponenti di primo piano del berlusconismo ortodosso come Galan e Bondi).
Un tale quadro conduce però, a mio avviso, a concludere che tanto l’approccio del Pd renziano quanto il nuovo corso di Berlusconi presentano aspetti di fondamentale e parallela debolezza.
L’appiattimento di Renzi su issues e umori consolidati della propria parte di origine e i suoi ammiccamenti all’antipolitica, infatti, potranno forse far recuperare al Pd una parte dei consensi fuggiti verso Grillo, ma in compenso tenderanno ad alienare al Pd la possibilità di attrarre simpatie di settori moderati e non schierati dell’elettorato, rischiando di rinchiudere per l’ennesima volta il principale partito del centrosinistra nella gabbia di un forziere elettorale tanto cospicuo quanto inesorabilmente minoritario, quale che sia il sistema elettorale con il quale si voterà alle prossime consultazioni.
Anche nell’unico campo sul quale finora Renzi si è tenuto distinto dall’ortodossia storica della sinistra italiana – l’economia e il mercato del lavoro – probabilmente la curvatura liberale delle sue posizioni non reggerà a lungo: con l’avvicinarsi delle campagne elettorali e la necessità crescente di consolidare i consensi di uno "zoccolo duro" irrequieto (se ne vedano già i primi segni nelle dimissioni di Stefano Fassina dall’esecutivo e nella riorganizzazione dell’opposizione interna al Pd) gli accenti liberaleggianti assunti dal sindaco di Firenze in questi campi tenderanno a scolorirsi, per lasciare il posto a soluzioni di compromesso almeno non sgradite al mondo sindacale che fa capo alla Cgil, tradizionalmente "azionista di maggioranza" di quell’area politica (per non parlare di Sel, con la quale finora Renzi non ha mai detto che non si alleerà).
La leadership renziana, dunque, nonostante l’insistenza su "rottamazioni" e rivoluzioni generazionali minaccia fortemente di rivelarsi, alla fine, come l’ennesima incarnazione di una sinistra incapace di conquistare territori nuovi della società, e destinata dunque o a perdere o a non vincere abbastanza da governare autonomamente.
Dal lato opposto, anche la nuova strategia berlusconiana d’opposizione, che privilegia gli aspetti più protestatari e populisti del patrimonio politico del centrodestra, rischia di avere le gambe corte e di raggiungere risultati opposti a quelli prefissi. Essa, infatti, appare spesso dimenticare che nell’assetto della democrazia occidentale, salvo limitate varianti locali destinate a rifluire, la difesa dell’articolazione naturale della società dall’invadenza di Stato, fisco, iper-normazione e ideologizzazione, sostenuta dalle formazioni di centrodestra, include in primo luogo la famiglia naturale, la libertà religiosa e la rilevanza sociale-politica delle Chiese, l’identità culturale nazionale. Una destra che rinneghi questi temi, che non tenga conto degli allarmi diffusi nel corpo profondo della società italiana, che sostenga in nome di una malintesa "modernizzazione" leggi e istituti che ne disarticolano il tessuto tradizionale, può facilmente smarrire la propria identità costitutiva per ridursi ad una sbiadita caricatura delle sinistre politically correct, e perdere gran parte dei propri consensi più consolidati.
L’epoca politica inaugurata con l’affermazione di Renzi alla guida del Pd e con il passaggio della destra berlusconiana ad un’opposizione radicaleggiante potrebbe, così, produrre due fallimenti paralleli: da una parte, l’ennesimo caso di una sinistra settaria e minoritaria per vocazione; dal’altro quella di una destra snaturata, priva di contatto con il baricentro sociale e culturale del "paese reale". Producendo un ulteriore vuoto nella rappresentanza politica italiana, ed un’ulteriore indebolimento della nostra democrazia.