Sentenza Berlusconi, ecco come andò

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Sentenza Berlusconi, ecco come andò

Sentenza Berlusconi, ecco come andò

30 Giugno 2020

Vi proponiamo alcuni brani dal libro-retroscena di Gaetano Quagliariello “Sereno è” (Rubbettino, 2017), che racconta i giorni della condanna di Silvio Berlusconi offrendo ricostruzioni, rivelazioni e interrogativi che trovano puntuale conferma nelle notizie di queste ore. Una lettura impressionante, alla luce di ciò che sta emergendo e che era già chiaro a chi volesse leggere gli eventi senza la lente del pregiudizio.

Il 9 luglio del 2013, all’apertura delle edicole, ha inizio l’estate più lunga del centrodestra italiano. Il «Corriere della Sera» pubblica in prima pagina una clamorosa novità sul processo Mediaset, che a Milano ha già consumato i primi due gradi di giudizio ed è al vaglio della Cassazione, il cui pronunciamento è atteso per l’autunno. In primo grado e in appello Silvio Berlusconi era stato condannato a quattro anni di reclusione e cinque di interdizione dai pubblici uffici con l’accusa di frode scale. Attraverso una serie di complicati calcoli, il quotidiano milanese dà conto di una presunta imminente prescrizione per una delle due annualità scali alle quali il processo si riferisce. Secondo il «Corsera», in caso di una conferma della condanna, la parziale prescrizione comporterebbe un nuovo passaggio in Corte d’Appello per rideterminare l’entità della pena, allontanando di almeno un anno la sua esecutività e dunque la perdita dei diritti politici. A meno che…

A meno che la Suprema Corte non corra ai ripari, instradando il fascicolo su una corsia preferenziale. Al pari del deposito delle motivazioni contestuale alla sentenza di condanna di primo grado, al pari dello sprint in appello, sarebbe un altro dei primati ai quali la giustizia ci ha da tempo abituato quando c’è di mezzo il Cavaliere. Nel caso specifico, tuttavia, una trattazione prioritaria comporterebbe una complicazione ulteriore: vista l’incombenza della sospensione estiva delle attività giudiziarie ordinarie, il processo non verrebbe celebrato davanti alla sezione della Cassazione competente per i reati tributari – la terza sezione penale – ma davanti alla sezione feriale composta da magistrati provenienti da diverse aree di specializzazione.

Per come la mette il «Corriere della Sera», comunque, l’ipotesi di un’accelerazione è residuale. Tutto lascia intendere che il fischio finale della partita sia destinato a un sostanzioso rinvio.

Pur fra mille dubbi interpretativi, l’inattesa ricostruzione del quotidiano viene presa dai più come una buona notizia. Una boccata d’ossigeno per Berlusconi e per il centrodestra in procinto di affrontare un caldo autunno giudiziario. In quel momento il processo Mediaset non è infatti la sola arma puntata contro il leader del PdL. Ma a quell’appuntamento si arriva dopo una nuova escalation nel burrascoso rapporto fra politica e giustizia, e ancora brucia la sentenza con cui la Corte Costituzionale ha sorprendentemente respinto il conflitto di attribuzioni sollevato a suo tempo dalla Presidenza del Consiglio contro il tribunale di Milano, che non aveva riconosciuto il legittimo impedimento a partecipare a un’udienza all’allora premier Berlusconi impegnato a presiedere una seduta del Consiglio dei ministri.

Insomma, vi è la sensazione che il verdetto della Cassazione sia destinato a rappresentare in un senso o in un altro il culmine di un conflitto durato vent’anni.

In quel fatidico 9 luglio, tuttavia, i colpi di scena non sono ancora finiti. Alle ore 14 in punto, su una politica affaccendata nelle ordinarie occupazioni irrompe una notizia shock: il repentino anticipo dell’udienza in Cassazione. L’appuntamento per l’ultimo round del processo Mediaset viene fissato di lì a venti giorni o poco più. Precisamente il 30 luglio, ben prima dell’autunno che tutti ci aspettavamo. Quella che sembrava una ipotesi del terzo tipo si materializza improvvisamente come una realtà. Una realtà con le sembianze di un incubo: tanto per l’oggettiva compressione dei tempi di difesa (che porterà il solitamente misurato avvocato Franco Coppi, “arruolato” nella squadra difensiva del presidente Berlusconi, a dirsi “esterrefatto”), quanto per il sinistro presagio che la straordinaria sincronia tra lo scoop del «Corsera» e il blitz della Suprema Corte porta con sé.

