Sgarbi dà il meglio di sé sul ring, se cambia genere si sgonfia e deborda

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Sgarbi dà il meglio di sé sul ring, se cambia genere si sgonfia e deborda

20 Maggio 2011

Nel 1994 Vittorio Sgarbi fu tra i primissimi a cavalcare l’onda del berlusconismo. Sicuro di sé, come sempre, ha deciso di scendere ancora una volta nell’arena televisiva, con un programma in prima serata, proprio nel momento in cui ancora una volta, sospinto dal vento delle inchieste giudiziarie e dal flop di Milano, un coro eterogeneo, dai nemici di sempre a quelli dell’ultima ora, cioè dai comunisti ai futuristi, intona il “de profundis” del berlusconismo. La sfida è zeppa di difficoltà. “Ci tocca anche Sgarbi”, programma del critico ferrarese, si sfracella sugli scogli. I risultati sono impietosi: l’8.27% di share, tradotto in numero di telespettatori poco più di due milioni, la metà esatta degli abituali ascolti di Raiuno per la prima serata. Esito finale: baracca chiusa, senza neppure aspettare la seconda puntata. Meglio darci un taglio.

Il ritorno di Giuliano Ferrara e Vittorio Sgarbi in televisione fino a ieri suscitava curiosità, aspettative, speranze. Ma era una storia già scritta. Giulianone conosce i propri limiti: Sgarbi no. Giulianone si è piazzato sulla tavola mobile al centro dell’arena. Poco tempo, toni giusti, soprattutto colpi giusti, senza andarci troppo per il sottile. Sgarbi invece affronta il tempo, l’esistenza, il fotovoltaico, le pale eoliche, il padre. Evoca Celentano, parte con il “Dies Irae”. Il giudizio divino: è giù catastrofi, le Torri Gemelle di New York sbriciolate, le statue di pietra di Buddha fatte saltare dai talebani dell’Afghanistan, le scosse dirompenti dell’Aquila. E poi legge pagine a pagine. L’immancabile Pasolini, Carmelo Bene, Leo Longanesi.

Si canta pure: ed ecco piombare Morgan. Poi l’effetto sorpresa: prima il padre, poi il figlio di Sgarbi (si parla anche della madre e della sorella che pubblica libri). Accanto al monsignore, al giornalista dipietrista dalle scarpe improbabili che discetta sulla nuova mafia, e commenta la fine di un uccello dalle grandi ali abbattuto da una pala eolica. Il tutto in mezzo al casino. Buchi, tempi ritardati, mancanza di ritmo, Sgarbi sempre più innervosito. Mentre legge l’ennesimo testo sbotta: fate silenzio. E già! il telespettatore sente le voci della platea. Ma è tardi. La catastrofe sta divorando tutto. Si spengono le luci. Meglio staccare la spina.

Era necessaria questa sconfitta annunciata? Non lo era. Dato il clima attuale non c’è spazio per un programma di informazione politica alternativa. Non sono replicabili “Annozero” o “Ballarò” in una veste diversa. Programmi dalla conduzione sicura, sorretti da tempi giusti e facce giuste, scaricano tutta la loro forza contro un nemico precostituito. E se non funziona la politica, figuriamoci la cultura. “Ci tocca anche Sgarbi” voleva farci vedere una cultura diversa? Non scherziamo. Venti minuti di chiacchiere inutili sul padre. E manca pure una sedia, così Sgarbi si deve sedere in terra. Poi arriva un grande, Gavino Ledda. Lo ricordate? “Padre padrone”. Anni cinquanta, Sardegna che sembra l’Ottocento, o forse il Settecento. Il piccolo Gavino vuole andare a scuola, leggere e studiare, scrivere e parlare. Ma no. Il padre non ne vuol sapere. Entra il classe, lo strappa via dal banco. E lo reclude con le pecore: pastore. Gavino addosso a quel “padre padrone” scarica un romanzo bestiale. Cronaca letteraria di un’infamia nell’era nuragica. Ma Gavino è un grande. Suo padre si chiamava Abramo, e quando anche lui ha un figlio, lo chiama Abramo. Il perdono è dei grandi. E più grandi sono i crimini, più grande è colui che sa e riesce a perdonare. Non dimentica ma perdona.

Bastava far vedere la ricostruzione della scena del “ratto scolastico” fatta dai fratelli Taviani (il loro film vinse nel 1977 la Palma d’oro a Cannes). Sarebbe così andata in scena la memoria e il perdono, e magari il monsignore in sala avrebbe potuto dire due parole appropriate e sensate. Questa è la cultura. Sgarbi l’aveva nel suo programma sgangherato. Non ha capito perché le sue orecchie sono attente ad altro. Scrutano mondi diversi. La sua cultura ha poco di liberale, moderato,  cristiano, nonostante ripetutamente sostenga il contrario. La sua è una cultura dell’invettiva, della provocazione, dello scontro. Una cultura del narcisismo.

Se c’è il ring Sgarbi dà il meglio di sé (che poi è il peggio). Ma cambiando campo da gioco si sgonfia. Meglio chiudere “Ci tocca anche Sgarbi”. C’è toccato solo per poco.