
Se si guardasse alla qualità del lavoro il 1 maggio sarebbe davvero una festa

03 Maggio 2009
Quanto tempo è passato tra la fine dell’Ottocento e oggi? Quanto si sono modificate le ideologie, i partiti, le forze del mondo politico e la realtà del mondo produttivo, dagli anni in cui il socialista inglese William Morris rifletteva sulla qualità del lavoro? A leggere questi saggi, scritti negli anni fra il 1888 e il 1894 e ora tradotti in italiano, viene da rispondere: secoli. Ma non perché la questione posta dal polimorfo personaggio – al contempo agitatore politico, scrittore, artista – abbia perso di interesse. Tutt’altro.
Ma intanto, qual è la questione? Morris si chiede come sia possibile lavorare trovando nel proprio lavoro soddisfazione, piacere, appagamento del gusto estetico, oltre che i mezzi per vivere in modo decente e per riposarsi adeguatamente. Non è affare da poco, soprattutto per coloro che svolgono mansioni ripetitive, ma non solo per essi. C’è un grande evento che si colloca a monte delle riflessioni di Morris: la rivoluzione industriale. Il sistema delle macchine si è alleato con la ricerca del profitto, e, insieme a un aumento della produzione neppure immaginabile prima, ha generato sfruttamento di uomini e risorse, condizioni di vita penose, noia, imbruttimento dell’ambiente, degradazione della civiltà. Qui non si tratta solo dei mali del capitalismo, ma dei mali specifici che un capitalismo industriale è capace di produrre: mali tanto materiali quanto morali, intellettuali, estetici. Si potrebbe dire che l’imputato per Morris è più l’industrialismo che il capitalismo, o comunque l’uno non meno dell’altro. Marx, nella sua polemica con quelli che definì “anticapitalisti romantici”, sottolineò proprio questo punto, distinguendo accuratamente la descrizione degli effetti negativi del nuovo sistema produttivo che si era affermato dall’attribuzione di quegli effetti a un soggetto diverso dal capitalismo. La descrizione era accettabile, e poteva coincidere con quella fatta dallo stesso Marx; l’indicazione dell’imputato non lo era. Era il sistema socio-economico a dovere, secondo Marx, essere posto sotto accusa (dopo essere stato analizzato a fondo), non un aspetto di esso – le macchine – importante ma non decisivo. Così, tutti coloro che, all’epoca, criticano il capitalismo con la sua devastazione della natura, la costruzione di città sporche e sgradevoli, l’impoverimento di una parte consistente della popolazione (il più celebre è probabilmente Dickens), vengono da lui definiti anticapitalisti sì, ma romantici: scambiano gli effetti (la bruttezza, la mancanza di gioia nel lavoro) per la causa (la ricerca del profitto), immaginano il futuro socialista con gli occhi volti al passato medievale. Sono “romantici” non solo perché sognatori o sentimentali (come Engels definiva Morris): il personaggio maggiore a cui si fa riferimento è infatti Thomas Carlyle. E Carlyle incarna nell’Inghilterra dell’epoca il romanticismo, che egli introduce in Inghilterra per quel che riguarda i suoi esponenti tedeschi.
Una parte notevole del socialismo inglese, però, compie un’operazione contraria al giudizio di Marx, e include fra i suoi temi la mancanza di soddisfazione nel lavoro e la mancanza di bellezza nel mondo. La caratteristica di Morris è proprio quella di unire strettamente le due parti della critica al capitalismo che Marx separa: la critica allo sfruttamento di una fetta enorme della società da parte di pochi e la critica all’imbruttimento del mondo. La causa che produce un mondo “sciatto” è la ricerca del profitto: “Perché tutte le nostre affollate città e le nostre sconcertanti fabbriche sono semplicemente il risultato del sistema basato sul profitto. La manifattura capitalistica, la proprietà terriera capitalistica, lo scambio capitalistico costringono gli uomini a concentrarsi nelle grandi città per manipolarli negli interessi del capitale; la stessa tirannia restringe a tal punto gli spazi della fabbrica che (ad esempio) l’interno di un capannone per la tessitura è uno spettacolo quasi altrettanto ridicolo che orribile.”
Nel primo dei saggi qui raccolti, Morris esprime le sue idee sotto forma di apologo. Afferma che il lavoro è ripartito in modo molto disuguale all’interno della società: vi sono persone che non lavorano, e che non fingono neppure di lavorare; poi vi sono quelle che lavorano e godono i frutti del loro lavoro; infine vi sono quelle che non fanno altro che lavorare, trattate come “bestie da tiro”. La prima è la classe dei ricchi e degli aristocratici, che non lavorano affatto e consumano molto; la seconda è la classe dei borghesi, che producono poco, non amano il lavoro malgrado quanto sostengono, vivono di scambi, lottano disperatamente per distinguersi, e consumano enormemente; la terza è la classe lavoratrice, che sorregge se stessa e tutte le altre, ma è degradata materialmente e intellettualmente. Per qualunque classe, e soprattutto per la terza, che dal lavoro non trae alcuna soddisfazione materiale o di altro genere, vale l’idea che è un lavoro degno di essere svolto solo quello che ha in sé la speranza del riposo, dell’utilizzazione di ciò che viene prodotto, dell’esplicazione della creatività. “Ogni altro lavoro – afferma Morris – è privo di valore; è un lavoro da schiavi – nient’altro che faticare per vivere, e vivere per faticare.” Questa situazione può essere modificata: tutti debbono lavorare secondo ciò che sanno fare; i frutti del lavoro debbono essere ripartiti in modo egualitario. Il lavoro a questo punto tornerà a essere qualcosa di piacevole, sul modello del lavoro artigianale.