La brusca accelerazione ci lascia tutti di stucco. È evidente che la novità non nasconde niente di buono.

Nello stesso istante in cui esce la notizia, d’impulso alzo il telefono e chiamo il Quirinale. Cosa stia accadendo non è ancora chiaro ma intuisco, quasi istintivamente, che si sta minando il difficile armistizio che dopo vent’anni di guerra civile strisciante avrebbe potuto condurre a una nuova stagione di rispetto e legittimazione reciproca tra avversari. Ancora una volta, più che mai, l’attacco al Cavaliere investe anche la sorte del Paese.

La segreteria del Colle mi informa che Napolitano sta riposando: gli uffici avrebbero preso nota della mia telefonata e appena possibile sarei stato richiamato. Vista l’ora la circostanza è del tutto plausibile, ma il momento è grave e dimentico le buone maniere. Investo con la mia irruenza la gentile signora Viviane Schmit, e di lì a qualche minuto la fidata collaboratrice del Capo dello Stato acconsente a interrompere il breve riposo pomeridiano dell’anziano Presidente.

Napolitano non si scompone per il mio blitz telefonico, e prima che io riesca a proferire parola va dritto all’argomento del giorno. «Mi sembra che le cose si stiano mettendo bene!», esclama il Capo dello Stato lasciandomi a dir poco interdetto. Quando riprende a parlare, capisco che il “bene” è la possibile parziale prescrizione del processo Mediaset e il conseguente allungamento dei tempi, e la sola novità a cui si riferisce è l’articolo del «Corriere della Sera». Resto basito, e la domanda sorge spontanea: «Ma come Presidente, non sa cosa è successo poco fa?».

Non lo sapeva. Napolitano apprende da me in quel momento dell’anticipazione dell’udienza in Cassazione. Quando la notizia è diventata di dominio pubblico si era già ritirato a riposare, e prima che la mia preoccupata furia lo investisse nessuno aveva avuto la possibilità materiale di avvisarlo. Ed evidentemente nessuno, va da sé, lo aveva avvertito di quel che stava per accadere prima che la decisione della Suprema Corte fosse formalizzata.

Con il trascorrere delle ore la vicenda assume contorni via via più nitidi e inquietanti. Ad accelerare il timing della Cassazione sarebbero state alcune segnalazioni giunte al Palazzaccio dagli uffici giudiziari di Milano insieme ai faldoni del processo Mediaset. Nel trasmettere gli atti agli ermellini, i magistrati milanesi avrebbero messo in guardia dal rischio di prescrizione di una parte delle accuse in un arco temporale stimato tra il primo agosto e la metà di settembre. Di qui la scelta del 30 luglio per la celebrazione del processo, onde evitare di correre anche il minimo rischio.

Di fronte al clamore suscitato, scatta la corsa a derubricare la mossa milanese come un atto di “diligente” ordinaria amministrazione. Ma tale versione minimalista non convince del tutto, né negli ambienti politici, dove si sprecano le amare ironie sull’improvvisa celerità della giustizia in un Paese che detiene la maglia nera per la durata dei procedimenti, né al Consiglio Superiore della Magistratura, dove diversi membri laici sono colti da più di qualche perplessità. Del resto, la sensazione che il caso Mediaset fosse oggetto di notevole zelo avrebbe ricevuto qualche settimana più tardi un’autorevole e inaspettata conferma. In una telefonata con un giornalista del «Mattino» (ce ne occuperemo diffusamente più avanti), il presidente del collegio di Cassazione autore della sentenza definitiva a carico di Silvio Berlusconi, riferendosi alla tempistica record del passaggio in appello, avrebbe così commentato: «Hanno fatto le cose a tambur battente, proprio perché evidentemente c’era la prescrizione…». Chissà se lo stesso può dirsi per i tanti cittadini che aspettano giustizia dai tribunali italiani.

Su mandato del segretario del partito, Angelino Alfano, mi informo su quale sia l’opinione dei laici del Csm dell’area del centrodestra e quali le possibili iniziative istituzionali da intraprendere. Apprendo così che i consiglieri stanno valutando i pro e i contro dell’eventuale richiesta di apertura di una pratica per l’accertamento di fatti oggettivamente controversi. Gli interrogativi ai quali dare risposta sono numerosi, e certamente un’istruttoria nella sede preposta potrebbe essere utile a fare chiarezza. Di converso, tuttavia, una mossa del genere rischierebbe di avvelenare i venti giorni che mancano all’udienza con un’escalation di polemiche dall’esito imprevedibile, senza realistiche speranze di risultati concreti, e metterebbe in serio imbarazzo il primo presidente della Corte di Cassazione, membro di diritto del CSM. Con conseguenze difficili da valutare.

