Si può prendere sul serio il Partito Democratico?

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Si può prendere sul serio il Partito Democratico?

23 Aprile 2007

Considerare i due congressi quasi paralleli dei Ds e della Margherita come l’ennesima montagna che partorisce un topolino sarebbe non soltanto ingeneroso, ma soprattutto sbagliato. È vero che dal punto di vista programmatico i due congressi (che comunque erano epiloghi e non fondativi) hanno prodotto una sorta di tautologia: “il Partito Democratico è la sinistra e la sinistra è il Partito Democratico”, che non si capisce bene quale sarà la collocazione del nascente Pd nello schieramento politico europeo e nella politica internazionale. Se si vuole si può perfino aggiungere che manca a tutt’oggi di un leader riconosciuto da tutti come tale, che sui temi della famiglia e della tutela della vita la sua posizione è tutt’altro che definita ed univoca, e che le modalità di selezione della classe dirigente sono ancora indefinite. Si tratta di incertezze, o forse di furberie, più o meno analoghe a quelle che riguardano il “governo dell’economia” in uno stato che fa parte dell’Ue e che è inserito nella complessa trama di un mercato internazionale concorrenziale ma senza la capacità di attrarre innovazione e capitali.

Indubbiamente ai leaders e ai gruppi dirigenti dei due partiti possono essere rivolte simili critiche ed anche quella secondo la quale il Pd sarebbe l’ennesimo escamotage con cui le sue due principali anime cercano di evitare di fare fino in fondo i conti col proprio passato, col presente e con l’imminente futuro. Ma non è il caso di dimenticare che tutte le difficoltà incontrate e i condizionamenti subiti nel tentativo di dar vita ad un nuovo schieramento avente tra i suoi principali fini quello di semplificare il quadro politico italiano dando finalmente vita ad una democrazia bipolare non condizionata fino alla paralisi dall’esistenza di cespugli e di minacciose ed invadenti graminacee.

Ma se così si ragionasse – magari mettendo in connessione il magro risultato col lustro abbondante di riflessioni di un’intellighenzia che dichiarava di ispirarsi alla parte spacciata come più nobile della tradizione politica italiana, e che si reputava moralmente ed intellettualmente superiore a tutto quello che è confluito nella Cdl – si commetterebbe un errore. Anche grossolano.

Anzitutto perché Ds e Margherita, nonostante tutto, la fusione (sofferta, ma pagando un prezzo tutto sommato contenuto come quello dell’abbandono di Mussi) son riusciti a farla pur senza disporre di un leader riconosciuto. Poi perché non serve a nulla sottovalutare le difficoltà che il processo ha incontrato pur annoverando tra i suoi fautori intellettuali e politologi, ad iniziare da Michele Salvati e da Arturo Parisi, che su quel progetto si sono spesi, con un entusiasmo non comune, fin quasi a bruciarsi e a non riconoscersi nel risultato finale. Ed infine perché un primo risultato c’è già.

Forse non è quello sperato dalla sinistra, ma ormai è chiaro che il Pd non può fare a meno di Berlusconi, e che la CdL deve confrontarsi con l’acerba novità. Sia pure lentamente, ciò finirà per produrre una semplificazione dello scacchiere politico di cui si è già reso conto lo sveglio Casini, e riguardo al quale Fini non nasconde una certa preoccupazione. Un dialogo tra grandi che come tali si riconoscono, dal quale ci si può aspettare, sia pure tra mille traversie e minacce, un ridimensionamento dei cespugli dell’una e dell’altra sponda.

Da un punto di vista contingente c’è pure da chiedersi se ciò potrà avere ripercussioni sulla revisione della legge elettorale e sulle altre e fantomatiche riforme di struttura di cui da decenni si parla tanto ma senza arrivare a nulla proprio perché ormai evidente che richiedono un consenso più ampio di quello, già difficile, che può faticosamente registrarsi all’interno dello schieramento sul momento al governo.

Se poi si guardasse al futuro non immediato del Pd vi sono aspetti che incuriosiscono: chi ne sarà il leader, come si realizzerà la convivenza tra ex comunisti ed ex democristiani, e come si articolerà il modello di rappresentanza e di selezione del ceto dirigente interno; ed altri che sollevano interrogativi meno legati al futuro politico dei singoli capi corrente.

Due principalmente. Il primo è se le difficoltà iniziali e le scissioni attuate e minacciate, oltre ad indebolire elettoralmente il partito e a dar vita, forse, ad ulteriori aggregazioni a sinistra e a destra, non saranno tanto forti da mettere in discussione la fusione tanto faticosamente raggiunta. In questa prospettiva, ad esempio, un risultato catastrofico alle imminenti amministrative sarebbe un segnale che potrebbe indurre i critici interni e i capi delle tante correnti e sotto-correnti, ad alzare la testa e ad avanzare critiche più radicali di quelle finora espresse per non porsi palesemente contro un processo che veniva accreditato con tutti i crismi della ‘storicità’.

