Senza Fiducia la Manovra sarebbe diventata nulla

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Senza Fiducia la Manovra sarebbe diventata nulla

06 Luglio 2010

La decisione di mettere la fiducia sulla manovra di finanza pubblica era inevitabile dopo che in parlamento e nelle piazze, si sono fatti sentire tutti gli interessi particolari che essa ha colpito, ciascuno accampando le proprie inderogabili ragioni e chiedendo, di conseguenza, modifiche. Il cui totale avrebbe degradato il decreto allo stato di colabrodo.

Così ora le opposizioni, che hanno cavalcato in modo dissennato tutte le rivendicazioni, senza rendersi conto che la loro somma portava ad azzerare la manovra, si trovano spiazzate, perché da un lato, quello del governo, c’è il rigore, mentre sul lato opposto c’è la finanza allegra delle cicale, che cantano per una sola estate.

A dare un contributo a questo “serrate le fila” è anche venuto il dilettantismo degli emendamenti presentati nella Commissione bilancio del Senato, che invece che avviare un colloqui costruttivo, hanno contribuito a generare confusione.

Così, in particolare, il singolare emendamento per cui magistrati, docenti universitari e forze armate e di polizia avrebbero potuto subire un taglio della tredicesima mensilità, che sarebbe servito per generare la copertura finanziaria per gli scatti successivi di anzianità di carriera a cui sono agganciati gli aumenti di stipendio. Ciò avrebbe consentito di eliminare il blocco temporaneo delle progressioni di carriera e degli scatti di aumenti di retribuzioni stabiliti con la manovra di finanza pubblica. Ma la riduzione di un reddito attuale genera una perdita certa di utilità presente che non può essere compensata dal beneficio di un vantaggio futuro, che da luogo in futuro a un reddito maggiore, dello stesso importo. Da un lato c’è una riduzione di reddito, dall’altero un mancato miglioramento.

E’ meglio subire un lucro cessante che un danno emergente. E comunque una soluzione di questo genere, di fronte alla richiesta di attenuazione del taglio di stipendi futuri, che veniva e viene avanzata da queste categorie di pubblici dipendenti, suona come una presa in giro. Sarebbe stato meglio un emendamento che stabilisse deroghe a questo blocco basate su requisiti particolari di merito, che avesse comportato una perdita di gettito di qualche centinaio di milioni, da reperire con altre economie di spesa. Una di queste, ad esempio, consiste nell’accorpamento in un unico ente dei sette enti statali che attualmente si occupano della promozione del nostro commercio estero e del nostro turismo internazionale, che comporta una minore spesa di 200 milioni, con un aumento di efficienza del servizio.

Nei riguardi delle Regioni esisteva ed esiste un importante strumento negoziale, che sembra stranamente dimentica, e che consiste nelle devoluzione ad esse di una parte molto rilevante dei beni demaniali e del patrimonio dello stato italiano.

Secondo stime della Corte dei Conti il valore a prezzi attuali della sola parte riguardante i beni immobili edificati o suscettibili di edificazione potrebbe valere attorno ai 3,2 miliardi. Secondo il decreto di attuazione della riforma federalista, che prescrive questa devoluzione di beni statali alle Regioni, la valorizzazione di questi beni comporta per le Regioni di dover devolvere allo stato un quarto del provento derivante dalla alienazione di questi beni, dopo che siano stati valorizzati. Il pensiero che ha guidato questo principio è che lo stato va indennizzato della perdita di questi valori patrimoniali, fermo restando che il beneficio della loro valorizzazione va alle Regioni. Dunque se ne può desumere che secondo il legislatore la valorizzazione può generare un valore di quattro volte tanto quello attuale di tali beni, che, in effetti, attualmente sono di solito scarsamente utilizzati. Dunque il patrimonio in questione può essere stimato, dopo la sua valorizzazione, a 12,8 miliardi di euro. Togliendo il  quarto che dovrebbe essere devoluto allo stato, per compensarlo della perdita economica di questi beni, alle Regioni rimarrebbero tre quarti di questo totale, cioè 9,6 miliardi di euro: un importo superiore a quello dei tagli stabiliti dalla manovra correttiva a loro carico che è di 4 e 4,5 miliardi annui nel biennio.

