Senza trucco senza inganno, senza trucco con inganno, niente trucchi
31 Ottobre 2010
Curvo sulla donna, che sarebbe rimasta viva ancora per dieci o venti minuti, gli venne in mente che forse non era stata la migliore delle soluzioni, ma sicuramente la più pulita. Non una prova, non una traccia: solo il silenzio in quel grazioso appartamento nel centro di Milano.
***
La cameriera, che andava dalla vittime due volte alla settimana, scoprì il cadavere. Fu avvertita la polizia e, com’è naturale, la scientifica si diede da fare.
Il portiere di turno nel palazzo non aveva visto nessun estraneo entrare nell’edificio e in tutta la serata erano uscite solo due persone: François Contrada, il fidanzato della vittima, e Marisa De Dominicis, amica della vittima e ultima persona ad averla vista viva.
I due furono interrogati dal commissario Celletti, di cui, probabilmente, tutti avrebbero confermato l’onestà e, a mezza bocca, anche la superficialità. Dopo averli interrogati, chissà per quale fenomeno, aveva deciso che François Contrada era una persona incommensurabilmente sospetta.
Per il commissario Celletti l’assioma era: un uomo fidanzato con una bagascia nasconde sempre qualcosa.
Stava scribacchiando qualcosa sul taccuino quando pensò, senza provare nemmeno un piccolo fremito per l’ovvietà di quel pensiero, che bisognava interrogare anche le persone che abitavano sullo stesso pianerottolo della vittima.
Sul piano c’erano quattro appartamenti: quello della vittima, quello del ricercatore d’una ditta di cosmetici, quello d’una giovane studentessa del conservatorio e quello di un giovane barista.
Il commissario procedette agli interrogatori.
Era una mattina di metà settembre, un povero sole malandato cercava di farsi valere (senza successo) su delle nubi grigie e prepotenti. Congedato l’ultimo testimone Celletti stava godendosi la pausa pranzo. Sorseggiava un caffè fatto davvero male e concepì un’altra idea: il primo testimone gli aveva assicurato che la vittima aveva un diario che aggiornava quotidianamente. Non era un diario di carta, ma una serie di cassette che registrava di giorno in giorno con un vecchio registratore. Forse, trovando la cassetta del giorno del delitto, ci sarebbe stato inciso il dialogo fra la vittima e il suo assassino. Almeno questa era la speranza, a dire il vero abbastanza ingenua, di Celletti. Era davvero un uomo di belle speranze.
In una cassettina di legno ben intarsiata furono trovate tre cose molto interessanti: la chiave di una cassaforte, una lettera minatoria e la metà di una pastiglia. Gli uomini del commissario trovarono la cassaforte e l’aprirono con la chiave: decine di nastri ordinati per data. L’ultimo aveva la data del giorno dell’omicidio.
Nella registrazione si udiva solo il breve dialogo fra un uomo e una donna:
“Oh! Tesoro, te ne sei ricordato, è bellissimo”, l’eco di un bacio fugace e poi una voce distorta, presumibilmente maschile, che diceva “Se ti piace mettilo ora”, il silenzio più totale e poi una serie di risatine sommesse. La voce femminile fu identificata dai vicini di casa come quella della vittima, mentre quella presumibilmente maschile rimase senza nome. Troppo vaga e senza inflessioni: come in ogni omicidio ben commesso non poteva mancare la fortuna dell’assassino.
Il commissario, dopo quella prova (che giudicava del nove), fece mettere in stato di fermo il fidanzato della vittima con una quasi accusa di omicidio. Il ragazzo chiamò subito suo zio: il commissario Giuseppe Falconeri.
***
Sapeva che sarebbe stata una pessima giornata. L’acqua calda era finita e per rimpiazzarla era stato costretto a mettere sul fuoco cinque grandi pentole colme d’acqua che poi avrebbe svuotato nella vasca per essere almeno decentemente pulito. Aveva appena finito, si era issato dalla vasca e si era avvolto nell’accappatoio di cotone e lino che aveva trovato in Egitto.
Una volta asciutto si cosparse di un unguento profumato al muschio bianco, si asciugò i capelli e si mise la biancheria pulita: odorava del pioppo racchiuso nelle bustine profumate appese nell’armadio. Indossò un pantalone di flanella grigia, una camicia di cotone verdescuro e un cardigan di cachemire nero. Si preparò la colazione e continuò la stesura di una relazione su un caso di una truffa miliardaria.
Il campanello, amplificato dal silenzio della casa, lo disturbò.
