Serve un’impresa “civile” per una nuova società civile
14 Agosto 2008
Proprio come accade per la società in generale, anche l’impresa è diventata una sorta di “danza delle reciprocità” (l’espressione è di Guenter Teubner), un sistema complesso, le cui componenti possono essere sì analiticamente distinte per guadagnare in funzionalità, ma guai se diventano autoreferenziali, compartimenti stagno, chiusi l’uno rispetto all’altro. In questo caso infatti l’impresa finirebbe col perdere di vista quella che, prima ancora del profitto e di tutto il resto, è la sua caratteristica più banale, ma anche più caratterizzante: l’essere cioè qualcosa di umano, qualcosa che ha a che fare con gli uomini e che, proprio per questo, al di là dei codici specifici che possono venire volta a volta mobilitati, è chiamata ad essere appunto “umana”, degna dell’uomo.
Molto sinteticamente, intendo dire che la qualità di un’impresa è data certamente dalla competenza dei suoi membri, dall’efficienza, dalla sua capacità di stare sul mercato, diciamo pure di produrre ricchezza. Ma la sua qualità “civile” emerge, allorché, insieme a tutte queste cose, essa, seppure indirettamente, è in grado di promuovere in tutte le sue diverse fasi, a tutti i suoi diversi livelli organizzativi, determinate risorse, quali il rispetto per gli altri, la reciproca fiducia, la responsabilità, il senso del proprio dovere, il senso del sacrificio, in una parola: quell’”umano” che ovviamente dovrà essere promosso da tutta la società, ma rispetto al quale anche l’impresa è chiamata a fare la sua parte. Non è pensabile ad esempio che una determinata azienda imponga al proprio ufficio del personale di privilegiare nelle assunzioni quegli uomini e quelle donne che dispongono delle suddette “virtù”, se poi tali virtù non vengono praticate e promosse nella vita dell’azienda stessa, non diventano cioè una parte integrante della “missione” dell’azienda. Un tale atteggiamento parassitario, infatti, potrebbe rivelarsi redditizio nel breve periodo, ma alla lunga sarebbe di sicuro controproducente sia per l’impresa che per la società. Come scrissero circa quarant’anni orsono Gabriel Almond e Sidney Verba, la “cultura civica è trasmessa da un processo complesso che implica un tirocinio in molte istituzioni sociali, famiglia, gruppi paritari, scuola, posto di lavoro, e nello stesso sistema politico”. Ognuno deve dunque fare la sua parte.
Un’impresa non raggiunge il proprio obiettivo, diciamo pure la propria “missione”, col semplice conseguimento di profitti. Questi ultimi, infatti, sono sì indispensabili per qualsiasi impresa degna del nome (un’impresa, come dicevo sopra, deve saper stare nel mercato). Tuttavia lo spazio semantico legato al “mercato” è meno rigido di quanto si creda e comunque, nella sua dimensione economicistica, sempre più inadeguato a caratterizzare compiutamente un’impresa. Nel mercato non ci sono soltanto merci, bensì uomini che le comperano, comportamenti, strutture, culture; e tutte queste dimensioni mediano costantemente sia la fruibilità delle merci che i modi di produrle. Quanto ai compratori, essi non sono più soltanto “clienti” che acquistano e consumano; vogliono essere piuttosto consumatori critici, se così si può dire: cittadini che consumano e che con le loro decisioni di acquistare un prodotto anziché un altro vanno a incidere profondamente sulle stesse offerte del mercato. Nel calcolo del rapporto qualità-prezzo, il nuovo consumatore non si accontenta più dei parametri tradizionali; vuole sapere anche come quel dato bene è stato prodotto e se eventualmente nel produrlo l’impresa ha violato diritti umani o ambientali. Si pensi al crollo delle azioni della Nike dai 66 dollari dell’agosto 97 ai 39 dollari del gennaio 98, dopo che alcune associazioni di consumatori avevano denunciato lo scandalo del lavoro minorile mal pagato in India e in Pakistan. Mi sembra insomma che la reputazione dell’impresa –una reputazione intesa in senso molto più ampio rispetto a ieri- stia diventando un capitale sempre più prezioso. Non è un caso che in questi ultimi anni anche le strategie di controllo e di menagment dell’impresa abbiano subito profonde trasformazioni.