Si può obbiettare che questo taglio potrebbe diventare, in seguito, permanente mentre le entrate patrimoniali delle Regioni in conseguenza della devoluzione di beni statali, che dovrebbero andare a riduzione del loro debito pubblico, sono "una tantum".

Tuttavia va notato che in futuro le Regioni avranno nuove entrate e nuove spese con un diverso sistema di gestione e di finanziamento delle proprie spese basato su una maggiore autonomia di quella attuale, sicché in effetti i tagli di trasferimenti pubblici che derivano dalla manovra sono anche essi fatti non ricorrenti, come i benefici patrimoniali derivanti dalla devoluzione di beni statali.

Si può obbiettare anche che solo una parte di beni di cui sopra va demandata alle Regioni, in quanto una quota importante di essi va demandata agli enti locali, sulla base di criteri di sussidiarietà, adeguatezza e territorialità. Quindi la quota che va alle Regioni non è stimabile in 9,8 miliardi. Ma si può contro obbiettare che le Regioni, a loro volta, usano una parte delle proprie risorse per trasferimenti agli enti locali. Va anche aggiunto che gli immobili e i terreni che vengono dati alle Regioni, sul patrimonio indisponibile dello stato, sono solo una quota e neppure la più importante dei beni pubblici statali che esse ricevono. La parte più grossa, infatti, è costituita da beni demaniali non vendibili, del demanio marittimo ed idrico, di mari, fiumi e laghi, con relative pertinenze e opere idrauliche e di altro genere e da beni aeroportuali che sono oggetto di concessioni e quindi fruttano un reddito.

Va notato che una parte di questi beni può essere messa a frutto mediante lo sfruttamento del loro potenziale idro elettrico. Poiché i criteri di devoluzione dei beni demaniali non sono rigidamente determinati in quanto i principi base sono quelli della sussidiarietà e della adeguatezza, per loro natura elastici, e una parte di essi, secondo il decreto appena emanato, deve rimanere allo stato, in base all’interpretazione di tali principi si potrebbe stabilire un tavolo di dialogo con le Regioni, in modo da dare a quelle più virtuose una maggior quota di questi beni statali, a condizioni più vantaggiose.

Il criterio della virtuosità per altro non va considerato solo sulla base dei comportamenti del passato, va anche valutato in base ai comportamenti futuri, in modo da operare, in termini economici, come incentivo. Ciò è particolarmente importante, con riguardo alle Regioni in cui di recente si sono insediate nuove amministrazioni, che non hanno la responsabilità degli errori e degli sprechi ed inefficienze del passato, il che accade soprattutto nel Mezzogiorno.

Sarebbe un grave errore politico trasformare una questione che riguarda la buona o cattiva gestione della cosa pubblica in una controversia fra Nord e Sud.

Gli handicap storici e non delle regioni meridionali esistono, ma vanno trattati in termini oggettivi, al di fuori di polemiche inappropriate. In non pochi casi le colpe del Mezzogiorno derivano dal fatto che in realtà esiste, a livello nazionale e regionale, una farragine di norme dirigiste che rendono difficile la amministrazione della cosa pubblica, soprattutto nelle aree ove la macchina burocratica è meno evoluta.

Le norme europee sulle politiche di sviluppo regionale comportano un dirigismo pianificatorio che evoca il metodo fallimentare dei piani sovietici. E i ritardi enormi di spesa delle Regioni meridionali connessi alla gestione di questi fondi sono da imputare, in primo luogo, a un modello che contrasta con i principi di libero mercato a cui si ispira il Trattato di Maastricht che dovrebbero servire a liberare il Sud di Italia dai lacci e laccioli che ne ostacolano lo sviluppo, non ad aggravarli.

