Senza una comunità politica, all’Italia resta solo l’ombra dei diritti

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Senza una comunità politica, all’Italia resta solo l’ombra dei diritti

11 Luglio 2010

Nel centocinquantesimo anniversario della proclamazione dell’unità d’ Italia, non tutti sembrano avere le idee chiare sulle connessioni tra ‘comunità politica’ e diritti. Adopero l’espressione ‘comunità politica’ nel senso del ‘genus’ di cui lo ‘stato nazionale’ è la ‘species’. Essa designa un  popolo che vive in un territorio, è sottoposto alle stesse leggi e  sta insieme in virtù di valori forti, per quanto non sempre consapevoli e ‘concettualizzati’, che non hanno necessari rapporti di parentela con gli ‘interessi’ – per natura ‘conflittuali’ – e con i ‘diritti’ – per definizione ‘universali’ cioè indifferenti alle ‘frontiere’.

Se regnassero sovrani,  gli ‘interessi’ esporrebbero la comunità alla lacerazione e alla frammentazione, inevitabili ogni qualvolta un gruppo territoriale o sociale si ritiene non sufficientemente garantito e tutelato; se regnassero sovrani i ‘diritti’, i confini statali diverrebbero un colabrodo, giacché, per fare un solo esempio, se c’è un ‘diritto alla salute’ di cui è portatore l’essere umano in quanto tale, in nome di quale principio tale diritto dovrebbe venir riconosciuto sulla base del passaporto e della cittadinanza? (La giustificazione: "non ce n’è per tutti" può essere accolta solo se si fissano poi i criteri in base ai quali i posti letto disponibili in un ospedale, ad esempio, debbono essere assegnati agli uni e non agli altri e, nella logica dei ‘diritti’, tali criteri vanno fondati su codici anch’essi ‘universalistici’: ad esempio, prima le donne, i vecchi, i bambini, indipendentemente da razza, religione, tradizioni, dopo i maschi adulti di ogni provnienza).

Per rimanere uniti  non bastano gli ‘interessi’ e i ‘diritti’: gli uni e gli altri fondano la ‘societas’, il contratto (ideale) dettato dalla ragione e dai ‘lumi’ – che può essere di due specie: individualistico-utilitaristico-libertaria, l’una, democratico-umanitario-egualitaria, l’altra – ma non la ‘communitas’ che, come la famiglia, comporta l’interiorizzazione di doveri non legati a controprestazioni di sorta. ("E’ un ingrato: fa solo i suoi comodi – interessi; è un poco di buono:  non ha una coscienza morale – valori; ma è mio figlio e se non gli procuro io un buon avvocato per salvarlo dalla galera chi altri dovrà farlo?").

La "comunità politica", nell’Ottocento in Europa, ha assunto i tratti tipici dello ‘stato nazionale’ ma, al limite, anche uno stato continentale, o imperiale, o federale può "legare" i cittadini, facendoli sentire parti di un corpo vivente e ingenerando in essi la percezione  o illusione, se si vuole , se non di una "d’arme, di lingua e d’altare,di memorie, di sangue e di cor", per lo meno di una unione ‘naturale’ alla quale è difficile immaginare delle ‘sistemazioni’ alternative.

Certo, alla lunga, una ‘comunità politica’ che non soddisfi interessi e non tuteli diritti individuali degenera in "tribù", in umiliazione di quella libertà e di quella creatività che rendono l’esistenza degna di essere vissuta, ma anche una ‘società politica’ che non ‘curi’ il concreto terreno storico, culturale, istituzionale che definisce la comunità politica, è destinata a costruire sulla sabbia. Ne deriva un paradosso: che i ‘diritti’, che hanno una valenza ‘universale’, hanno bisogno di poggiare su qualcosa che è ‘particolare’ e irriducibile e che, in quanto tale, non unisce ma separa gli individui e i gruppi sociali.
Riprendendo il filo di un discorso già iniziato su queste pagine, si possono avanzare due tesi tra esse intimamente correlate per le ragioni che si diranno:

1. Senza la comunità politica, i diritti  sono "ombre vane fuor che  nell’aspetto". Il che significa, in estrema sintesi che, almeno per quanto riguarda la storia europea e il suo complesso ‘iter’ alla modernità, è impensabile il liberalismo senza lo stato nazionale;