Secondo Olof Berg, ad esempio, pare che nelle odierne organizzazioni alla tradizionale “autorità formale” vada sempre più sostituendosi una concezione del menagment come “processo cognitivo ed empatico”, che pone l’accento sulla missione dell’organizzazione, sulle visioni condivise, sul dialogo, più che su rigidi schemi di pianificazione e decisione. Inoltre, poiché viviamo in una società basata e organizzata intorno alla comunicazione e alle immagini, pare che dirigere un’impresa significhi sempre di più gestire “risorse simboliche” più che persone, denaro, macchine o cose del genere. L’elemento chiave diventa dunque il modo di trasmettere ai membri dell’organizzazione e al pubblico esterno un’immagine il più possibile accattivante dell’organizzazione stessa.
Questa preoccupazione per gli aspetti simbolici della vita organizzativa trova conferma nella crescente attenzione al design e all’architettura dell’impresa, nell’enfasi sulle attività di creazione d’immagine, nell’interesse per il cosiddetto marketing interno (la capacità dell’organizzazione di vendersi ai propri membri) e per il dialogo aziendale. Concetti quali cultura, simbolismo, estetica, etica sono diventati in altre parole concetti chiave nella vita di un’impresa. E questo non esprime certo una sorta di “fiera delle vanità”, dovuta magari a qualche manager presuntuoso o stravagante, bensì la consapevolezza che tali concetti sono tanto importanti per l’impresa quanto lo sono i suoi prodotti e la sua capacità di creare profitti.
Per non parlare poi dei molteplici effetti che sull’impresa sono stati indotti dal processo di globalizzazione. A questo proposito si è soliti mettere soprattutto l’accento sulle interdipendenze sempre più strette che la globalizzazione dei rapporti economici ha determinato tra singole imprese e singole economie. La crescita della produzione e del reddito, l’andamento dei prezzi, i tassi d’interesse, il livello di occupazione di una singola economia sono elementi sempre più legati a quanto avviene in altre economie. Di qui, poniamo, la crescente importanza che viene assunta dalle culture, in ordine alla gestione complessiva di tali interconnessioni e, soprattutto, cosa su cui vorrei richiamare l’attenzione, in ordine trasformazione delle cosiddette “leadership”.
Se c’è qualcosa di assolutamente scontato nel mondo odierno – e questo credo che nessuno lo sappia meglio di un imprenditore- è l’improbabilità che i problemi sociali, economici o politici, a qualsiasi livello, possano essere affrontati e risolti da uomini o da organizzazioni che operano separatamente e in solitudine. Viviamo, come ho già accennato sopra, in una società differenziata e complessa, in una società “ecentrica” (priva di centro) direbbe Niklas Luhmann, dove il governo in senso molto lato, proprio per questo, è sempre più diffuso nella società. Ciò comporta che a tutti i livelli le diverse leadership sono ormai costrette a elaborare le loro strategie avendo presente la pluridimensionalità del loro agire; debbono cioè fare i conti con una crescente complessità dei mercati, del sistema politico-amministrativo, del sistema tecnico-scientifico, del sistema delle comunicazioni, del sistema dei valori e degli stili di vita. Di conseguenza, per quanto sofisticate e competenti, difficilmente tali leadership potranno sovrintendere ai molteplici problemi connessi al mercato, all’educazione, alla sanità, all’industria, ai servizi, rimanendo chiuse all’interno del proprio stretto ambito di competenza, specialmente se consideriamo che tutti questi problemi vanno affrontati ormai su diverse scale: quella globale, quella nazionale, quella regionale, quella locale, con cittadini e gruppi di cittadini che rivendicano, su tutti i fronti, una crescente autonomia e servizi sempre diversi e più personalizzati.