Va aggiunto che le norme statali sulle opere pubbliche, sull’urbanistica, sulle competenze concorrenti dei vari livelli di governo, che si sono stratificate dagli anni 90 in poi hanno aggravato questo stato di cose, mentre il Mezzogiorno ha bisogno di maggiore libertà. Questo messaggio, per la verità, è contenuto in alcuni articolai della attuale manovra di finanza pubblica. Occorrerebbe valorizzarlo e ampliarne la attuazione.

I limiti di un decreto e la necessità di ricorrere alla fiducia sul suo complesso impongono di limitare gli emendamenti. Ma bisogna evitare di pensare che dopo questo decreto ispirato al rigore, non ci sia spazio per nuove misure orientate alla crescita. Ci sono state e ci sono, accanto alle proteste sindacali e delle Regioni e degli enti locali, anche quelle della Confindustria e di altre organizzazioni, delle piccole e media imprese che riguardano soprattutto la materia fiscale e la riduzione delle sovvenzioni pubbliche alle energie alternative.

Lo sviluppo delle nuove fonti energetiche non può avvenire mediante un regime permanente e sistematico di sovvenzioni. L’impresa di economia assistita non è impresa, non genera sviluppo, contrasta con il concetto base dell’impresa, che è quello della liberta di operare con le proprie forze, sul mercato. Quanto alle questioni fiscali, in materia di accertamento tributario e di contenzioso, ci sono una rimostranza giusta ed una sbagliata. Quella giusta riguarda il nuovo principio per cui l’accertamento del fisco comporta l’obbligo di pagare il maggior tributo e le connesse penalità, anche se il contribuente fa ricorso. Così egli deve prima pagare e poi attendere che gli sia fatta, eventualmente, giustizia, nei vari gradi di giurisdizione. Ciò restaura un principio iniquo e pericoloso, contrario al diritto di proprietà e iniziativa privata, che è stato abolito nel passato, denominato del “solve et repete” che contrasta con lo statuto del contribuente e induce lo stato a non accelerare il contenzioso tributario, perché ciò è contrario al suo interesse, a dare al contribuente, il più tardi possibile, il riconoscimento di ciò che gli spetta.

Diversa è la questione con riguardo alla norma, anche essa contenuta nel decreto, secondo cui l’avviso di accertamento da parte della amministrazione tributaria blocca la facoltà del contribuente di compensare i debiti che ha con il fisco con i crediti che egli stesso ha determinato, per rimborsi, a carico del fisco. Infatti la compensazione fra debiti fiscali e crediti auto determinati dal contribuente per rimborsi fiscali, è un istituto pericoloso, in sé opinabile, che genera uno squilibrio sistematico fra le due parti, fisco e contribuente, a favore del secondo. E’ sbagliato dare al fisco un potere maggiore che al contribuente, ma è altrettanto sbagliato sbilanciare il rapporto a favore del contribuente, confidando che egli non tenga condotte opportunistiche. Dunque la norma per cui un avviso di accertamento del fisco blocca le compensazioni del contribuente fra propri debiti fiscali e propri presunti crediti verso il fisco, appare un modo per riequilibrare il rapporto fra le due parti.

Se si analizza parola per parola la manovra correttiva di finanza pubblica, si possono trovare tantissime ragioni per migliorarlo. Ma il perfezionismo è un mito pericoloso. La scienza del governo è un’arte del possibile. E, soprattutto, la quantità di miglioramenti possibili e praticabili è funzione inversa dello spirito polemico e dell’atteggiamento di opposizione preconcetta. E quindi i margini attuali di modifica sono molto ristretti, perché è chiaro che lo scopo delle proteste non è quello di migliorare il decreto nell’interresse comune a un rigore sostenibile, ma quello di far cadere il governo e soprattutto di modificare il quadro politico sovvertendo la volontà degli elettori.