Senza una vera riforma del lavoro le liberalizzazioni non funzioneranno

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Senza una vera riforma del lavoro le liberalizzazioni non funzioneranno

24 Gennaio 2012

La politica di liberalizzazioni attuata con decreto legge di 97 articoli, di cui ora si discuterà in parlamento è deludente. Si tratta di un decreto macchinoso, spesso dirigista, che non può essere considerato intangibile, come è stato sostenuto, in modo improprio, da parte di membri del governo. Ciò per varie ragioni. La prima è che esso stesso è stato più volte rimaneggiato dal governo, passando per varie stesure, sicché il governo medesimo non lo considerava intangibile. Inoltre mentre per queste “liberalizzazioni” si è proceduto per decreto legge, per quella del mercato del lavoro si intende procedere con un disegno di legge, onde consultare le parti sociali e non metterlo di fronte a una decisione–diktat. Ed infine, questo governo non origina dalla volontà popolare, è un governo “tecnico” che i maggiori partiti del parlamento appoggiano, per senso di responsabilità, in regime di emergenza.

Le liberalizzazioni non sono per loro natura un tema puramente tecnico, sono un tema squisitamente politico e molte delle norme di questo decreto non sono vere liberalizzazioni, ma interventi pubblici che modificano gli interessi economici privati, modificandone i diritti di proprietà e di iniziativa. Ed il parlamento non può essere esautorato dal potere emendativo su questi temi. E, per certo, a parte il rischio di emendamenti antiliberisti, è necessario che il risultato sia più liberale di quello di questo decreto e maggiormente orientato a promuovere la crescita, anche nel breve termine. Certo, si tratta di un testo mastodontico, che contiene molte norme scritte con il solito stile prolisso e spesso criptico, che nulla hanno a che fare con le liberalizzazioni come l’articolo 97 che riguarda il contrasto alla falsificazione dell’euro e dispone, al riguardo, una serie di modifiche.

Il primo articolo delle norme generali, invece, è un testo retorico che, mentre suona come abrogativo di tutte le norme riguardanti le imprese a) che prevedono limiti numerici, autorizzazioni, licenze, nulla osta o preventivi atti, di assenso dell’amministrazione comunque denominati per l’avvio di un’attività economica non giustificati da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l’ordinamento comunitario nel rispetto del principio di proporzionalità; b) che pongono divieti e restrizioni alle attività economiche non adeguati o non proporzionati alle finalità pubbliche perseguite, nonché le disposizioni di pianificazione e programmazione territoriale o temporale autoritativa con prevalente finalità economica o prevalente contenuto economico, che pongono limiti, programmi e controlli non ragionevoli, ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate e che in particolare impediscono, condizionano o ritardano l’avvio di nuove attività economiche o l’ingresso di nuovi operatori economici ponendo un trattamento differenziato rispetto agli operatori già presenti sul mercato, rinvia a decreti attuativi tale abrogazione, escludendone comunque le imprese del credito e delle comunicazioni e tutte le attività sottoposte ad autorità di regolamentazione. Comunque, abrogare le autorizzazioni, licenze nulla osta, assensi preventivi della pubblica amministrazione che non corrispondono a un interesse generale significa sanzionare il dirigismo per il misterioso fine dell’interesse generale. Sarebbe stato meglio abrogare singole licenze e autorizzazioni, invece che fare questa norma “manifesto”.

La Parte I relativa alla tutela dei consumatori è un assieme di regole di dirigismo a tutela del consumo, che riduce l’area del libero mercato, giusto o sbagliato che ciò sia. Nella Parte II, in luogo della liberalizzazione dei servizi pubblici locali, c’è la norma per cui la presidenza del consiglio supporta gli enti locali nel monitoraggio e nelle procedure di dismissione delle loro partecipazioni societarie nei servizi pubblici locali. La parte III riguardante la liberalizzazione delle professioni elimina le tariffe, massime o minime, il che non è una liberalizzazione e aumenta il numero di notati e farmacisti, anche questa non è una liberalizzazione. Le disposizioni in materia di energia della Parte IV sono numerose, ma due sole riguardano la liberalizzazione, una norma che dice che fra sei mesi ci sarà un decreto sulla Snam e una norma che stabilisce la facoltà di vendere anche prodotti diversi dai carburanti e affini e quella di vendere anche carburanti di ditte diverse da quelle di cui si ha l’ esclusiva.