Alla fine, nel computo dei costi e dei benefici sono evidentemente i primi a prevalere, visto che nei giorni a seguire nessuno assumerà iniziative. La scelta di imboccare la strada della prudenza non cancella tuttavia le stranezze di cui la vicenda è costellata. Non solo infatti i calcoli sul rischio prescrizione effettuati a Milano non collimano con il minuzioso computo della difesa, secondo il quale, come fa sapere l’avvocato Ghedini, nulla di quel procedimento avrebbe rischiato di andare in fumo prima della fine di settembre (la stessa Corte d’Appello di Milano in un successivo riconteggio avrebbe spostato al 13 di quel mese l’asticella). Vi è anche da rilevare che, secondo le notizie che via via trapelano, fra l’arrivo dei documenti in Cassazione (primo luglio) e la fissazione dell’udienza (9 luglio) sarebbero passati almeno nove giorni.

Com’è possibile che di fronte a un allarme prescrizione stimato di lì a trenta giorni (agli inizi di agosto) la Suprema Corte ne abbia lasciati trascorrere ben nove prima di dare appuntamento a Berlusconi di fronte ai giudici? Una ipotesi è che quell’intermezzo sia servito al Palazzaccio per smistare i faldoni agli uffici competenti e a questi ultimi per verificare i conteggi effettuati a Milano. Ma è una risposta che appare burocratica e sembra non considerare l’eccezionalità del caso. Una seconda possibilità è che la Cassazione, ricevuti gli incartamenti, abbia ritenuto in un primo momento di non sentirsi vincolata alle controverse segnalazioni ricevute e di fissare la celebrazione del processo Mediaset in base alle proprie autonome valutazioni. È a quel punto che, in assenza di una immediata reattività della Suprema Corte, qualcuno potrebbe aver passato al «Corriere» la notizia sul presunto rischio prescrizione – oggettivamente uno scoop che nessun giornale avrebbe rifiutato –, inducendo gli ermellini a premere sull’acceleratore.

Nessuna conferma ufficiale potrà mai ovviamente convalidare questa ricostruzione. Sta di fatto che tra la pubblicazione della notizia e la fissazione dell’udienza passano solo poche ore, ed è quel giorno che il processo Mediaset, invece di prendere la strada della terza sezione penale della Corte di Cassazione, finisce davanti alla sezione feriale presieduta dal dottor Antonio Esposito.

(…)

Il 10 luglio, il giorno dopo l’anticipazione dell’udienza Mediaset, è in programma una riunione del plenum del CSM di cui fa parte Giorgio Santacroce, primo presidente della Corte di Cassazione. Santacroce è persona mite, uomo perbene, magistrato moderato. Avevo avuto modo di conoscerlo a una cena organizzata da Donato Bruno (entrambi oggi sono venuti a mancare). È arrivato al vertice della magistratura ordinaria ottenendo a Palazzo dei Marescialli i voti delle correnti togate catalogate come “di centro” e “di destra” e con l’appoggio dei laici del centrodestra, e molti maîtres à penser della sinistra gli hanno a lungo rinfacciato questo “peccato originale”. Insomma, sulla carta non è persona dalla quale dover temere atteggiamenti pregiudiziali o preconcetta ostilità.

Neanche una settimana prima mi era capitato di incontrarlo. Un’associazione culturale mi aveva invitato a partecipare a un cenacolo in una splendida terrazza romana. Poiché per la stessa data avevo già preso un impegno a L’Aquila, la mia segreteria aveva cortesemente declinato. Finché un allarmatissimo Peppino Valentino, avvocato e a lungo parlamentare prima di An e poi del PdL, segnalò a una mia collaboratrice che in quell’evento avrei dovuto conferire un premio proprio a Santacroce. Non ebbe bisogno di aggiungere altro. Non pensavo che potesse servire a qualcosa, ma in ogni caso un gesto di garbo e attenzione sarebbe stato in un simile frangente altamente consigliabile. Annullai all’istante la trasferta in Abruzzo e la sera del 5 luglio, puntuale come un orologio svizzero (circostanza per me più unica che rara!), mi presentai all’appuntamento organizzato in onore del primo presidente della Corte di Cassazione. Io ero ignaro della brusca accelerazione che di lì a quattro giorni gli eventi avrebbero subìto. Lui probabilmente già conosceva il carteggio provenuto dagli uffici giudiziari di Milano, ma è lecito supporre che non immaginasse che la questione avrebbe presto assunto una dimensione mediatica. Quando ci stringemmo la mano mi disse: «Ci aspettano tempi complicati». Non potevo immaginare quanto.

