Sen e il rovesciamento del paradigma identitario
04 Novembre 2007
Quello dell’identità
è diventato in questi anni un tema molto attuale: uno storico come Ernesto
Galli Della Loggia, attento alla realtà in cui viviamo e molto presente per le
sue posizioni che non mancano di far discutere, ha fatto della Identità degli italiani il perno della
sua rilettura della storia d’Italia che ha dato luogo alla omonima collana con
la casa editrice il Mulino; innumerevoli sono i richiami all’identità
individuale e collettiva, di genere e di classe, locale e nazionale, che
percorrono media e opere di ricerca, discorsi appartenenti a campi disciplinari
diversi. Insieme a “memoria”, credo sia il termine più inflazionato di questi
ultimi anni. E se all’inizio abbiamo salutato con favore l’attenzione dedicata
a questi settori trascurati (anche se mai assenti) nella ricerca degli anni
precedenti, la frenesia con cui la scena pubblica se ne è appropriata ci ha ben
presto stancati. Forse il problema è collegato al modo in cui si è proceduto e
non tanto al merito della questione: fatto sta che, niccianamente, diremmo
volentieri addio per qualche decennio al tema del passato, della storia, della
memoria e dell’identità: termini vaghi nella maggior parte dei casi, tanto
vaghi da risultare quasi intercambiabili fra loro.
Il concetto di
identità è ovviamente al centro delle riflessioni legate al multiculturalismo.
Vediamo subito in che senso. Nel multiculturalismo (cioè nella convivenza di
gruppi diversi fra loro per lingua, religione, etnia, razza, usi e costumi) e
nei tentativi di rendere possibile tale convivenza senza – o con il minor
numero possibile – di conflitti, è presente un richiamo esplicito all’identità:
in questo caso a identità che non sono individuali ma che sono, appunto, linguistiche, religiose,
etniche, razziali, legate a usi e costumi, identità che sono tutte
rigorosamente collettive. Qualcuno definisce queste identità come “culture” o
“civiltà”: entità compatte formatesi in una lunga storia e alle quali popoli,
nazioni o gruppi numericamente rilevanti si riferiscono per riceverne una
identità – appunto -, cioè una definizione e una sostanza comune da
condividere. A ben vedere, sembra che l’attribuzione della qualifica di
“culture” o “civiltà” crei più problemi di quanti ne risolva: si veda il
conflitto di civiltà evocato a proposito dell’incontro/scontro fra Islam e
mondo cristiano.
Il termine
identità (e il relativo modo di pensare) si è talmente imposto da rendere
attualmente molto difficile una definizione di che cosa esso sia esattamente:
infatti è più evocativo che descrittivo, più vago che definito, più
romanticamente legato a figure della storia dello spirito di ottocentesca
memoria che non a una riflessione svolta su soggetti più modesti. Forse di
chiaro al suo interno c’è solo il richiamo a un quid – una natura, un’essenza – assolutamente unitario, persistente
e anzi immodificabile nel corso del tempo, quid
che fornisce a chi ne fa parte le sue caratteristiche non transitorie. In
questi ultimi (ma non pochi) anni siamo stati sommersi da richiami imprecisi
(imprecisi perché ritenuti autoevidenti) all’identità, con il suo inevitabile
annesso: la memoria. Ma c’è di più: a questi termini si è assegnato in generale
un significato positivo; l’identità ci indica chi siamo, mentre la memoria
custodisce il passato, la storia, il formarsi di quella stessa identità che
riteniamo ci appartenga. L’identità, oltre a essere vaga, possiede altre due
caratteristiche di rilievo. La prima è che si declina al singolare: essa fa
riferimento a una fisionomia monolitica e priva di differenze al suo interno.
La seconda caratteristica è che parlare di identità è politicamente molto
corretto. Mentre, infatti, è sospetto far riferimento alla patria o alla
nazione come strumenti di riconoscimento e autoriconoscimento culturale, il
ricorso all’identità è neutro e dunque apparentemente utilizzabile senza
problemi da chiunque.
Il volume Identità e violenza (Laterza, Roma-Bari,
2006) di Amartya Sen, premio Nobel per l’economia anglo-indiano, rovescia
radicalmente la prospettiva, e collega l’identità con la violenza. Abituati a
leggere in identità e memoria valori fondanti del nostro essere, restiamo sulle
prime sconcertati. Ma l’analisi di Sen si rivela, come sempre, acuta e
convincente. L’autore ribalta in modo assai ben argomentato le caratteristiche
costitutive dell’identità che abbiamo menzionato sopra. Una identità monolitica
e indifferenziata (la prima delle caratteristiche)? Ma tutti i soggetti a cui è
attribuibile una identità – replica Sen – sono multipli e differenziati al loro
interno: gli individui (io sono contemporaneamente una docente universitaria,
una madre, una elettrice, una persona che ama fare trekking, una italiana, una
bianca, e così via) così come i gruppi (allo stesso tempo, e di volta in volta,
nazionali, linguistici, razziali, etnici, religiosi, e così via). Perché,
allora, definire la civiltà solo in termini religiosi (come nel rapporto
Islam/cristianesimo), come si fa spesso, oppure per grandi astrazioni (come
Occidente/Oriente), quando quelle civiltà sono molto altro e non sono affatto
monocordi al loro interno? Anche la seconda caratteristica del concetto di
identità viene criticata da Sen: è proprio nel concetto di identità e nell’uso
che ne viene fatto che si nasconde un enorme fraintemento foriero di
incomprensioni ulteriori.
Un concetto –
quello di identità – che Sen raccomanda caldamente di non usare, dunque, per
raggiungere tre scopi con una mossa sola: una più chiara definizione dei
problemi connessi al multiculturalismo, una migliore comprensione fra culture,
la possibilità di agire all’interno delle diverse culture esistenti senza
abbandonarsi al fatalismo di un destino identitario che dovremmo limitarci a
custodire. Sarebbe bello
poterlo fare. Non siamo certi che sia possibile.