Serve una visione
03 Maggio 2020
È il 27 novembre 1947, e le elezioni decisive per la collocazione dell’Italia in un mondo nel frattempo divisosi in due non sono lontane. La sinistra è ancora convinta di vincerle. Quel giorno il Consiglio dei ministri delibera che il prefetto di Milano, l’avvocato Ettore Troilo, ex partigiano e vicino alla sinistra, sia messo a disposizione per nuovo incarico e che il dottor Vincenzo Ciotola dalla prefettura di Torino si sposti a quella di Milano. L’avvicendamento è interpretato dalla sinistra come un colpo di mano di De Gasperi e Scelba: un provocatorio passo avanti verso la “normalizzazione”. Migliaia di dimostranti – parecchi armati – si avviano verso la Prefettura, che viene invasa. Giancarlo Pajetta, già membro del comando delle Brigate Garibaldi, è alla guida delle operazioni. Dall’interno della Prefettura telefona a Scelba per comunicargli di aver perso il più importante dei suoi fortilizi. Quindi si mette in comunicazione con Togliatti per informarlo: “Abbiamo la prefettura di Milano”. La risposta del Migliore è raggelante: “E adesso cosa ve ne fate?”. Fuor di metafora: per fare politica serve una visione, quando si fa un passo bisogna sapere quali sono quelli successivi. Altrimenti il passo rischia di essere falso.
Se la lezione viene applicata al tempo di oggi, va rilevato, innanzi tutto, come questa visione manchi dalle parti di chi ha nelle proprie mani il timone del Paese. Mettiamo provvisoriamente da parte i discorsi sulla legittimità degli strumenti istituzionali adoperati per affrontare la crisi. Veniamo alla sostanza. E chiediamoci: come si è pensato fin qui di far fronte a un’emergenza che coniuga insieme la crescita necessitata del debito sovrano con una crisi economico-finanziaria di dimensioni globali?
Il nostro governo è intervenuto innanzitutto con una misura da circa 25 miliardi di euro (decreto “Cura Italia”), nel tentativo di sterilizzare gli effetti di una quarantena obbligatoria e tranquillizzare coloro ai quali si chiedeva disciplina: ricorso massiccio alla cassa integrazione, qualche “ricompensa” assai parziale alle partite Iva e poi posticipo in blocco dei pagamenti, dalle tasse ai mutui. Tutto il resto, rinviato a dopo: a quando si sarebbero potuti quantificare la durata del lockdown e i danni economici conseguenti. In astratto la scelta non è stata priva di una sua razionalità ma le cose sono andate male. Per l’essenziale: l’Inps che avrebbe dovuto far arrivare i contributi a partite Iva e affini è crollato, al punto che ci si è dovuti inventare un’inesistente “invasione degli hacker”; per la cassa integrazione è stato chiesto agli imprenditori di anticipare e molti mutui, ad aggi, continuano normalmente a correre perché le banche non hanno recepito le direttive.
Per il rilancio si è puntato, invece, sul “decreto liquidità”: prestiti garantiti dallo Stato che avrebbero dovuto azionare una leva finanziaria di circa 400 miliardi. Nelle intenzioni: prestiti alle partite Iva e ai piccoli imprenditori, garantiti al 100%, fino a 25.000 euro; quelli per importi maggiori intermediati dalla Sace con garanzie comunque assai elevate. Nei fatti: in Italia ci sono oltre cinque milioni di partite iva, il prestito è stato chiesto da poco più di quarantamila soggetti: la misura, con ogni evidenza, non ha funzionato. E ancor peggio è andata per quelle operazioni che sarebbero dovute passare per la Sace: le banche hanno ristrutturato alcune linee di credito esistenti, in presenza di una garanzia rafforzata; non ne hanno concesse di nuove perché non convinte di potersi fidare, a lunga scadenza, della restituzione di quanto elargito.
Infine, si è puntato sull’Europa impegnandosi per far compiere all’Unione uno scatto di reni, trasformandola in una comunità di destino. Della serie: “Se non ora, quando?”. Un tentativo dovuto, ma abortito. L’Europa resta per noi imprescindibile, visto che la Bce ci copre le spalle proteggendoci da uno spread la cui crescita incontrollata potrebbe travolgerci. L’Unione, però, ci ha detto chiaro e tondo di voler restare un condominio nel quale a determinare le scelte sono il combinato disposto tra l’interesse dei proprietari e i rapporti di forza. Ognuno resta a casa propria e le pertinenze comunitarie non si modificano. Così, il Mes era un trattato e resta un trattato con condizioni; il Sure è un prestito che integra il debito di ogni Paese; il Recovery Found, pubblicizzato come un passo in avanti epocale, vedrà forse la luce il prossimo anno: una cura buona per quando il paziente è morto!