Torniamo al 10 luglio, nella sede del CSM. Chi quella mattina incontra Santacroce lo trova provato dalla bufera delle ventiquattr’ore precedenti. Fuori dall’ufficialità non si lascia andare a commenti, ma l’impressione che trasmette a chi lo osserva è quella della stanca rassegnazione di chi difficilmente avrebbe potuto determinare altrimenti il corso degli eventi. Soprattutto dopo l’articolo del «Corriere della Sera».

Su richiesta del consigliere laico del Pd Glauco Giostra, durante la seduta l’alto magistrato dà lettura di una nota che la Cassazione aveva diramato quella mattina stessa a difesa del proprio operato. La responsabilità di aver rilevato la possibile parziale prescrizione del reato contestato a Silvio Berlusconi viene attribuita all’ufficio del Palazzaccio preposto all’esame preliminare dei ricorsi; quella di aver fissato di conseguenza la data del processo viene assegnata invece al presidente della sezione feriale. Nessun cenno alle segnalazioni pervenute dagli uffici giudiziari di Milano, che nella discussione restano un ingombrante convitato di pietra.

Ma è a margine della riunione del plenum che Santacroce pronuncia una frase che non passa inosservata. Egli nega che la tempistica della trattazione del processo Mediaset denoti accanimento nei confronti di Berlusconi, afferma che se si fosse lasciato correre vi sarebbero stati attacchi di segno opposto, e alla fine la butta lì: «Nulla vieta» alla sezione feriale di ricalcolare la prescrizione – spiega – e, «nella sua discrezionalità e su istanza della difesa, disporre un rinvio della discussione».

Il tema del rinvio entra così apertamente in scena.

Appare sempre più chiaro che all’allarme milanese sul vicinissimo primo agosto come potenziale termine di prescrizione intermedia sono in pochi a credere. Ed è forte la sensazione che se su quel conteggio così controverso non fossero stati accesi i riflettori, le cose sarebbero forse potute andare diversamente.

Non si tratta di un problema soltanto temporale. Certo, qualche settimana in più per preparare motivi di ricorso aggiuntivi rispetto a quelli già presentati in sede di impugnazione sarebbe certamente utile alla difesa. Ma, come già osservato, la principale conseguenza dell’anticipazione dell’udienza è la sottrazione del processo Mediaset alla sezione naturalmente preposta. Variabile tutt’altro che irrilevante: non solo perché un caso così complesso richiede una elevata specializzazione, ma anche e soprattutto perché la terza sezione penale della Suprema Corte, competente per i reati tributari, aveva già prosciolto Silvio Berlusconi in un procedimento gemello denominato Mediatrade. E invece dei cinque giudici destinati a pronunciarsi sul processo Mediaset solo uno, il relatore Amedeo Franco, proviene da quell’ufficio.

Sulla carta la composizione del collegio chiamato a emettere il verdetto finale non sembra dare adito al sospetto di pregiudizi politici. Nessuna “toga rossa”, insomma. Tuttavia, il percorso attraverso il quale il processo è finito davanti alla sezione feriale non lascia presagire niente di buono.

Gli interrogativi riguardano soprattutto la gura del presidente, Antonio Esposito. Il personaggio è indecifrabile. E in molti si chiedono se possano avere qualche ripercussione sul suo atteggiamento, e se sì in quale direzione, alcune vicende che avevano visto suo figlio, all’epoca pubblico ministero a Milano, balzare agli onori della cronaca ed essere oggetto di accertamenti disciplinari. Tutti archiviati dalla procura generale della Cassazione, come si sarebbe saputo nei giorni precedenti la celebrazione del processo a carico di Silvio Berlusconi.

Più rassicurante appare il fatto che il relatore provenga dalla sezione del Palazzaccio che per competenza avrebbe dovuto trattare il caso. Amedeo Franco ha fama di persona schiva e scrupolosa. La sua relazione al processo verrà considerata anche dalla difesa completa e impeccabile. E non casualmente, di lì a qualche mese, il testo delle motivazioni della condanna del Cavaliere recherà l’irrituale firma di tutti e cinque i componenti del collegio. Anche i muri in Cassazione raccontano che il relatore, il solo applicato a una sezione specializzata nella materia, non fosse per nulla d’accordo con il verdetto stabilito a maggioranza. Secondo un’opinione diffusa, quelle cinque firme le avrebbe pretese lui per sancire una comune assunzione di responsabilità.