«Ho un problema».
Il professore pensò che la cosa era veramente grave se Falconeri, ben sapendo cosa rischiava, lo andava a disturbare a quell’ora.
«Entra».
Si accomodarono nella sala lettura, un ambiente caldo in legno e pietra. Le poltrone di tessuto a quadri avevano gambe di rovere e tutte le pareti erano tappezzate da librerie di mogano scuro. In un angolo c’era un piccolo mobile bar ricavato da un grosso tronco d’albero, su un tavolino vicino alla finestra stavano dei bellissimi scacchi con relativa scacchiera. Un giorno Corbera gli aveva detto che erano stati realizzati da un mastro ebanista di un paesino dalle parti di Nagqu, che glieli aveva regalati per ringraziarlo dell’aiuto che gli aveva dato per sventare un complotto ordito contro di lui.
«Che c’è in quel pacchetto caro Falconeri?».
«Ricordi Nicola?».
«Sì».
«Gli ho chiesto di preparare sette babà, quelli che piacciono a te».
«Ma che gentile: dev’essere proprio un bel favore quello che sei venuto a chiedermi».
«Mio nipote».
«Quello di Milano?».
«Precisamente: è stato accusato di omicidio».
Il professor Corbera si rabbuiò.
«È stato accusato di essere l’assassino della sua fidanzata».
«La prostituta?».
«Sì».
«Quando partiamo?».
«Quando vuoi tu».
«Appena finiti i babà».
***
Falconeri e Corbera erano appena arrivati all’albergo, avevano lasciato i bagagli e si erano precipitati in commissariato.
«Buongiorno, sono il commissario Giuseppe Falconeri».
«Ah, sì. Ho ricevuto il suo messaggio. Suo nipote rischia più di trent’anni».
«Lo so. Conosce il professor Corbera?».
«Ma certo. Seguo il suo lavoro professore, sono un suo ammiratore. Conosce i fatti?».
«So solo che l’amica della vittima ha inteso la porta che veniva chiusa a chiave e la porta stessa che è stata trovata chiusa quando è stato trovato il cadavere».
«C’è un nastro che testimonia la presenza del signor Contrada in casa della vittima al momento dell’omicidio».
«Tutto qui?» fece il professore meravigliato.
«Sì, non le basta?».
«Penso che il mio amico Falconeri possa dire a suo nipote che è come se fosse già a casa sua».
«Scommetto che questa volte si sbaglia».
«Scommessa accettata».
I due si strinsero la mano, il commissario Celletti aveva un ghigno che al professore parse da idiota e si domandò come avesse fatto a diventare commissario malgrado la sua inettitudine.
Il professore volle fare un sopralluogo a casa della vittima.
Era una casa molto grande dove predominavano il bianco e il nero alternati all’acciaio e al cristallo. Sparpagliate delle serigrafie vivaci ma banali. Superato il salotto entrarono nella stanza da letto, non c’era altro che un disordine indescrivibile: scarpe, biancheria intima, tubetti di cosmetici gettati sul letto e un beautycase gettato in un angolo. Sulla toletta nel bagno c’erano spazzole e profumi, acetone, tamponi per struccarsi, creme da giorno, da notte e di qualsiasi altro genere: mancava solo quella pasticcera. Nell’armadietto dei farmaci c’erano cerotti, flaconi di disinfettante, medicinali di qualunque formato e per qualunque malanno, un vero e proprio armamentario di prodotti contraccettivi e per la profilassi sessuale. Il professore si soffermò sui prodotti di cosmesi sul letto: fondotinta, ombretto, fard, mascara, smalti di vari colori, cipria e altri prodotti assortiti per gli occhi.
Quando uscirono dall’appartamento, il professore rimunginava su un piccolo dettaglio incongruo, si disse che lo avrebbe chiarito in seguito. Sul referto era scritto che la giovane era morta per una dose eccessiva di digitale. Altro dettaglio che non lo convinceva. Uno a uno li avrebbe tutti chiariti.
Voleva interrogare i vicini di casa.
Il primo fu Rosmarino Salsa. Quando Corbera seppe il nome pensò a quanto doveva aver maledetto i propri genitori. L’omino subito colpì la sua attenzione: il continuo gesto nervoso delle mani sulla stanghetta degli occhiali, la sua meticolosa pulizia, i suoi modi riservati e dimessi sembravano i tratti distintivi dell’igienista maniacale.
«Buongiorno signor Salsa».
«Buongiorno, che volete?».
«Solo una piccola formalità. Qual è il suo lavoro?».
