Se scuola e università rischiano di diventare un grande CEPU

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Se scuola e università rischiano di diventare un grande CEPU

30 Maggio 2020

Mentre l’epidemia di Covid-19 si affievolisce giorno dopo giorno, le attività economiche e sociali nel paese sono riprese – benché spesso sottoposte a cervellotiche misure di sicurezza che continuano a renderle un percorso ad ostacoli – per tornare al più presto (si spera) ai loro livelli normali.

Ma ci sono due settori molto importanti della vita nazionale per cui la normalizzazione pare non essere nemmeno lontanamente in vista, e il limbo della fase 2 minaccia di durare per un tempo indeterminato: la scuola e l’università.

Infatti i due ministeri ad esse preposti, nonostante non sia dato sapere come la situazione sanitaria nazionale si configurerà nei prossimi mesi, hanno già diramato direttive per l’organizzazione del prossimo anno scolastico e del primo semestre del prossimo anno accademico, come se fosse già scontato che nel prossimo autunno l’emergenza Coronavirus sarà ancora in corso.

E così, il ministro dell’Università Manfredi con la sua nota del 4 maggio ha già annunciato che la “fase 3” dell’attività degli atenei, da settembre 2020 fino a gennaio 2021, dovrà essere caratterizzata da un’offerta formativa “blended” – cioè somministrata in presenza ma anche, contemporaneamente, in formato digitale a distanza, prevedendo per le attività individuali (biblioteche, sale studio, uffici) al massimo “piccoli gruppi”, “decomprimendo” (che vocabolo genialmente “ministeriale”!) le “attività collettive” e “consentendole solo in presenza di adeguate misure di sicurezza”. Cioè, in parole povere, autorizzando le lezioni “fisiche”, “in carne ed ossa”, soltanto laddove gli spazi e le attrezzature rendano possibile la prosecuzione del “distanziamento sociale”.

Insomma, siamo ancora a maggio ma il ministro (subito riecheggiato dalla Conferenza dei rettori) è già sicuro che a settembre, ottobre, novembre, dicembre, gennaio in Italia la situazione della salute pubblica richiederà misure di sicurezza come percorsi obbligati, diradamento degli studenti nelle aule, rimedi all’impossibilità degli studenti fuori sede di raggiungere il luogo dell’ateneo di appartenenza. Misure costose, che esigerebbero in molti casi una radicale riprogettazione degli spazi, e che molti piccoli atenei non saranno in grado di assicurare. Per cui, se queste direttive non verranno ritirate nei prossimi mesi, quegli atenei saranno costretti di fatto ad erogare la loro didattica soltanto a distanza. Per non parlare poi delle biblioteche, degli archivi, dei seminari, degli eventi culturali come convegni e conferenze, che spesso rappresentano un elemento essenziale della personalità di queste università legate al territorio, e che dovranno essere in

gran parte eliminati, o drasticamente ridimensionati. Con un’altrettanto drastica compressione del lavoro di ricerca, fondamentale componente nella professionalità dei docenti e nella crescita dei giovani ricercatori ancora in formazione.

Come altri membri del governo al quale appartiene, quotidianamente appiattiti sulle valutazioni piuttosto unilaterali di task force e comitati tecnico-scientifici, il ministro Manfredi sembra entrato nell’ordine di idee secondo cui questa epidemia non sarebbe un fatto episodico, ma l’inizio di un’emergenza sociale che diventerà, non si sa in base a quali modelli predittivi, cronica: il famoso “new normal”, in cui tanti cercano di convincerci che dovremo abituarci a vivere e ad operare. Qualcuno, forse, lo avrà reso edotto del fatto che questo virus, a differenza di tanti altri, rimarrà in giro per il paese, sempre pronto ad attaccare con virulenza pari a a quella dei mesi scorsi, o che ci sarà sicuramente in autunno la famosa, tanto attesa ed evocata, “seconda ondata” (ma con quante probabilità si può affermare che tornerà uguale, e tornerà in quel periodo? E, ammesso che si verifichi una casistica del genere, non abbiamo maturato abbastanza esperienza per la prevenzione e il monitoraggio in questi mesi, senza dover condizionare pesantemente l’ordinaria esecuzione di qualsiasi attività?). Comunque, in base a queste predizioni o aspettative, egli ora in quattro e quattr’otto ridefinisce tutto il modo di essere delle comunità universitarie, imponendo loro di rinunciar alla loro natura di luogo fisico di incontro, dialogo, condivisione. O di ridurre in misura significativa quella natura, per divenire un nodo asettico di comunicazione di massa, sempre più indistinguible dai media digitali di cui già i giovani fanno un uso massiccio e poco discriminato, e appiattirsi, sostanzialmente, sul modello delle università telematiche, sulla metodologia e deontologia di molte tra le quali tanti giustificati dubbi sono sorti negli ultimi anni.

