
Senza riforma delle pensioni non possiamo aiutare le imprese

03 Febbraio 2009
La crisi si sta facendo più aspra. Ciò dipende dal fatto che il piano di Obama è considerato inefficace o dannoso. Il Pil degli USA, in relazione a ciò, sta cadendo al ritmo del 5 per cento, molto più del previsto. Il contraccolpo sulla Germania sarà forte e si riverbererà su tutti, nell’area euro e, in misura maggiore, sull’Italia, dato che la nostra economia è particolarmente legata a quella tedesca.
L’aggravamento della crisi congiunturale, pur non essendo responsabilità dell’Italia, la colpisce duramente nel suo settore manifatturiero proprio mentre esso sta completando il suo processo di ristrutturazione. La contrapposizione fra manifatturiero di esportazione e di mercato interno, fra grandi imprese e piccole e medie imprese che si tenta di fare per circoscrivere i problemi di crisi è errata. Infatti una parte delle imprese che esportano opera anche per il mercato interno e viceversa. Esempi tipici sono il settore dell’auto e della sua componentistica e quello degli elettrodomestici. Inoltre la domanda interna si riduce in conseguenza della recessione indotta dalla domanda estera. E per conseguenza l’industria che vende in parte sul mercato etereo e in parte su quello interno, si vede colpita sui due fronti. D’altra parte molte piccole e medie imprese lavorano per le (poche) grandi imprese che abbiamo. E la crisi delle grandi imprese genera riduzioni di domanda, di beni intermedi , di beni di investimento e di beni di consumo (in relazione alla riduzione di potere di acquisto nelle aree in cui esse operano) che comportano perdita di mercato per le piccole e medie imprese, diffuse nell’intera economia. Ecco perché occorre un piano aggiuntivo per il sostegno del settore industriale che Emma Mercegaglia ha quantificato in 8 miliardi di euro, che serva a sorreggere l’apparato manifatturiero, sul fronte della sua domanda. E ciò a prescindere dalla spesa aggiuntiva per ammortizzatori sociali.
Immagino che la Confindustria abbia, per questo piano, idee concrete e quindi non ragioni con la formula semplicistica parakeynesiana dei cultori di obamanomics secondo cui la validità di una ricetta anticrisi si misura con la sua quantità e non con il suo contenuto. Non si possono creare nuovi deficit senza pensare al peso che generano per il futuro contribuente e, in primis, per la credibilità finanziaria dell’Italia, che colloca più di metà del debito pubblico sui mercati internazionali.
Il punto , dunque, è come finanziare il piano. E la risposta noi la abbiamo. Quando dico noi, intendo il gruppo di esperti di Magna Carta, che ha elaborato la proposta Forte Rebecchini di aumento dell’età pensionabile delle donne, a 65 anni, in un quinquennio, con un aumento di un anno di età anagrafica ogni anno. Tale piano, ove attuato dal secondo semestre del 2009, comporterebbe per le donne nate nella seconda metà del 1948 di andare in pensione a 61 anni, anziché a 60. Nel 2010 potrebbe toccare alle donne nate dopo il primo trimestre del 1949 di andare in pensione a 62 anni e a quelle nate nel primo a 61. Nel 2011 si potrebbe attuare il pensionamento a 63 anni per le donne nate nel 1950. Nel 2012, per donne nate nel 1951 l’età di pensionamento salirebbe a 64 anni e dal 2013 per tutte le donne nate dal 1952 in poi il pensionamento sarebbe al compimento dei 65 anni.
Le donne che lavorano, comprese fra l’età di 55 e 60 anni nel 2009 percepiscono presumibilmente una pensione media di 12 milioni di euro annui. Le donne che lavorano comprese fera le età di 55 anni e 65 sono 800 mila. Possiamo ipotizzare che le donne che lavorano oltre i 60 anni e prima dei 65 anni siano un sesto di questo totale e cinque sesti quelle che vanno in pensione a 60 anni o prima. Dunque le donne che, con l’età di pensione a 65 anni rimarranno al lavoro, a regime, saranno 665 mila circa . E con una pensione media di 12 mila euro ciascuna, che è la attuale pensione media che le donne ottengono in quella classe di età, il risparmio annuo che si potrà fare a regime potrebbe essere sarebbe di 7, 980 miliardi. Praticamente la cifra che Emma Mercegaglia ipotizza sia ora necessaria per nuove misure anticrisi del governo per la nostra industria.