«Sono ricercatore in uno stabilimento di cosmetici».
«Suppongo non sia sposato, vero?».
«Come lo sa?».
«Non ha la vera».
«No, non sono sposato».
«Che rapporti c’erano fra lei e la vittima?».
«Ottimi, anche se solo di lavoro. Lei sapeva che lavoro facevo e perciò spesso mi chiedeva campioni gratuiti e qualche suggerimento: aveva la pelle molto delicata e non tollerava cosmetici troppo aggressivi, dovevo essere molto attento nel selezionarli e darglieli».
«Sa se aveva nemici?».
«Mi disse che una persona le aveva inviato una lettera minatoria».
«Le ha fatto il nome?».
«No, ma aveva detto che la calligrafia era uguale alla mia. Ovviamente non mi credeva tanto stupido da scriverla personalmente».
«Dov’era la notte del delitto?».
«Nel mio appartamento, avevo un forte mal di denti e ho preso un sonnifero per riuscire a dormire».
«Conosce gli altri che abitano sul suo stesso pianerottolo?».
«Conosco solo la studentessa del conservatorio».
«Come si chiama?».
«Cristina Lima. È veramente brava a suonare l’oboe, si figuri che una volta le scrissi su un foglietto il nome di uno dei miei brani preferiti, glielo consegnai la mattina e lei per la sera me lo ha suonato alla perfezione».
«Dove ha eseguito il brano la signorina Lima?».
«A casa mia, perché?».
«Curiosità».
La signorina Cristina Lima non poteva muoversi, fu il professore ad andare da lei. Quando arrivarono era indaffarata a ricopiare un voluminoso spartito. Eseguiva il lavoro con una velocità e un perfezione sorprendenti.
«Come mai ricopia le Variazioni Goldberg? Non c’entrano molto con l’oboe».
«È vero, ma non lo sto ricopiando per me: sono per le mie amiche» e additò un grosso cumulo di spartiti che le stavano a destra. La valchiria, Sogno d’amore, Nabucco, Gymnopedie, Principe Igor, Romeo e Giulietta e così via.
«Notevole. Ha un grande talento per queste cose».
«Grazie. Per queste cose tutti ricorrono a me. Quelli che mi stanno antipatici li faccio pagare, mentre quelli che mi stanno simpatici mi devono solo portare il materiale».
«Non è affatto una brutta idea, posso sapere in che rapporti era con la vittima».
«Non la conoscevo quasi e poi, da quando il mio ex mi ha lasciata per lei, abbiamo completamente rotto. Ora comunque sto molto meglio: il mio ex è finito a fare il militare in Liguria e io sto con un ragazzo che fa il commercialista. È simpatico, serio e stiamo per sposarci. Abbiamo trovato già una casa».
«Bene, allora».
Rispose la giovane con un sorriso semplicemente delizioso. Il commissario Falconeri uscì dal suo silenzio:
«Dove si trovava la notte del delitto?».
«Col mio ragazzo, in un pub del centro. Chieda pure al cassiere e al mio ragazzo, probabilmente anche il cameriere si ricorda di me: rovesciai un bicchiere di birra per terra e lui raccolse il frammenti di bicchiere, si è anche tagliato il dito».
***
Il terzo testimone era un ragazzo biondo, occhi azzurri e sorriso gentile. Il professore quando lo vide sussurrò all’orecchio di Falconeri:
«Questo non era sul Titanic?».
«Capace che ci crolla addosso il palazzo».
La prima domanda fu fatta questa volta da Falconeri.
«In che occasioni incontrava la vittima?».
«Spesso veniva con i clienti al bar in cui lavoro, chiedeva sempre un’acqua tonica liscia. Spesso ci scambiavamo i vestiti e…».
«Non ho capito» disse il commissario.
Corbera s’intromise con abilità.
«Ci può parlare meglio del suo rapporto con lei?».
«Era come una sorella minore per me. La sua morte mi ha devastato, ma la cosa più strana è che non riesco a piangere per lei. Sapeva di correre dei rischi, ma non se ne preoccupava. “Finché la barca va, lasciala andare” diceva sempre quando le dicevo cosa pensavo del suo lavoro».
«Mi dispiace, signor Else».
«Mi chiami pure Thor».
«Appassionato di mitologia?».
«No, il mio nome di battesimo è Torquato, ma lo detesto».
«Ma lo ha pronunciato con l’acca».
«L’ho modernizzato un po’».
***
Le analisi dicevano che la mezza pastiglia rinvenuta nella cassettina di legno era droga, con due sole impronte: quelle della vittima ed un altro tipo non identificato.