2. Il pluralismo, inteso come "spoliticizzazione della cultura", in senso lato, e come regolata coesistenza di gruppi  sociali diversi, tenuti solo a rispettare i semafori istituzionali nei punti delle loro intersezioni, nella sua accezione ‘forte’ che sancisce il diritto di ogni gruppo religioso, etno-culturale, geografico a "vivre sa vie" senza interferenze da parte dell’autorità statale , non solo non rappresenta l’approdo finale del liberalismo, specie nella sua versione ‘classica’, ma può considerarsi la sua perfetta antitesi. E’ solo quando il ‘pluralismo’ viene depotenziato dalla comunità politica che esso può mostrare un volto rassicurante: è  la versione ‘debole’ che lo riconcilia col liberalismo e consente di teorizzare, parafrasando una nota espressione kantiana riferita ai dati dell’esperienza e alle categorie, che "il liberalismo senza il pluralismo è vuoto mentre il pluralismo senza il liberalismo è cieco".

Veniamo al primo punto, i diritti. Questi, sia che vengano rapportati alla "libertà negativa" la ‘libertà liberale’: i diritti  fare, o astenersi dal fare, qualcosa senza timore di esserne impediti da un’ ‘autorità superiore’ che faccia valere l’ "interesse generale", il "bene pubblico" et similia , sia che vengano rapportati alla ‘libertà positiva’ i diritti a ricevere concrete risorse, materiali e simboliche, che mettano in grado gli individui di realizzare i loro ‘piani di vita’ si trasformano da puri ‘nomina’ iscritti nelle carte costituzionali e nei codici prodotti della legislazione ordinaria in ‘res’ concrete in titoli reali e, per così dire, ‘monetizzabili’ in relazione a quattro parametri fondamentali di riferimento:

la qualità;
la quantità;
lo spazio;
l’efficacia.

Sui primi due è forse superfluo soffermarsi. Anche perché costituiscono il tema di una serie ormai sterminata di dibattiti teorici tra filosofi politici, politologi, economisti, giuristi, filosofi del diritto, teologi morali, bioeticisti etc. Et pour cause! giacché non è affatto indifferente sapere quali diritti abbiamo e quanti  ne abbiamo e quale rapporto vi sia tra gli uni e gli altri. In una cultura come la nostra malata di buonismo e di superficialità, "qualità" e "quantità" spesso e volentieri possono trovarsi in conflitto. Il diritto dei viaggiatori a non essere intossicati dal fumo limita il diritto del tabagista di combattere la noia del viaggio, accendendo una sigaretta dopo l’altra; il diritto dei credenti a veder rispettati i luoghi sacri limita la libertà della pornostar a esibirsi in scene di sesso hard nella Piazza di San Giovanni in Laterano.

Questi e altri casi che potrebbero addursi, all’origine di infinite controversie, portano, tuttavia, a ignorare o comunque a non ‘mettere a fuoco’ gli altri due parametri: lo spazio, l’ambito in cui, almeno ‘sulla carta’, i diritti sono riconosciuti e fatti valere e l’efficacia ovvero la forza che la sfera pubblica dispiega con successo per renderli effettivi. I diritti sono come ‘carte di credito’ le quali danno sicurezza se possono venir utilizzate in qualsiasi sportello bancario ma risultano molto meno preziose se accettate soltanto dalla Cassa di Risparmio di Casalpusterlengo e dintorni. Al mondo, vi sono paesi che non hanno alcuna difficoltà a concedere la cittadinanza agli stranieri o comunque la concedono con minore difficoltà rispetto ad altri. Nel Brasile degli squadroni della morte e dei ninos de rua, si diceva che a differenziare gli abitanti di Rio de Janeiro da quelli di New York era il fatto che per i primi una goccia di sangue bianco fa il bianco mentre per i secondi una goccia di sangue nero fa il nero.

