Servirebbe un nuovo Rinascimento per riscoprire la parte migliore dell’Italia
01 Maggio 2012
di Luca Negri
Le cicliche crisi economiche e politiche del nostro paese possono, devono, trovare un po’ di consolazione nei momenti alti della storia patria. Ci si può consolare, meglio ancora ispirare, ai tempi gloriosi; quando l’Italia dava lezioni a tutto l’Occidente, era un esempio da imitare, faceva civiltà. L’ultima volta risale a giorni troppo remoti, ad un momento troppo breve del passato, ma che ancora contribuisce a tenere a galla la nazione, come minimo con il turismo culturale. Stiamo parlando del Rinascimento. Termine ambiguo, controverso, da chiarire e declinare, forse da distinguere dal fenomeno più ampio dell’Umanesimo. Ad esempio, i cattolici tradizionalisti tendono a vedere nel Rinascimento una decadenza, una caduta di tensione spirituale, una grave rottura dell’equilibrio, dell’organicità medioevale. Dall’altra parte della barricata, atei, agnostici e razionalisti vari fanno il tifo per gli eroi rinascimentali che hanno sgretolato i dogmi religiosi traghettando l’umanità verso l’epoca dei lumi e il trionfo della Ragione.
Per affermare che sbagliano gli uni e gli altri, circoscriviamo il fenomeno: il vero Rinascimento fu quello che sbocciò a Firenze, sotto gli auspici e grazie al mecenatismo dei Medici. L’Accademia Platonica di Careggi, animata da Giovanni Pico della Mirandola e da Marsilio Ficino fu l’officina dove si formarono il Botticelli e il Buonarroti. Più o meno la stessa aria respirò Raffaello Sanzio e ancora qualche soffio arriva nel Veneto di Tiziano e del Veronese. Dunque, parliamo di pittura, a quei tempi eccellenza italica indiscussa in campo europeo, ancor più della letteratura. Parliamo della “Primavera” e de “La nascita di Venere”, della Cappella Sistina e della Stanza della Segnatura. Ma non si tratta esclusivamente di pittura, la cosa non si ferma lì. Non solo perché le opere d’arte di allora, come quelle del Medioevo, come quelle vere di sempre hanno una funzione meditativa, ma perché l’influenza del Pico e del Ficino, l’habitat, le esperienze, le letture di quel primo Rinascimento ci dicono ben altro.
Edgar Wind, storico tedesco esperto di iconologia, scrisse un libro illuminante, “Misteri pagani del Rinascimento” (appena riedito da Adelphi, a quarant’anni dalla prima edizione). Studiò i temi e i particolari ricorrenti nelle opere di Botticelli, Michelangelo, Raffaello, oltre che nelle medaglie e negli emblemi. Leggendo in contemporanea gli scritti del Pico, del Ficino e dei loro maestri, Wind comprese il perché dei soggetti pagani, gli dei dell’Olimpo greco, nei quadri e negli affreschi. Non si trattava di mera imitazione, né di rivolta anticristiana, cose che vennero dopo e si cristallizzarono nel Classicismo superato dai romantici. Nell’Accademia Platonica le divinità greche erano interpretate ed invocate come aspetti parziali del Dio unico. Pico e Ficino avevano sposato i misteri ellenici con la sapienza ebraica della Cabala in una sintetica “pia philosophia” cristiana. La dignità dell’uomo derivava dall’essere immagine di Dio, microcosmo, non dall’essere senza Dio. Cristo aveva realizzato le promesse dei miti pagani, portato a termine la missione di Orfeo: vincere la morte ed aprire a tutti le vie per la conoscenza di Dio faccia a faccia.
I numeri di Pitagora, la scienza delle lettere ebraica, ispiravano gli artisti medicei e i loro primi seguaci. Raffaello dipingeva sia la Disputa sul Sacramento e le Madonne sia il Sogno di Scipione e le tre Grazie; Michelangelo scolpiva la Pietà ma anche una statua di Bacco. Non erano schizofrenici, né sporchi mercenari pronti a produrre ciò che veniva pagato (questo sì che è un modo di pensare molto moderno) anche perché erano gli stessi committenti a chiedere soggetti pagani e cristiani. Semplicemente capivano che si trattava di frammenti della stessa storia, di simboli dell’unica realtà.
Il lettore di Wind scoprirà un bel po’ di misteri dietro ad opere che si limitava a considerare sul piano estetico. Se però la cultura italiana vuole trovare un messaggio, una consolazione, uno stimolo in questo nostro passato, la riflessione che s’impone è ancora più profonda. Gli antenati che produssero la migliore arte d’Europa erano tutt’altro che indifferenti al mondo del sacro, al richiamo degli archetipi, alla sintesi cristiana. Forse si spiega così, per contrasto, l’afasia della nostra cultura contemporanea, ombelicale, autoreferenziale, sloganistica. E torna la voglia di invocare Mercurio, una delle emanazioni di Dio, uno dei frutti dell’Albero della Vita. La ricompensa non sarà il tronfio Illuminismo settecentesco ma la tenebra buona dell’assoluto, il Dio oltre ogni nome della cabala e di San Dionigi Areopagita.