***
Il professore era stanco. Nella sua camera d’albergo aveva appeso un poster che riproduceva il suo Pensatoio. Questo altro non era che il portico di una casa abbandonata che si trovava in piena campagna. Spesso, fra le sue colonne, era riuscito a trovare le soluzioni che cercava: i ghirigori complessi dei capitelli lo aiutavano a elaborare i pensieri più complicati, mentre la linearità dei fusti lo rilassava.
In quell’appartamento a lui estraneo non riusciva a sentirsi come quando era in campagna, ma fece comunque un piccolo sforzo. Rimase in contemplazione per un paio d’ore, in assoluta fissità. Purtroppo nessuna delle teorie che aveva formulato andava bene. A quel punto, invece di continuare inutilmente, preferì dormirci sopra.
Poggiò la testa sul cuscino e chiuse gli occhi.
***
Ore tre e mezza del mattino. Il professor Corbera stava rivoltandosi nel letto da un’infinità di tempo, non riusciva (essendo abituato alla quiete della campagna) a prendere sonno. I rumori del traffico milanese erano eccessivi. “Troppo chiasso”, pensò. Dopo questa semplice frase si immobilizzò. Nella sua mente tutti gli indizi che aveva andarono a posto da soli.
***
Il professor Corbera disse a Falconeri di convocare in commissariato tutti i sospetti per le undici di mattina e di tenerli lì fino all’una.
Quando Falconeri tentò di chiedere spiegazioni non aveva davanti più nessuno che gliele potesse dare: il professore era subito sgusciato via per andare a occuparsi di un impegno.
***
Il primo tentativo non fu fruttuoso, il secondo men che meno, ma il terzo portò alla vista del professore l’oggetto che cercava: l’arma del delitto.
Aveva fatto bene a non dire nulla a Falconeri della sua idea: sicuramente non avrebbe gradito l’idea di tre violazioni di domicilio commesse da Corbera e si sarebbe dato talmente da fare per dissuaderlo che probabilmente ci sarebbe anche riuscito.
***
«Grazie a tutti per la pazienza e scusate per il ritardo, ma sapevo che eravate in buone mani».
«Perché siamo qui?» chiese il barista.
«Perché fra voi c’è l’assassino» disse il professore con quel tono di voce che tanto gli piaceva assumere in quei momenti. Mentre andava al commissariato, dopo le effrazioni, aveva cercato di inventarsi una frase a effetto per dare quel tocco in più alla situazione, e il meglio che gli era venuto era stato: «In questo delitto il vero assassino è la vanità femminile». L’aveva detta bene, a esser sinceri, ma evidentemente doveva inventarsi qualcosa di più sensazionale. Puntò allora sul resto della sua ricostruzione: «Sissignori. E ora vi spiegherò perché. Qui ci troviamo dinanzi a una prostituta felicemente fidanzata, a un nastro incriminante su cui solo presumibilmente è incisa la voce di François Contrada e a numerose piccole sottigliezze che porterò alla vostra attenzione. Innanzitutto vi è la porta della casa della vittima che è stata trovata chiusa al momento del ritrovamento del corpo. Facile immaginare un suicidio, ma in casa non è stata trovata traccia del farmaco omicida: la digitale. La mia attenzione è stata portata su di voi dalla testimonianza del portiere: egli ha affermato che le uniche persone che sono uscite in tutta la serata sono state un’amica della vittima e il suo fidanzato. Partendo dal presupposto (che si è rivelato giusto) che nessuno dei due poteva essere l’assassino, sono arrivato alla conclusione che il colpevole o la colpevole doveva essere rimasto nel palazzo: parliamo di uno di voi, un inquilino».
L’uditorio era suo. Con quell’ultima frase l’aveva conquistato.
«Fra gli effetti personali della vittima è stata trovata una mezza compressa di droga, sicuramente datale da lei signor Else».
«No!» gridò questi.
«Non è forse vero che vi comportavate come sorelle? Senza dubbio la fiducia che la povera ragazza riponeva in lei era assoluta. Le ha rivelato il vizio che aveva e lei non ha fatto altro che procurarle la droga».
«Non è vero!».
«Non menta, aggraverebbe solo la sua posizione. Sulla metà compressa vi erano due impronte: quella della vittima ed una che non è stata identificata, la sua».