Accanto a tale rischio vi è quello connesso alla difficile convivenza tra l’anima religiosa e l’anima laica della nuova formazione. Da questo punto di vista non si delinea nessun possibile sbocco. Sia pure con una prudenza contingente che finora ha evitato spaccamenti irreversibili, non si direbbe proprio che all’interno del Pd, e tra i suoi tanti intellettuali e politologi si stia delineando una sorta di soluzione riguardo al modo in cui si sta imponendo il tema dello spazio e della funzione della religione nella sfera pubblica. La convivenza delle due anime, legate alle formulazioni tradizionale del problema, rappresenta però un handicap che si farà tanto più grave quanto più il tema diverrà d’attualità. Magari incrociandosi con quello dell’atteggiamento da tenere riguardo ai complessi problemi dell’immigrazione e dell’integrazione. È evidente che una politica di compromesso interno in tali campi rischia di diminuire l’appeal elettorale della nuova formazione per dare un vantaggio significativo alle costellazioni che si pongono alla sua sinistra e alla sua destra.

Senza poi dire che qualora la percentuale elettorale raccolta dal Pd non fosse nettamente superiore a quella dell’insieme dei partiti che sostengono il governo Prodi, questi finirebbero per esercitare un’azione paralizzante nei confronti del Pd.

Ma il nodo strategico centrale è quello ideologico. Fuori dalla tautologia enunciata da Fassino resta incerto cosa il Pd in realtà sia. Se si dovesse dar credito a quanto emerso in occasione delle vicende Autostrade-Albertis e Telecom, e al connesso richiamo alla preminenza dell’interesse nazionale, ma anche alle vicende bancarie (vicende sulle cui conduzioni non si sono manifestate radicali contrapposizioni tra gli esponenti dei Ds e quelli della Margherita; fatte salve le critiche radicali di Franco Debenedetti e di pochissimi altri), viene da pensare che l’ideologia comune sia quella di un governo dell’economia tramite norme, Authorities e condizionamento politico.

Stigmatizzata da Ue, ambasciatori Usa, ex commissari europei, oltre che dall’opposizione, quella di minacciare il cambiamento delle regole in corso di operazioni di mercato che vedono coinvolti attori sgraditi al governo, non è soltanto una prassi deprecabile che i mercati internazionali puniscono non investendo nei paesi nei quali si manifesta, ma è l’espressione plateale di un vuoto di teoria.

Non si intende certo dire che si tratta dello stesso processo di controllo che caratterizzava il dirigismo nazista (proprietà privata dei mezzi di produzione ma assetti proprietari, obiettivi e regole decisi dalla politica in un contesto di pressione fiscale alta), ma dello sbocco inevitabile del non aver saputo trovare un modello di politica economica con cui sostituire quello delle nazionalizzazioni comuniste e quello dell’irizzazione democristiana. Ed è in questo campo che l’inadeguatezza del progetto Pd si mostra in maniera talmente chiara da allarmare persino quegli imprenditori che pure lo avevano visto con favore ed anche incoraggiato.

Qui siamo veramente al vuoto, e a preoccuparsene sono ormai tutti. Da quanti lamentano lo strapotere politico economico delle banche, a quanti si preoccupano del fatto che ci stiamo trasformando in un mercato di consumo in cui l’innovazione latita e la popolazione invecchia, a quanti vedono in questo processo un lento ma inesorabile erodersi dei margini di libertà individuale e i prodromi di un devastante scontro tra generazioni.

Il futuro del Pd, in altre parole, appare legato alla sua capacità di riuscire a dare una risposta plausibile alla domanda cosa possa esserci, diversamente dal mercato concorrenziale aperto, oltre il socialismo. La credenza che si possano ampliare a dismisura i diritti e le cosiddette libertà civili entro un quadro di rapporti di potere tra politica ed economia come quello che si sta delineando col governo Prodi, si configura appunto come una scommessa che, se si fosse posseduta una risposta alla domanda iniziale, forse non si sarebbe fatta. Che questo vuoto possa essere colmato dai politici appare dubbio, che possano colmarla gli intellettuali di riferimento è invece possibile, anche se forse non con questi politici. Anche perché quelli emergenti non sembrano possedere né ricette migliori, né orizzonti più ampi di quelli della generazione che in qualche modo, e più o meno tardi, dovrà farsi da parte.

Tuttavia, ciò detto, la vicenda del Pd rimane un prezioso esempio, e una conferma, di quanto sia difficile oggi dar vita in Italia ad una nuova formazione politica. E non è detto che quanti vorranno in futuro cimentarsi in un’impresa analoga non si troveranno di fronte problemi forse diversi ma comunque di non facile soluzione.