Il passaggio fondamentale in questa visione del mondo è l’aprirsi della modernità: in essa Morris vede declino, non progresso. Invece che leggere nella modernità un mondo più libero e produttivo, che rende possibile il passaggio al socialismo (come è nella versione classica del marxismo), Morris scopre che nasce in quel momento “l’epoca dello spirito commerciale”: si passa dall’ordinamento cetuale della società al contratto, nascono nuove classi e le nazioni politiche, sorge una nuova religione più adatta al nuovo stile di vita (il protestantesimo). Di quel passaggio riconosce un solo aspetto positivo, ma lo riconosce a denti stretti: si giunge a un esteso dominio della natura. Già in quell’epoca l’idea di bellezza scompare dall’umanità: gli uomini aspirano al guadagno, al dominio, alla sicurezza, non alla bellezza. Il loro stile è solo imitazione. La modernità è commercio, e il commercio a sua volta “avidità di denaro”. Come ricorda Edward P. Thompson nel saggio (del 1959) che precede la raccolta di scritti, Morris confessò una volta “che il ‘motivo specifico e primario’ che lo aveva condotto a diventare un rivoluzionario socialista era stato ‘l’odio vreso la civiltà moderna’.”
E’ chiaro per Morris come la bellezza in un’epoca dominata dal profitto sia impossibile, così come un lavoro soddisfacente. Il contenuto del mondo artigianale, con il suo lavoro creativo e i suoi prodotti belli, è la finalità da raggiungere nel socialismo. Oggi abbiamo fatto esperienza del modo in cui nei socialismi realizzati la mancanza di libertà si sia accompagnata a un produttivismo identico a quello del sistema di cui quei socialismi volevano essere la negazione. Se mettiamo da parte la fede in un ideale ultimo che Morris chiama socialismo, dobbiamo anche mettere da parte le questioni che egli pone? I principi che afferma sono: il decentramento amministrativo, la soddisfazione nel lavoro, una equa distribuzione nella società fra lavoro e reddito derivante dal lavoro, la bellezza dell’ambiente in cui vivono uomini e donne, l’esempio estetico del passato testimoniato dagli edifici storici (che per questo a suo parere vanno tutelati), la saggia utilizzazione delle risorse disponibili. I suoi nemici: il parassitismo, lo spreco, la disuguaglianza, la dissipazione del compiuto dominio della natura al quale l’umanità è pervenuta, la bruttezza. Odi e amori sono vissuti con una sorta di fondamentalismo che contrappone vero a falso: la società “plutocratica” incarna il falso, mentre la vera società è quella in cui la comunità organica di tutti gli uomini godrà allo stesso modo dei prodotti di un lavoro felice.
Così, il socialismo è società vera contrapposta alla falsa società dello spreco e del profitto, è comunità contro l’atomismo sociale, bene comune contro l’egoismo, gusto estetico contro la sciatteria. Ciò che passa per ricchezza non è che spreco, e la ricchezza autentica deve essere contrapposta a quella ricchezza fasulla: “Ricchezza è quello che la natura ci dà e quello che un uomo assennato può trarre dai suoi doni per farne un uso ragionevole. la luce del sole, l’aria fresca, l’incontaminato volto della Terra, e quanto abbisogni di cibo, vestiario e alloggio decenti; l’accumulo di conoscenze di ogni tipo, e il potere di diffonderle; i mezzi con cui gli uomini possano liberamente comunicare fra loro; le opere d’arte, la bellezza che l’uomo crea quando è uomo nel senso più alto, animato da aspirazioni e premura per gli altri – tutte cose al servizio del piacere della gente, libere, degne di un uomo e incorrotte. Questa è la ricchezza.”
E’ fin troppo facile parlare di utopia. Va ricordato però che nel mondo anglosassone questa vena socialista (antifabiana) rappresenta non la stravaganza di un singolo, ma una delle linee portanti della pratica e del pensiero politico, dalla influenza forte e duratura.
Insieme a molti temi che la caratterizzavano di cui non sentiamo particolarmente la mancanza, la sinistra ha abbandonato anche la riflessione sulla qualità del lavoro. E forse è un peccato.
Wiliam Morris, Lavoro utile fatica inutile, Roma, Donzelli, 2009, pp. XXIII-103, euro 12,50