Nei venti giorni che passano tra la fissazione e la celebrazione dell’udienza vengono vagliate le varie possibilità. Gli avvocati Ghedini e Coppi ne parlano anche pubblicamente. Le opzioni in campo sono diverse. Far incardinare il processo e chiedere in sede di udienza un rinvio che congelerebbe automaticamente i termini di estinzione del reato contestato. Ufficializzare una dichiarazione di rinuncia irrevocabile alla prescrizione (ma, come spiegano i legali del Cavaliere, sulla rinunciabilità di una prescrizione non ancora maturata la giurisprudenza è controversa e tendenzialmente sfavorevole). Chiedere alla Cassazione di rifare i conti spostando più in là la trattazione del processo, qualora i nuovi calcoli diano ragione alla difesa. Sul punto, però, le solite prolifiche “fonti anonime” del Palazzaccio si premurano di far trapelare alla vigilia del “D-day” che la prescrizione di parte delle accuse sarebbe stata confermata come imminente anche da ulteriori riconteggi e che dunque, per ineluttabile conseguenza, nessun rinvio tecnico avrebbe strappato il processo dalla sezione feriale.

Scartati l’uno dopo l’altro i piani alternativi, in vista del 30 luglio ci si prepara alla pugna.

(…)

1-X-2: quando a mezzogiorno di giovedì primo agosto i cinque giudici della sezione feriale della Corte di Cassazione si chiudono alle spalle le porte della camera di consiglio per decidere la sorte di Silvio Berlusconi, hanno tre possibilità. Possono azzerare le sentenze di primo e secondo grado e mettere la parola fine al processo Mediaset, assolvendo il Cavaliere dall’accusa di frode fiscale sulla compravendita dei diritti TV. Possono rendere definitiva la condanna a quattro anni di reclusione (di cui tre coperti dall’indulto del 2006). Infine, possono annullare la sentenza di secondo grado rinviando la pratica alla Corte d’Appello di Milano per un nuovo giudizio.

Due giorni prima la procura generale della Suprema Corte aveva chiesto la conferma della condanna alla pena principale e il solo ricalcolo della pena accessoria all’interdizione dai pubblici uffici, che i giudici di Milano avevano fissato in cinque anni e invece per i reati tributari non può andare oltre i tre. I presagi sono dunque infausti: come era stato fin dall’inizio di quella vicenda giudiziaria, anche nella fase conclusiva l’impressione è quella di assistere alla corsa di un treno lanciato a tutta velocità.

Eppure in quel torrido pomeriggio d’agosto, mentre l’attesa scorre angosciosa e interminabile, di tanto in tanto si affaccia un barlume di speranza. Immancabili come una tassa, strani personaggi iniziano infatti ad aggirarsi accreditandosi come depositari di chissà quali indiscrezioni. In uno di questi fenomeni da baraccone mi imbatto anch’io all’uscita di Montecitorio. Con l’aria di chi la sa lunga, il nostro eroe mi dice che il collegio giudicante, ancora chiuso in camera di consiglio, si starebbe orientando per un annullamento della condanna con rinvio in Corte d’Appello.

Ovviamente, come da copione, i “bene informati” sono in realtà informati malissimo. Ma nei momenti più bui ci si aggrappa a tutto e col passare delle ore il pessimismo nero si tinge di una tenue illusione.

Quando alle 19:40 viene pronunciato il verdetto, il colpo è dunque ancora più duro. La Corte di Cassazione «annulla la sentenza impugnata nei confronti di Berlusconi Silvio…», legge il giudice Esposito. E il cuore di molte persone smette di battere. Poi la doccia fredda: «…limitatamente alla statuizione relativa alla condanna alla pena accessoria per l’interdizione temporanea dai pubblici uffici…».

Non c’è bisogno di ascoltare oltre. Se la condanna inflitta in appello è annullata solo per la pena accessoria, ne consegue che la pena principale è confermata. Definitiva. “Irrevocabile”, come recita il dispositivo della sentenza, salvo istanze straordinarie anche in sede europea che gli avvocati del Cavaliere annunciano subito di voler promuovere ma che hanno i loro tempi e quindi, per il momento, non possono essere considerate all’ordine del giorno.