Se poi guardiamo alle prospettive della scuola, alla luce delle ultime decisioni del ministro Azzolina e dell’immancabile comitato tecnico-scientifico su misura, il quadro si completa e diviene ancora più grigio. Nelle linee-guida rese note in questi giorni dal suddetto comitato, il ritorno a scuola “in sicurezza” per bambini e ragazzi nel prossimo anno scolastico diventa uno scenario distopico orwelliano: mascherine obbligatorie dai sei anni di età in su, percorsi obbligati, scaglionamenti in entrata e in uscita, distanziamento personale di almeno un metro diventato norma ormai abituale di comportamento, e “obiettivo di garantire il più possibile l’attività didattica in presenza”: il che significa, tra le righe, che all’opposto almeno in molte realtà e per una parte degli studenti (dalla scuola media in su?)

questa attività in presenza non sarebbe possibile, e dovrebbero continuare, in tutto o in parte, le lezioni on line di cui i genitori in questi due mesi sono stati tristemente testimoni, guardando i loro figli tutti i giorni spiaggiati nelle camerette davanti allo schermo.

A questo scenario già inquietante si aggiungono, nel decreto-scuola appena approvato dal Senato, altri particolari ancor più sconfortanti. Come la nuova, ennesima abolizione dei voti nelle scuole primarie, per tornare alla vecchia, ideologica pratica del giudizio: in realtà anticamera della abolizione di ogni giudizio critico sul profitto e della promozione obbligatoria giustificata da fini di promozione sociale, nel solco della peggiore retorica pedagogistica “progressista” degli ultimi 40 anni. O la promessa delle ennesime sanatorie di supplenti: che, a dispetto del succedersi delle stagioni politiche e delle maggioranze, rimane una tra le poche costanti della politica scolastica italiana, e non pare certo destinata nemmeno in questo caso ad innalzare, visto i criteri adottati, il livello scientifico della docenza, che pare non importare sostanzialmente a nessuno.

Insomma, l’impressione generale è che l’emergenza Coronavirus abbia favorito, nell’approccio del governo Conte all’organizzazione del sistema formativo, una tendenza allo snaturamento della funzione di palestra dialettica di quest’ultimo, di luogo di crescita e di confronto, di percorso di maturazione radicato nella specificità di una comunità e di un territorio.

L’ossessione della minaccia a tempo indeterminato come nuova categoria distintiva della nostra società porta a trasfigurare scuole e università da luoghi concreti in astrazioni, in una sorta di “portali” pensati per garantire un flusso di comunicazioni e soprattutto una disciplina sociale, per “tenere buoni” i giovani e minimizzare i rischi della loro vita quotidiana.

I luoghi fisici di queste lezioni “blended” e “in sicurezza” , “sterilizzati” e “scaglionati”, ce li immaginiamo sempre più tutti uguali, sovrapponibili, privi di personalità propria: quasi smaterializzati, anche quando vengono “consentite” (vocabolo eminentemente rappresentativo del “contismo”) attività “in presenza” (una presenza sempre più ipotetica, evanescente, sacrificabile …. ).

Un sistema formativo “teleguidato” dal governo e dai suoi “esperti” – pronti peraltro a suonare l’allarme e a rimandare tutti nei rifugi del “lockdown” alla prima avvisaglia di nuove minacce virali – in cui autonomia, territorio, società diventano parole vuote. Un sistema ridotto ad un unico grande “Cepu” giustificato, ovviamente, dalla necessità di proteggere la “nuda vita”. Una grande “scuola Radio Elettra” per corrispondenza.

Contro questo disegno, conscio o inconscio che esso sia, è necessario un generale risveglio di tutte le forze culturali presenti nella scuola, nell’università, nella ricerca italiana. E’ necessario chiedere subito, da ora, con decisione che le istituzioni formative tornino alla loro vita ordinaria, al loro confronto diretto e duro con la realtà, alla condivisione vera, anche al rischio, fisico, morale, intellettuale. Perché accollarsi, e accollare alle famiglie e agli studenti, una quota di rischio fa parte della vita, ed è un aspetto qualificante dell’apprendimento.