Non per questo la vita individuale è più sicura in Brasile che negli Stati Uniti. A ben riflettere, dimenticando per un momento le analisi dei sociologi, dei politologi, degli psicologi, dei filosofi ossessionati dal fondo razzistico nascosto tra le pieghe della civiltà occidentale, l’accettazione dell’altro può venire ostacolata da una diffidenza ‘culturale’ che non è motivata solo dalla xenofobia (che in certi casi, sconfina, innegabilmente, nell’aperto razzismo) ma dalla consapevolezza che all’altro, che chiede di far parte della comunità nazionale (adopero l’aggettivo nel senso lato che comprende quella che gli abitati degli States chiamano la Nation), si concede una carta di credito della citizenship "pesante"ovvero diritti reali, protetti e garantiti da istituzioni che ‘funzionano’ in maniera soddisfacente.

Una moneta dei diritti civili e politici  screditata giacché il valore delle banconote è puramente nominale ed esibendola non si riesce quasi mai a ‘ottenere giustizia’ si può anche concedere a tutti, senza andare troppo per il sottile: tanto è quasi a costo zero per chi la dà. Solo quando si può dire "civis romanus sum" agli agenti pubblici che vogliono limitare la nostra libertà e che, in virtù di quella dichiarazione verbale, sono costretti a riporre la spada nel fodero, la "civitas" ha un valore. In una realtà sudamericana o africana, non necessariamente un regime dittatoriale, in cui anomia e anarchia sono la norma, la carta d’identità grantisce e protegge solo negli articoli delle Costituzioni che anche nei paesi più corrotti e violenti sembrano scritti da un Comitato presieduto da Thomas Jefferson e composto da magistrati e pensatori della stoffa di un Benjamin Constant.

In realtà, non si comprende la natura e la funzione storica dello stato nazionale se si prescinde dal fatto che esso non ha comportato soprattutto nella sua fase monarchico-assolutista ma anche, e sia pure ovviamente, in misura minore, nella sua stagione costituzionale l’estensione qualitativa e quantitativa dei diritti ma sicuramente ne ha dilatato l’ambito di riconoscimento e l’ ‘effettività’. Come si diceva un tempo degli stipendi statali il 27 del mese i soldi sono "pochi, maledetti e subito" ma sono assicurati così poteva dirsi dei diritti: erano ridotti di numero, al punto da configurarsi talora come veri e propri privilegi, ma valevano su tutto il territorio nazionale.

Il diritto allo studio inteso come ‘libertà negativa’ di poter seguire qualsiasi corso di studi e non come ‘libertà positiva’ di ricevere dalla collettività le risorse necessarie, in termini di esenzione dalle tasse scolastiche, libri gratuiti, borse di studio, eccetera si traduceva nel conseguimento di un diploma o di una laurea spendibile a Cefalù come ad Aquileia. I diritti politici potevano essere limitati dalla messa fuorilegge di partiti ‘antisistema’ ma quel poco o quel tanto che ne restava, nello spazio controllato dallo  Stato, aveva la stessa natura dei diritti civili anch’essi, peraltro, assai ridotti rispetto a quelli riconosciuti in seguito, col mutare delle sensibilità morali e delle concezioni del mondo.

L’avanzata della democrazia e l’immissione delle masse nell’arena politica ha allargato, in maniera sensibile, la quantità dei diritti e ne ha ‘raffinato’ la qualità ma non ne ha indebolito la presa territoriale ove si eccettuino talune significative eccezioni: in Sicilia, ad esempio, l’uxoricidio, diventando ‘delitto d’onore’, stabiliva intollerabili differenze tra il diritto alla giustizia rivendicabile da una trentina e quello rivendicabile da una palermitana. La grandezza e la dignità dello Stato stava nel fatto di poter mobilitare la ‘forza pubblica’ a difesa dei diritti: gli agenti federali che, applicando le leggi volute dai presidenti democratici Kennedy e Johnson, scortano la studentessa nera che mette piede nell’Università dello Stato più razzista dell’Unione sono l’emblema della "civiltà del diritto" che differenziava la "comunità politica dei moderni" da quella degli antichi e dei medievali. A tal proposito, ai molti studiosi italiani che si richiamano al liberalismo e che ne stanno dimenticando i prerequisiti istituzionali e culturali, è consigliabile la riflessione sul pensiero e sull’azione del Gran Conte nel quale il senso dei diritti individuali faceva tutt’uno con quello dello Stato.

