Siamo proprio sicuri che anche la Cina verrà colpita dalla crisi?

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Siamo proprio sicuri che anche la Cina verrà colpita dalla crisi?

13 Febbraio 2009

 

Ma la crisi è arrivata anche in Cina? La domanda circola ormai da un po’ di tempo tra gli esperti di economia. Una risposta non è semplice. Il governo di Pechino, ultimamente, ha diffuso dati allarmanti, che però bisogna saper interpretare e soprattutto inserire in un ragionamento di più ampio respiro, per evitare prematuri de profundis al boom cinese di inizio millennio.

Negli ultimi mesi, in effetti, sono emersi segnali di malessere. La crescita del Pil viaggia sotto il 10% (soglia minima che, negli ultimi anni, ha garantito 20-30 milioni di nuovi posti di lavoro necessari per evitare tensioni sociali). Ma è pur sempre intorno all’8%, cifra che in Europa o negli Stati Uniti oggi è impensabile.

Alla fine del mese scorso, invece, abbiamo seguito la triste parabola di 20 milioni di contadini, che hanno abbandonato le città senza più un lavoro. Mercoledì l’ultima mazzata: secondo l’amministrazione doganale di Pechino, a gennaio le esportazioni sono calate del 17,5% su base annua. Alle importazioni è andata ancora peggio  (-43,1%).

Di fronte a un elenco del genere, la conclusione appare scontata: la crisi è globale e frena persino le esportazioni delle merci a buon mercato fabbricate in Cina. Dove, contemporaneamente, non esiste una domanda interna adeguata alla produzione, visto il numero elevatissimo di poveri. Questa, però, è solo una parte della verità. Se mettiamo altre ‘carte’ sul tavolo, il quadro complessivo cambia.

Prima di tutto è bene ricordare che la Cina non è tutta uguale. C’è il sud, che produce i cosiddetti ‘consumer goods’ (beni di consumo), paralizzato dalla crisi perché non trova più sbocchi nell’export verso gli Stati Uniti. Così molte le fabbriche manifatturiere e di giocattoli del Guandong chiudono. 

Ma c’è anche il nord, dell’industria pesante o delle migliaia di piccole e medie imprese, che continua a crescere a velocità sostenuta. Da quelle parti i clienti pagano con puntualità mentre le banche, che in Cina non hanno problemi di liquidità o di ricapitolizzazione, prestano soldi alle aziende senza difficoltà.
C’è di più, a proposito di banche. A gennaio i prestiti sono stati il doppio di 12 mesi fa, toccando la cifra record di 185 miliardi di euro. Evidentemente è stata recepita l’esortazione dello Stato (che controlla la maggior parte degli istituti di credito) ad aprire i forzieri per rivitalizzare l’economia.

Ma le sorprese (liete) per la Cina non finiscono qui. Uno studio del ministero della sicurezza sociale dice che, adesso che le feste sono finite, ben il 65% delle aziende pubbliche è in grado di offrire un lavoro ai tanti disoccupati degli ultimi tempi.

Inoltre, persino nel mese orribile di gennaio, la Cina per la prima volta ha superato gli Stati Uniti nelle vendite di auto. Un risultato storico (735mila vetture immatricolate contro 656mila), anche se il merito è soprattutto del crollo vertiginoso americano (-34%).

Chi è ottimista sulle sorti dell’economia cinese aggiunge altre due considerazioni di grande peso. La prima è che la Cina, che in questi giorni ha tra l’altro rilanciato ambiziosi investimenti in Africa e Arabia Saudita, può approfittare della recessione che, per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, tocca contemporaneamente Stati Uniti, Europa e Giappone. La seconda è che solo da metà anno si vedranno gli effetti del piano di ‘stimolo’ da 600 miliardi, definito dal governo a fine 2008.

L’equazione su cui punta Pechino è semplice: più infrastrutture produrranno più posti di lavoro, i quali aumenteranno i redditi, che a loro volta faranno salire i consumi. Tutto, dunque, parte dalle grandi opere, che si possono così riassumere:
– raddoppio delle linee ferroviarie, da 60 a 120mila chilometri

– ricostruzione del Sichuan distrutto dal terremoto

– riforma sanitaria (da 125 miliardi in tre anni, che significa nuovi ospedali ma anche nuovi medici)

– 138 nuovi aeroporti in 5 anni

Ma, visto che l’obiettivo finale è aumentare i consumi interni, il governo ha avuto un’altra idea: distribuire meglio nel corso dell’anno le vacanze nazionali. Per una nazione di instancabili lavoratori, ma anche per i 30 milioni di persone che ogni anno emergono e diventano classe media, quale modo migliore per spendere, finalmente, i soldi guadagnati e spingere i consumi?