
Senza il popolo non si riforma lo Stato né si governa la crisi

01 Gennaio 2017
La vittoria del No il 4 dicembre ha scongiurato il tentativo di consolidare istituzionalmente l’idea di comando dall’alto della Repubblica che aveva in testa Matteo Renzi, combinando riforma Boschi e Italicum, e indebolendo così ulteriormente le basi democratiche di uno Stato già fragile e perciò subalterno a molteplici ed eccessive influenze internazionali. Ma la crisi italiana è ancora tutta intera di fronte a noi.
Dove gli Stati (e le società) funzionano, si può contare su meccanismi quasi automatici che si mettono in moto di fronte alle situazioni pericolose. In Italia tutti i principali strumenti di protezione degli interessi nazionali sono in crisi: partiti, parlamento, autonomie territoriali, serenità della magistratura, relazioni internazionali, sistema finanziario, corpi intermedi, anche il ceto imprenditoriale ha più reazioni di pura autodifesa che da classe dirigente. Con tutto la simpatia dovuta a un presidente ben rispettoso dei compiti del parlamento, il Quirinale, che pure agevolando la formazione del governo di decantazione Gentiloni ha rasserenato un po’ il clima, non è in grado di contrastare alle radici un processo di disgregazione così profondo come quello in corso.
La principale difficoltà che ci si trova di fronte è combinare una profonda riforma di uno Stato in particolare crisi da dopo il ’92 con i compiti di governare giorno per giorno una delle grandi economie di un mondo che dalla sua vive una fase turbolenta.
Senza visione del futuro non ci sarà governo capace di far uscire dalla crisi l’Italia ma senza governo della crisi ogni visione “alta” diverrà velleitaria. E senza il “popolo” né visione né governo concreto delle cose avranno alcuna base su cui poggiare. Peraltro siamo in un momento in cui i cittadini in Occidente soffrono di un radicato malessere mentre in Italia una condizione spesso quasi rabbiosa dell’opinione pubblica è esasperata dal commissariamento attuato della democrazia dal 2011 in poi, da un parlamento moralmente delegittimato, nonché dalla presenza di un forte movimento di protesta senza vera capacità di proposta: movimento – va ricordato – che nasce non solo dal basso ma anche, nel 2006-7 , da una campagna anti casta – casta politica naturalmente – con un sapore definibile da “sovversivismo delle classi dirigenti”, guidata dalla Confindustria di Luca Cordero di Montezemolo e dal Corriere della Sera di Paolo Mieli.
Il primo passaggio (temporalmente e in parte politicamente) che la situazione ci pone di fronte è quello della scelta di un sistema elettorale che consenta al corpo elettorale di esprimersi decentemente anche sugli indirizzi che la nazione deve adottare: neanche questa minima riforma democratica consolidatasi dopo il ’92, è veramente a disposizione dei cittadini grazie ai pasticci combinati dalla Corte costituzionale, dal governo Monti, dal governo Renzi o dai tentativi infruttuosi, di intervento sul tema, del Quirinale dal 2011 al febbraio del 2015.
Il passaggio sul sistema elettorale deciderà come e se si potrà aprire un qualche clima costituente e se si potrà eleggere un governo almeno un po’ governante: ma questi obiettivi non saranno neanche sfiorati se non si terrà conto dei sentimenti popolari, se prevarranno gli interessi più meschini del ceto politico, se si penserà di preparare nuove furbate a protezione di qualche “esigenza” particolare o anche solo se si ragionerà per schemi astratti senza comprendere bene lo stato concreto delle cose.
Per quanto inopportunamente infatuato del riformismo malato di Renzi, Angelo Panebianco ha perfettamente ragione quando ritiene che un largo numero di elettori diventerà ancora più rabbioso (e se volete capire il livello attuale di questo stato d’animo vi basta fare un’analisi anche rozza dei voti del referendum) se gli verrà sottratto quel pur imperfetto potere di indirizzo sulla scelta del governo che aveva acquisito negli anni Novanta. Per quanto le posizioni di Romano Prodi, come gli capita spesso, manchino assolutamente di finezza, è difficile dissentire da lui quando afferma che qualsiasi legge elettorale proposta per danneggiare il Movimento cinque stelle, finirà per avvantaggiarlo.