La prima norma è come non scritta. Crea incertezze sul futuro di una società quotata in borsa. Meglio sarebbe stato un intervento per attuare in modo concreto la direttiva comunitaria sulla liberalizzazione di Snam rete gas lasciando al futuro la questione se e in che misura separare Snam dall’ENI, che comporta di stabilire un indennizzo per gli azionisti dell’ENI tanto maggiore quanto maggiore è la quota che si toglie all’ENI, che per altro ha attualmente una quota superiore al 50%, mentre potrebbe scendere almeno al 30 %, in parte con offerta delle azioni sul mercato e in parte con l’ampliamento della proprietà di Snam, ad altri soggetti interessati a usufruire di Snam rete gas e a operare nelle reti, a livello domestico e internazionale.

Discutere di questa operazione mentre si discutono le sanzioni all’Iran ma dalle sanzioni viene esonerata la rete di trasporto gas di BP è poco opportuno, dal punto di vista strategico energetico. Liberalizzare in un mercato monopolistico vuol dire creare nuovi soggetti capaci di competere in modo efficace sul mercato interno e internazionale. E poiché quello degli idrocarburi è un mercato controllato da monopoli esteri, è importante che si creino nuovi soggetti nazionali per assicurare un mercato di concorrenza con autonomia energetica. Il discorso riguarda anche altre fonti di energia.

La norma sulla vendita di prodotti diversi dai carburanti è una autentica liberalizzazione, ma quella sulla vendita di carburanti diversi fra loro pone una delicata questione se la proprietà della stazione di servizio è della società di produzione e commercio di carburanti , in quanto viola la sua libertà di impresa. Comunque si tratta di una liberalizzazione che può forse avere minore incidenza sui prezzi di una attiva politica energetica. La parte V riguardante la liberalizzazione dei servizi pubblici locali non attua alcuna liberalizzazione. La sezione VI sul credito e le assicurazioni è il tipico esempio di come un governo composto in larga misura di banchieri difenda il potere delle banche.

Infatti per le commissioni sulle carte di credito affida la loro regolamentazione alla Associazione bancaria, mentre si dovrebbe stabilire che ogni banca è libera di applicare una commissione più bassa di quella massima fissata dalla autorità pubblica. Inoltre nel caso di mutui immobiliari, viene stabilito che quando la banca chiede che l’acquirente si doti di una assicurazione sulla vita, sia obbligata a sottoporgli due preventivi. La vera liberalizzazione consisterebbe nello stabilire che la scelta dell’assicurazione compete al richiedente del mutuo in modo da slegare la vendita abbinata dei prodotti bancari e di quelli assicurativi L’articolo 35 riguardante le assicurazioni RC auto che obbliga a fornire al cliente l’informazione su altre tre polizze di diverse compagnie di assicurazione favorisce l’oligopolio collusivo fra compagnie RC auto.

La vera norma sulla concorrenza consisterebbe nel mettere in rete e nei media a cura del garante della concorrenza le condizioni delle varie compagnie RC auto. La Parte VII sulla liberalizzazione dei trasporti stabilisce che in futuro vi sarà una nuova autorità per questo settore e demanda ora all’autorità per l’energia il compito di assicurare l’accesso alle reti, per altro con la clausola di tutela dei bilanci dei loro proprietari e altre clausole e mantenendo il potere dell’Anas per il settore autostradale. Non mi sembra che creare una nuova costosa authority implichi di liberalizzare. E’ l’opposto. Sarebbe meglio ampliare le competenze della autorità dell’energia.

Ma in sostanza, quella che qui si configura è una diversa regolamentazione non una liberalizzazione, mentre per le Ferrovie dello stato e i servizi di trasporto locale urge stabilire la liberalizzazione delle reti. La liberalizzazione dell’uso della rete delle Ferrovie dello stato si deve attuare senza spostare al Tesoro la rete. Ciò in realtà costituirebbe una statizzazione e indebolirebbe un complesso che detiene anche un cospicuo patrimonio immobiliare, e che dovrebbe diventare una spa quotata, che agisce sullo scacchiere internazionale. Ciò che si deve consentire è di privatizzare le reti locali e regionali che Ferrovie dello Stato non usa o usa male, come quelle della Sicilia e quelle della Calabria fra Reggio Calabria e Catanzaro e tante altre reti in disuso.

