Siamo tutti orfani di Don Gianni

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Siamo tutti orfani di Don Gianni

08 Maggio 2009

Altri, che hanno conosciuto e lavorato nei decenni a fianco don Gianni Baget Bozzo, scriveranno di lui con più piena informazione e cognizione di causa. Ma non voglio mancare ad un atto di omaggio e di vera riconoscenza, di fronte alla sua morte.

La nostra conoscenza personale era minima. C’eravamo incontrati nel 1997, dopo l’estate, per la presentazione a Firenze di uno dei suoi libri più importanti, Il futuro del cattolicesimo. Era difficile, allora come oggi, specialmente nella Firenze cattolica, convenire con don Gianni che quasi esordiva scrivendo: “Il male oscuro che minaccia i cattolici [dopo aver sconfitto il razionalismo, il moderno, il totalitarismo, il comunismo] sono i pensieri, apparentemente religiosi, ma di un altro spirito, che li circondano, e vogliono convincerci che vi è un solo nemico da cui la Chiesa debba difendersi: la Verità pensata, detta, conosciuta. Per questo male oscuro [la Verità sentita come “nemico” di un’umana modernità cattolica], tutti i pensieri sono componibili con il Cattolicesimo, la distinzione tra ortodossia ed eresia è peccato cristiano, da cui derivano crociate e inquisizioni. [Per questo male oscuro] per essere cattolici, bisogna riflettersi in pensieri non cattolici”.

Diagnosi perfetta, che coglie una cultura diffusa, oggi ancora più che una dozzina di anni fa, fin nei quadri parrocchiali militanti e nei loro maestri italiani, cattolici e “laici”. Oggi, in più, si è abbandonato in sede ecclesiale l’appellativo “cattolici”; i cattolici virtuosi sono “cristiani”, le parrocchie cattoliche sono “comunità cristiane”, principi e valori sono naturalmente “evangelici”. Galleggiamo in un evangelismo postmodern, liquido, in cui “riflettersi [doverosamente e meritoriamente] in pensieri non cattolici [ma naturalmente cristiani]” è dato per scontato, come l’aria che respiriamo. Non è da stupirsi, allora, se anche in intelligenze dotate il cattolicesimo ha “la forma dell’acqua”.

Ero stato invitato a presentare il libro per “mediare” tra don Gianni e quella Firenze. Ma nessuno del mondo cattolico “criticamente” qualificato venne alla presentazione, tuttavia gremita di pubblico. Sintomatico e banale che questo accadesse; sintomatico perché banale. Il futuro del cattolicesimo era, e resta, un saggio magistrale; non intenderne la forza, la verità, era già allora suicida per la cultura cattolica che si sottraeva al confronto con Baget Bozzo come, non tanti anni prima, aveva evitato quello con Augusto Del Noce, con cui il libro bagetiano sul cattolicesimo era in originale continuità.

Devo dire però, e ne accennai nella presentazione, di non aver amato (né allora né nei decenni precedenti)  il Baget Bozzo del decennio tra Chiesa e utopia, 1971, e Il futuro viene dal futuro, 1982. In quella stagione il suo allineamento a temi e diagnosi della “sinistra conciliare”, cui anch’io avevo appartenuto, era stato molto forte, anche se frutto di reciproci equivoci.

Nel 1997, consumata nel dramma ed anche lasciata alle spalle la milizia socialista, don Gianni era così distante dalle sue tesi passate da averne perso la memoria come di cosa ancora propria. E lo disse apertamente, nel dibattito, a chi gli sottolineava le differenze. Distante dal significato che venticinque o trent’anni prima aveva avuto la denuncia della separazione tra la linea escatologica (pura, salvifica) e la linea sacrale nella Chiesa (quella dell’alleanza tra sacro istituzionale e potere) e simili topoi. O dall’affermazione (del 1982) che, “in Italia non si dà una realtà di Chiesa profetica, (…) la Chiesa appare sempre più come gerarchia, che (…) riduce la silenzio sia la teologia che i movimenti ecclesiali”.

Nella polemica del ‘97 contro “i professori di teologia [o i liturgisti, dirà subito dopo, che] in quanto tali non sono in grado di nutrire la vita spirituale del fedele”, vi è più che una notazione condivisibile dai “professori” stessi; vi è l’abbandono di ogni consentaneità ideologica con quella teologia che quindici anni prima aveva denunciato “condannata al silenzio” (!) dalla Chiesa gerarchica. Così come le pagine critiche del ‘97 sulla riforma liturgica (ricordo solo: “era caduto [nella riforma della messa] con la pratica del sacro il sentimento dell’adorazione, che veicolava l’amore mistico per la Presenza”) sono distantissime da Sacro e mistico dell’82.  Diversamente da coetanei come dai più giovani aveva saputo e voluto cambiare disegno e criteri di diagnosi dell’attualità storica. Si era genialmente sottratto alla geremiade programmatica cattolica (contro “entità inafferrabili come il consumismo, l’edonismo, la tecnologia stessa”, com’egli stesso dice) messa al posto della cultura politica,  e al destino nihilistico, ancora oggi in atto, della fase “mistica” del progressimo cattolico.

Nulla perdendo (anzi) della forza progettuale, o della Speranza storica cristiana, Baget Bozzo aveva appreso dalla grandiosa reformatio di papa WojtyÅ‚a a restare fedele al proprio genio divergendo ormai sistematicamente dalle diagnosi “critiche” con cui le sue potevano essere confuse. La sua dura, costante, attenzione alle forme cangianti dell’ egemonia del nichilismo non è mai, per questo, battaglia moralistica contro “entità inafferrabili”.

Non sono in grado di valutare quanto a questo esito abbia contribuito negli anni Ottanta anche il realismo modernizzatore e, per ciò stesso, non utopizzante, della sua dedizione intellettuale e politica al progetto craxiano. Ma tutto costituisce un bel tema di riflessione, per il rinnovamento di una teologia politica cristiana.