Bluffando nella maniera più spudorata, il professore disse che le impronte rinvenute sulla cassetta delle lettere di Torquato Else e quelle della pastiglia combaciavano perfettamente e brandì una busta gialla con l’intestazione del gabinetto scientifico della polizia in cui c’era solo un foglio bianco. Il gesto, bellissimo nella sua teatralità, sortì l’effetto sperato: il professore ci aveva puntato tutto.
«Lei mi diceva che ne aveva bisogno. Io non volevo che finisse nelle mani degli spacciatori e perciò subivo la situazione. Cos’altro dovevo fare?».
«Beh, se non altro lei era veramente affezionato a quella poverina. Ma lei, signorina Lima?».
«Che ho fatto io?».
«Lei ha semplicemente scritto una lettera minatoria alla vittima».
«Ma non è vero! La grafia non era la mia».
«Credo sia molto significativo che lei sottolinei proprio questo punto. Perché lei ha sempre molto a cuore la grafia delle cose, è bravissima a ricopiare velocemente e bene degli spartiti difficilissimi come quelli che ho visto in camera sua. Per lei sarà stato uno scherzo imitare la calligrafia del signor Salsa: quando le ha dato quel biglietto con la musica da lui preferita non si è lasciata sfuggire l’occasione di usarla per i suoi scopi».
«Brutta…» il signor Salsa stava per inveire contro la musicista, quando un’occhiataccia di Falconeri lo calmò come un colpo di sfollagente.
«Lei odiava la vittima per l’abbandono che era stata costretta a subire a causa sua» proseguì Corbera.
«Non l’ho uccisa io».
«Lo so. Lei la voleva solo spaventare. Ma il signor Salsa la voleva uccidere».
Quest’ultimo si guardò attorno spaesato e bisbigliò «Non è vero».
«Quando ho perquisito la casa della vittima ho trovato molto disordine. Sul letto erano sparpagliati i suoi trucchi, il beauty-case era buttato da una parte e in bagno c’erano le sue creme. Ma fra il letto e il bagno non c’era un solo rossetto. Per di più, nell’armadietto dei medicinali non c’era la digitale. Per questo il mio problema era trovare un rossetto e un tubetto di digitale. quest’ultimo che fine doveva aver fatto? Ho immaginato che lo abbia portato via l’assassino. Mi sembrava strano, però. Voleva dire che per lui era molto compromettente, ma come poteva essere compromettente per lui un anonimo tubetto che invece lo avrebbe aiutato avvalorando la tesi del suicidio? E il rossetto? Possibile che la vittima non avesse rossetto? Semplice: digitale e rossetto sono una cosa sola. Lei, signor Salsa, sapeva che era una traccia lampante: un rossetto avvelenato era molto semplice da realizzare per un ricercatore di una ditta di cosmetici. La voce che incitava la vittima a mettere qualcosa era la sua che le chiedeva di mettersi il rossetto. Ma ritorniamo al beauty-case: la poverina si era messa il rossetto e dopo lo aveva riposto amorevolmente, come chiunque farebbe con un regalo davanti alla persona che lo ha fatto. A questo punto, però, lei ha dovuto recuperarlo. Con la scusa di dover andare in bagno prende il borsello, lo svuota precipitosamente sul letto e si mette alla ricerca dell’arma del delitto. È molto nervoso e getta via il borsello».
«Non ha prove».
«Ovviamente le ho» così dicendo trasse di tasca una busta di plastica trasparente con dentro il rossetto. «L’ho trovato a casa sua, ci sono le sue impronte digitali. Dopo esservi ubriacati, lei se n’è va lasciando sola la ragazza: è solo questione di un quarto d’ora. Lei è così stanca che si spoglia gettando tutto all’aria. È troppo stanca anche per mettere a posto il disastro da lei combinato. Avrà pensato “Ci penso domani!”. Se si fosse struccata, forse, sarebbe ancora qui. Ma lei sapeva che la ragazza non l’avrebbe fatto. Solo una cosa non mi è chiara: perché?».
«Mi chiedeva sempre più soldi. Minacciava di dire tutto a mia madre: sarei stato diseredato».
Detto questo corse verso la finestra, ma Falconeri lo afferrò per la caviglia e caddero entrambi per terra.
«Complimenti Salsa, voleva concludere in bellezza. Ha ragione, lei sta meglio spiaccicato su un marciapiede».
Il professore lasciò la stanza. Non vedeva l’ora di tornare a casa.
***
Non molti giorni dopo, il commissario Celletti pagò la sua scommessa.
Insieme alla solita posta, il professor Corbera ricevette trenta babà in vassoio largo come la fontana di una piazza.
FINE