Insomma: al momento, per portare il Paese fuori dalle peste, non si scorge una via e neppure un viottolo. A ciò si sommi il fatto che governo ha affrontato la “fase 2” in modo palesemente confuso e il quadro è completo: cinquanta sfumature di grigio tendenti al nero!
E l’opposizione? Per essa la metafora della Prefettura di Milano vale ancora di più. E’ possibile, perfino probabile, che quando matureranno gli effetti di questa crisi che investe contemporaneamente sanità economia e istituzioni, il Paese le finisca in mano. Potrebbe però essere troppo tardi. Senza una visione, circondata da macerie e priva di collegamenti internazionali adeguati, è facile previsione che non ce la faccia e, quel che è ancora più importante, che non ce la faccia l’Italia.
Serve perciò, innanzitutto, abbandonare il terreno degli scontri ideologici. Diciamolo una volta per tutte: se “sovranismo” significa primato della sovranità del popolo, principio cardine e imprescindibile della democrazia, siamo tutti sovranisti; se significa, invece, ritenere che l’ordine internazionale possa fondarsi sul primato assoluto della nazione senza immaginare collegamenti e accordi sovranazionali, è una pericolosa e inattuale illusione. E’ già fallita dopo la Prima Guerra Mondiale, figuriamoci in pieno terzo millennio!
A ben vedere, d’altro canto, questa crisi ha messo in ginocchio le visioni ideologiche opposte ma complementari degli europeisti acritici e dei sovranisti integralisti. Ci ha dimostrato come il mondo, nostro malgrado, non possa prescindere da un grado assai elevato di interconnessione: non bastano i muri a evitarla. E ci ha spiegato anche come l’Europa con un’anima comune – quella di De Gasperi, Schumann e Adenauer, per intenderci – sia stata ammazzata dalla merce fermata dal virus alle frontiere, dal trattato di Schengen sospeso, dalle grida di dolore inascoltate prima che il contagio investisse anche altri…
La crisi concede un’opportunità a quanti sapranno proporre soluzioni realistiche, che significano saper pensare la ripresa ma, allo stesso tempo, immaginare cosa fare affinché, finita l’emergenza, l’Italia non rimanga ancor più condizionata da un debito nel frattempo cresciuto per necessità ma del quale a suo tempo ci verrà comunque chiesto conto e cui dovremo far fronte senza ricorrere a nuove tasse o innalzamenti dell’Iva…
Realismo è, in primo luogo, prendere atto di quanto questo governo sia inadeguato alla bisogna. L’Italia non può affrontare la sfida più grande con la squadra peggiore dell’ultimo trentennio. Mattarella, d’altro canto, non è Napolitano: anche questo è un fatto che a qualcuno può piacere ad altri no. Non andrà a ricercare una maggioranza e un governo alternativi; lo ha fatto trapelare a chiare lettere. Non si opporrà, però, se una soluzione di salvezza nazionale maturerà nel confronto tra le forze politiche. E a questa ricerca le forze di opposizione dovrebbero lavorare, senza limitarsi a parlare al Paese e a lucrare sugli errori marchiani di chi ci governa. Comprendendo che questa ricerca è persino propedeutica a elezioni il più presto possibile. Perché una regola che vale sempre – e ancor più nei momenti di crisi nazionale – è che le elezioni anticipate si derivano, non si strappano…
Questo tentativo di salvezza nazionale va sperimentato al più presto. Ci sarà una manovra da 55 miliardi, garantita da uno scostamento di bilancio votato da tutti, nessuno escluso. Se ci si pensa bene, è più del doppio di ciò che potrebbe garantire il Mes (33 miliardi meno i 14 che abbiamo già versato nel fondo) qualora si decidesse, imprudentemente, di ricorrervi. Se si sbaglia questa manovra, il Paese rischia veramente, e di brutto.
Per non sbagliarla, è necessario puntare su ciò che fin qui si è evitato di fare: disintermediare. E liberare i soldi custoditi nella pancia degli enti locali per un programma di opere pubbliche che assuma il Ponte di Genova come esempio virtuoso al quale ispirarsi. E’ necessario, insomma, puntare sulla vitalità sociale piuttosto che limitarsi a garantire le rendite di posizione.
Si dirà: vasto e impossibile programma, considerati la cultura politica del Paese e i numeri in Parlamento. Non di meno, l’opposizione ha il dovere di provarci. Il fatto che si possa affermare in Italia, ben presto, una deriva ribellistica è sotto gli occhi di tutti e l’ipotesi è temuta anche dalla parte più consapevole dell’attuale maggioranza. In fin dei conti, non la sola opposizione ma tutti quelli che puntano, una volta ristabilita la fisiologia democratica, a conquistare il governo a seguito di un legittimo verdetto elettorale, dovrebbero lavorare affinché quel giorno non vi sia qualcuno che dica loro: “E ora che ve ne fate?”.