Questa formulazione rileva, in generale, per il capitolo delle reti. Una liberalizzazione capace di generare riaggregazioni è la apertura alle gare dei servizi pubblici locali .Ci sono servizi, come quello idrico e quello dei trasporti extraurbani, in cui le economie di scala superano l’ambito locale e anche quello puramente regionale. Le imprese di servizi pubblici locali che vi operano, come multi utility con questa apertura potranno trasformarsi in imprese che forniscono i loro servizi a molti enti locali, in un mercato liberalizzato, formando nuovi grandi gruppi. Gli enti locali, se lo giudicano conveniente, possono rimanere azionisti di minoranza di tali imprese trasformate in società quotate in borsa e finanziate sul mercato. Anche la rete postale va liberalizzata.

A Poste Italiane va tolta la gestione della concessione dei servizi postali, che è una funzione amministrativa pubblica, impropria per una impresa di mercato, concessionaria di servizi pubblici con obbligo di servizio universale. Banco Posta va trasformata in una vera banca, ma deve rimanere nel gruppo Poste Italiane, che va collocato in borsa, come nuova grande impresa multi servizi. Questa sarebbe una liberalizzazione sistemica del settore. Analoga operazione si dovrebbe fare collocando in borsa Anas, cui va tolta la gestione giuridica e amministrativa delle concessioni, per trasformarla in una impresa di mercato, con le caratteristiche di concessionario della rete dorsale.Questi soggetti liberalizzati devono poter diventare imprese multinazionali quotate in borsa e trasparenti.

Con le liberalizzazioni dobbiamo creare nuovi grandi soggetti imprenditoriali, non la frantumazione. Analogo discorso riguarda la SIAE, cui si toglie il monopolio dei diritti di autore, ma non si pensa di collocarla in borsa, in modo da stabilire che essa possa competere, come grande soggetto nel mondo dei diritti di autore. Per di più tolto il monopolio dei diritti d’autore, si stabilisce che il loro commercio sarà regolamentato. Perché e come? Dal monopolio SIAE a un nuovo regime di licenze con l’albo dei professionisti dei diritti d’autore?

Buona la norma che consente agli edicolanti di vender qualsiasi altro prodotto, a condizione che si consenta alle librerie di vendere anche giornali. Le norme sulle liberalizzazioni nelle opere pubbliche e nell’edilizia sono timide. Concludendo, rimangono gli interventi di aumento del numero di taxi, farmacie, notai: questioni secondarie per la politica nazionale. Le liberalizzazioni prioritarie, invece, sono quelle di rilevanza nazionale, relative a grandi o piccole imprese, che vanno inserite in una politica dell’offerta, pro crescita, che faccia emergere nuove iniziative, senza minare quelle esistenti e metta in moto in modo concreto il mercato.

La principale liberalizzazione pro crescita riguarda il mercato del lavoro, con i contratti aziendali, che possono superare l’articolo 18. Occorre riprendere l’articolo 8 e non lasciare isolato il tentativo innovativo del gruppo Fiat. C’è il rischio concreto che Fiat lasci l’Italia. Su questo punto occorre essere chiari e non dimenticare una battaglia che è stata lasciata a mezza strada. Ci sarebbe anche da liberalizzare il regime delle concessioni demaniali, per il rilancio del turismo, mediante una privatizzazione. Ma in questo caso, il governo si è mosso in direzione opposta con concessioni di soli 5 anni e rinnovo delle gare ogni lustro. Occorre infatti privatizzare il più possibile il demanio, mediante concessioni di diritti reali di medio lungo termine, che creano nuovi soggetti proprietari, che sono interessati a nuovi, importanti investimenti, con particolare riguardo allo sviluppo turistico.

Asserire che questo pacchetto nebuloso, che è una montagna di carta che partorisce un topolino di maggior libertà economica possa generare una crescita del Pil del 10% a regime, è doppiamente un falso propagandistico: perché tale effetto nello studio della Banca di Italia riguarda una liberalizzazione generalizzata, che qui non c’è e perché esso presuppone anche che sia liberalizzato il mercato del lavoro con contratti flessibili. Ma c’è un inganno ancora maggiore ovvero confondere una politica con effetti di lungo termine, che può generare gradualmente in un periodo di 30 anni una crescita del Pil del 10 per cento con l’esigenza di stimolare ora la crescita del Pil, per bloccare la recessione, onde risolvere il problema del rapporto debito/Pil senza soffocare le energie vitali del nostro paese e senza creare o perpetuare la disoccupazione.