Nell’età dell’imperialismo, è vero, ai diritti si accompagnarono doveri sempre più esigenti che alterarono gravemente quel complesso equilibrio, fatto di tacite intese e di riflessi condizionati di fedeltà, che aveva salvaguardato, da una parte, la libertà dei singoli, dall’altra, la forza delle istituzioni incaricate di proteggerli. "Chi per la patria muor vissuto è assai". La grande guerra esasperò la ‘mistica della patria’ e fece riscoprire la ‘libertà degli antichi’ il ‘republicanism’ nella sua versione più illiberale.

Gli stati autoritari e totalitari calpestarono disinvoltamente le libertates, appannando, negli animi degli amici della ‘società aperta’ molti dei quali provenivano da uno Stato imperiale e quasi prefederale, come l’Austria-Ungheria, in cui era assente la retorica nazionalista l’immagine dello Stato nazionale e di ciò che esso aveva rappresentato nel lungo e faticoso cammino della ‘democrazia dei moderni’. E’ non poco significativo, tuttavia, che laddove determinati ‘diritti civili’ ad esempio di proprietà, di culto eccetera riuscirono a sopravvivere all’incalzare dello ‘stato etico’, fu ancora la ‘comunità politica’, lo stato nazionale, che li rese operanti. Finché l’autorità dei prefetti, dei magistrati, delle alte gerarchie militari, dei vertici della burocrazia, della stessa dinastia non fu del tutto svuotata dalle prassi e delle disposizioni del regime, la marea montante dell’ideologia totalitaria trovò un limite oggettivo.

In certi paesini del centro-sud, in occasione del sabato fascista, gli antifascisti venivano incarcerati dalla milizia ‘vigile’ ma i prefetti provvedevano poi a farli uscire, in mancanza di riscontri di reati   compiuti dagli ‘elementi sovversivi’. Fino alle famigerate leggi razziali, i cittadini italiani, del resto, restarono tutelati dal fanatismo religioso. Il "carattere sacro di Roma", aveva detto lo stesso Mussolini nel famoso discorso sul Concordato, "noi lo rispettiamo". Ma è ridicolo pensare, come fu detto, che si dovessero chiudere le Sinagoghe. Gli ebrei sono a Roma dai tempi dei Re.|…| Rimarranno indisturbati. Così rimarranno indisturbati coloro che credono in un’altra religione.

Non è casuale, del resto, come il venir meno della ‘tutela’ dei diritti coincidesse con il suicidio progressivo dello ‘stato nazionale’ indotto dalla martellante ideologizzazione della società civile, in Germania come in Italia—nel caso nazista, con il mito razziale, che si rivolgeva a tutti i popoli di razza ariana tra i quali quello tedesco non era certo il più apprezzato dal Fuehrer; nel caso fascista, con l’ambiguo sovranazionalismo dell’idea imperiale romana, destinato a erodere le basi ideali dello ‘stato risorgimentale’ che i liberali dell’Ottocento volevano ricongiungere all’Europa civile, all’Europa delle nazionalità, privilegiando l’eredità cristiano-medievale a scapito di quella antica greco-romana (che stava a cuore, invece, ai democratici, come si vede già dall’Inno di Mameli, col suo richiamo all’elmo di Scipio).

Con questi rilievi, non intendo certo affermare che la quantità e qualità dei diritti individuali siano direttamente proporzionali alla forza dello Stato né tanto meno negare che questo come non si stancano a torto di ricordare i liberali libertari sia portato sovente a contenere, in virtù della sua ‘ragione’, sia l’una che l’altra. La comunità politica non consente di "far tutto" a tutti né riconosce qualsiasi rivendicazione avanzata dai gruppi sociali meno abbienti nei confronti della sfera pubblica e, tuttavia, rimane l’unico spazio nei quali possono venir fatti valere con successo i diritti riconosciuti dalle leggi che, in regime democratico, sono poi quelli iscritti nelle sensibilità dei cittadini-elettori. Il loro numero, in circostanze favorevoli (determinate, in misura considerevole, dagli assetti di potere internazionali) può venire ulteriormente ampliato ma non  fino a rendere obsoleta e superflua l’idea stessa di ‘comunità politica’, giacché, venendo meno questa, si toglie loro per ripetere l’abusata metafora il "terreno sotto i piedi". (Fine della prima puntata, continua…)