Tutto ciò mi sembra che stia ad indicare, tra le altre cose, quella che definirei la crisi della leadership moderna. Intendo dire che un certo modo di intendere l’élite e la dialettica tra élite secondo il modello paretiano o secondo quello marxista, incentrato per lo più sul conflitto tra élite, sul fatto che ogni élite tende a manipolare e ad essere a sua volta manipolata, secondo quella che Roberto Michels ha definito la “ferrea legge dell’oligarchia”; questi modelli, dicevo, dei quali Raymond Aron, in un saggio del 1960, intitolato Classe sociale, classe politica, classe dirigente, ha sottolineato la strutturale vicinanza, risentono in fondo di una concezione generale della società basata su una concezione troppo rigida dei rapporti sociali. Ma per rappresentare una società come la nostra non è più sufficiente fare riferimento alla natura psico-sociale della sua leadership (Pareto), né alla classe che detiene i mezzi di produzione (Marx). La complessità sociale ci obbliga ormai a tenere in conto una pluralità di elementi, una pluralità di sistemi sociali, una pluralità di leadership, caratterizzate certo da specifiche competenze, ma soprattutto da una sempre più necessaria visione d’insieme, da una cultura capace di gestire gli inevitabili conflitti sociali, non più e non soltanto con l’astuzia delle volpi o la forza dei leoni, ma con un profondo senso del bene comune.
Come è noto la differenziazione della società moderna specializza tante diverse élite quanti sono i sistemi parziali che volta a volta vengono differenziati: la religione, la politica, l’economia, la scienza, l’arte, ecc. In ognuno di questi sistemi sociali troviamo un tipo di leadership alla quale vengono richieste competenze specifiche. Tutto questo resta indubbiamente vero anche oggi. Ma la specializzazione rischia di diventare una forma di “chiusura”, la quale, rendendo le diverse leadership sempre più autoreferenziali e quindi lontane dal resto dalla realtà, potrebbe rendere problematica anche la loro funzionalità sociale. La difficoltà crescente con la quale le decisioni di una leadership vengono accettate da un’altra, certi “ingorghi” decisionali tra leadership, come pure lo scollamento, la crescente crisi di fiducia nei leader da parte dei cittadini, vanno ricondotte senz’altro al fenomeno di cui stiamo parlando. Almeno fino a ieri, esisteva inoltre una sorta di preminenza da parte della leadership governativa in senso stretto sulle altre leadership. Per un grande pensatore come Raymond Aron era ancora abbastanza scontato che si distinguesse tra coloro che “occupano delle posizioni o adempiono delle funzioni tali che non possono non avere una influenza nel governo della società” e “coloro che comandano all’intera società in nome di tutti”. Oggi, per i motivi che indicavo sopra, mi pare che questa preminenza non sia più altrettanto scontata.
La qual cosa, di per sé, potrebbe significare certo l’inasprimento del pericolo che gli interessi di alcune lobby prendano il posto del bene pubblico, ma anche la premessa per l’affermasi di una nuova cultura della società civile, capace di riabilitare con forza l’unica ragione per cui vale veramente la pena preoccuparsi dello Stato, del bene pubblico o della società civile: salvaguardare e promuovere la dignità dell’uomo. A questo proposito potrebbe non essere casuale il fatto che, a livello politico come a livello economico, si incominci a parlare di un nuovo modo di pensare la leadership, incentrato, sì sulla competenza, ma anche sulla capacità di mobilitare certi “capitali sociali” sia all’interno del particolare sistema in cui la leadeship opera, sia verso l’esterno. Inventiva, capacità comunicative, organizzative e relazionali, insieme alla competenza, erano considerate anche ieri le doti naturali di un leader; oggi mi pare che queste doti vedano accentuata ulteriormente la loro importanza. Una leadership che voglia essere “civile” non può prescindere dalla promozione di fiducia, reciprocità, impegno per gli altri; soprattutto direi che una leadership sarà tanto più “civile”, quanto più, a qualsiasi livello, saprà produrre quella che, con le parole di Pierpaolo Donati, potremmo definire una “civilizzazione in senso umano”.
Come ha mostrato Robert Putnam in una famosa ricerca sulle regioni italiane, il benessere complessivo di una popolazione non dipende tanto dalla ricchezza, dal livello di educazione o dall’accesso alle risorse naturali, bensì dal grado in cui fiducia, reciprocità, impegno per gli altri viene incarnato dalla civic community. Su questa strada occorre costruire una nuova società civile; è questa consapevolezza che, a qualsiasi livello, viene richiesta alle odierne leadership, inclusi i manager e gli imprenditori, e a tutti gli uomini di buona volontà.