Siamo arrivati a uno di quei momenti in cui chi vuole incidere sugli indirizzi della nazione deve perseguire una linea di coraggio e verità, o prepararsi a uscire rapidamente di scena.
Le persone anche stimabili che lanciano appelli a nuove esperienze di governi di unità nazionale per gestire insieme risanamento dello Stato e compiti di governo si preparano al suicidio politico. Così chi evoca in questo senso l’esperienza tedesca, proponendo di seguire anche quel modello di sistema elettorale: la grande coalizione che regge oggi a Berlino è possibile solo perché il suo costo è pagato dall’egemonizzazione tedesca dell’Europa. E nonostante ciò, Cdu-Csu e Spd sono passati da circa l’80 a circa il 50 per cento dei voti.
Dovunque nel resto di Europa le grandi coalizioni, anche nelle nazioni che più a lungo le hanno sperimentate dall’Olanda all’Austria, sono allo sbando. Certo vi sono esperienze di emergenza come quella spagnola, ma l’astensione del partito socialista sul governo Rajoy dà la misura del carattere assolutamente transitorio di simili scelte. Al fondo i popoli si sono resi conto che solo sistemi fondati sull’alternanza danno loro adeguata influenza politica, mentre, di converso, gli osservatori più intelligenti sanno che la forza di uno Stato dipende dal consenso del proprio popolo.
I sistemi elettorali non risolvono, certo, di per sé le crisi complicate di uno Stato come quello italiano (e vi sono infatti tutta una serie di obiettivi costituenti e tutta una pratica concreta di scelte di governo da indicare e poi assumere) né definiscono automaticamente le forze politiche di cui l’Italia ha bisogno, ma sono la base necessaria per ristabilire un rapporto di relativa fiducia tra popolo e istituzioni, o per incrinarlo ulteriormente.
Ecco perché se il sistema elettorale che si sceglierà per gestire una fase pur di transizione non sarà chiaramente maggioritario, si finirà per accentuare la disgregazione della società e dello Stato italiani con l’unica meta possibile, quella di un definitivo commissariamento o colonizzazione della nostra economia e delle nostre istituzioni: sperando – nella disperazione – che vi siano ancora potenze adeguatamente forti per gestire ordinatamente un’operazione così complessa rivolta a una società ancora così ricca come quella italiana.
La consapevolezza della drammaticità del momento deve trasformarsi in capacità di iniziativa politica: la disgregazione nazionale produce, come insegnava già Francesco Guicciardini, cura solo del proprio particolare e questa cura del “particolare” vediamo ben presente in tutti quelli che cercano di intralciare una scelta di sistema elettorale che mantenga centralità al popolo: così innanzi tutto quelli che sostengono che le questioni materiali vengono prima di quelle istituzionali, chiudendo gli occhi di fronte al fatto che per gestire le “questioni materiali” servono strumenti innanzi tutto istituzionali adeguati e questi non verrebbero mai offerti da una palude parlamentare radicalmente neoproporzionalista.
Mettere a punto un sistema elettorale decente e andare a votare rapidamente sono solo una premessa per gli altri compiti che spettano a chi vuole salvare l’Italia. Si dovranno poi (e magari insieme) trovare le vie per lanciare una Assemblea veramente costituente, per dotarsi di forze politiche organizzate su ben regolate primarie che esprimano gli indirizzi (in punti essenziali alternativi) per la guida dello Stato. Ma senza premessa non ci saranno concrete possibilità di scegliere in quel modo, ripetiamo, veritiero e coraggioso di cui oggi c’è bisogno.