La situazione pensionistica italiana è anomala. Infatti abbiamo ben 16,5 milioni di pensionati che sui 23,1 milioni occupati sono una percentuale del 71,5 per cento. Un occupato medio sorregge 0,71 pensionati. Come si può reggere un simile esercito di pensionati? La cifra che spendiamo per le pensioni in Italia, nel 2007 è di 270 miliardi pari al 17,6 per cento del PIL. E la quota raccolta con i contributi sociali è solo di 200 miliardi. Altri 70 pari al 4,5 per cento del Pil sono tratti dalla spesa pubblica generale dello stato, quindi sono a carico del sistema tributario statale. Se a ciò aggiungiamo che il 5% del Pil abbondante se ne va in interessi sul debito pubblico, appare evidente che il 10% del nostro Pil è prenotato per spese per oneri del debito pensionistico e del debito pubblico. E nel 2007 la spesa per pensioni è aumentata del 6 per cento, mentre il Pil in moneta corrente aumentava del 3,8 per cento.
Senza riforma delle pensioni, non siamo credibili.
E, fra l’altro, non ci possiamo permettersi una riforma fiscale che comporti di devolvere alle Regioni altre quote delle entrate tributarie erariali. Dunque urgono interventi sul settore pensionistico. La riforma del sistema di pensioni per le donne è solo una parte del quadro. Ma non è un tema irrilevante, in quanto sui 16 milioni e mezzo di pensionati le donne sono il 53 per cento. Inoltre il tema è all’ordine del giorno, perché c’è, al riguardo una sentenza dell’Alta Corte di Giustizia europea che ritiene che la diversità di pensionamento delle donne rispetto agli uomini comporti una discriminazione. E, come la Corte ha notato, non è vero affatto che elevare l’età di pensione per le donne a quella prevista per gli uomini comporta di togliere loro un vantaggio. Nel complesso, comporta di togliere loro un’inferiorità, che le danneggia, anche nella carriera. La resistenza a questa riforma, però, è notevole. Ma è ancora più notevole la debolezza degli argomenti che vengono addotti per sostenere che la riforma non va fatta o al massimo va limitata al pubblico impiego. Infatti, è vero che la Corte di Giustizia della Comunità Europa ha emesso la sua sentenza con riguardo al pubblico impiego. Ma ciò perché il caso che le era stato sottoposto si riferiva al pubblico impiego. Per altro la discriminazione non dipende dal tipo di occupazione, ma dal sesso delle persone coinvolte.Un’altra tesi per negare questa riforma si basa sull’argomentazione secondo cui, con il regime ancora vigente delle pensione di anzianità, accanto a quelle di vecchiaia, le donne vanno attualmente in pensione mediamente alla stessa età o a una maggiore degli uomini, perché raramente riescono a usufruire dei 35 anni di anzianità contributiva prima dei 60 anni. In effetti, le donne in pensione con meno di 65 anni sono il 27,3 per cento del totale delle pensionate, vale a dire 2.375 mila, mentre ci sono 2700 mila maschi in pensione aventi meno di 65 anni, pari al 34 per cento del totale dei pensionati maschi. E sui 100 pensionati aventi meno di 65 anni le donne sono solo il 46,7 per cento. A prima vista , queste percentuali sembrerebbe servire per sostenere che le donne che vanno in pensione prima dei 65 anni sono meno degli uomini.
Il confronto corretto però va fatto fra le donne non sessantacinquenni che vanno in pensione e le donne occupate. Ora le donne occupate sono 9,1 milioni pari al 39,3 per cento mentre la percentuale delle donne in pensione prima dei 65 anni, composta quasi tutta di lavoratrici andate in pensione prima dei 60 anni, è il 46%. Ne consegue che ci sono ben 8,7 milioni di donne in pensione che sono, rispetto ai 9,1 milioni di donne occupate, il 95,6 per cento vale a dire che per ogni donna occupata ce ne è quasi una pensionata. E questa anomalia contribuisce ad abbassare la percentuale dell’occupazione femminile sull’occupazione totale. E questo appare un assurdo palese oltreché un incredibile spreco sociale e genera anche iniquità perché la pensione media femminile è molto più bassa di quella degli uomini.
E questo divario, se le donne continueranno ad andare in pensione a 60 anni per dedicarsi alla casa, proprio quando i figli sono ormai grandi, si esaspererà, in quanto la pensione prima di 65 anni per gli uomini è una situazione transitoria, poiché il pensionamento per anzianità prima dei 65 anni gradualmente viene eliminato. D’altra parte l’esercito delle donne che lavorano è cresciuto nel tempo e a regime, posto che l’occupazione femminile sia di 9 milioni di unità con una durata media della loro attività lavorativa anni di 40 anni, le donne che vanno in pensione in un anno non sarebbero affatto 140 mila ma 225 mila, ossia il 60 per cento in più.
Dunque, in realtà l’effetto strutturale è destinato a ssere maggiore di quello calcolato, ci si avvicina a un punto di Pil.