Siamo uomini o dinosauri?

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Siamo uomini o dinosauri?

Siamo uomini o dinosauri?

30 Novembre 2008

In questo piccolo e denso volume Aldo Schiavone, noto anche al grande pubblico per essere a capo del SUM (Istituto di Scienze Umane con sede a Firenze e a Napoli), si pone domande importanti che ci riguardano tutti da vicino. Oggi, infatti, noi esseri umani ci troviamo a essere non solo immersi in un mondo tecnologicamente denso, ma esautorati da ciò che è specificamente umano (ossia pensare in modo storico), superati dalla velocità dell’innovazione, sostituiti da uno sviluppo intelligente che non ci appartiene. L’evoluzione si separa così dalla naturalità della specie umana e diviene solo mentale: la storia della vita sarà orientata d’ora in avanti dall’intelligenza. Il nostro corpo sarà superato, reso superfluo, dissolto. La morte non esisterà più come esperienza umana sia nel senso della sopravvivenza indefinita sia nel senso di stati intermedi come una unica intelligenza indipendente dai singoli corpi. Di fronte a tutto questo, Schiavone è spinto a riflettere sul rapporto che esiste fra storia e destino, fra caso e necessità, o – detto altrimenti – fra il percorso vitale e mentale dell’essere umano inserito nella linea lunghissima che la specie umana ha tracciato a partire dalle sue origini, e la possibilità per la prima volta concreta per la specie umana di essere messa in scacco dal suo stesso sviluppo: quella linea di evoluzione si prolunga normalmente in avanti e disegna un solco nel quale le vicende umane si collocano. Così andavano le cose finora, ma potrebbe non essere più così. Forse, non è già più così e semplicemente non ce siamo accorti.

Il punto da cui Schiavone parte è una osservazione che è sotto gli occhi di tutti: la diversa velocità alla quale procedono lo sviluppo della tecnologia e l’evoluzione dell’uomo. Questa lentissima, quasi impercettibile; l’altra velocissima e travolgente. Nella accelerazione che la tecnologia ha impresso alle comunicazioni, alla produzione, ai consumi, sta l’elemento estraneo a noi esseri umani: non solo non siamo in grado di tenere il passo, ma da quella accelerazione siamo letteralmente disgregati, sradicati, frantumati. A un certo punto dell’evoluzione che ha dato luogo all’uomo si è formata una “intelligenza in grado di manipolare il mondo esterno secondo un progetto e una tecnica”. Questo caratterizza l’uomo: siamo “l’unica cultura del pianeta capace di un autentico sviluppo del proprio pensiero” e capace di manipolare il mondo esterno. Ora questa tecnica enormemente sproporzionata rispetto all’uomo mostra l’essere antiquato (come avrebbe detto Günther Anders) dell’uomo: è la tecnica ad avere fini consapevoli, mentre l’uomo sembra nato per caso e privo di avvenire predicibile. Soprattutto, per caso sembrano apparse le sue doti uniche. Si crea così una inversione tra specie umana e tecnica per la quale l’apparato che doveva servire la specie umana secondo i suoi scopi è divenuto una attività finalizzata, e, al contrario, della specie umana non si scorge né il progetto né il proseguimento. Si crea anche una dissociazione tra specie umana e futuro: la nostra attenzione va solo a un presente sempre più effimero, vissuto come passaggio da cogliere fra mutamenti che si verificano nella sua immediata prossimità minacciandone la durata, e non riesce più a pensare il futuro. Impossibile, in questa situazione, anche solo ipotizzare una qualche idea di sviluppo, evoluzione, progresso. Già, perché mentre la scienza moderna ci aveva semplicemente detronizzato dalla nostra centralità mettendoci ai margini dell’universo, quella che viviamo oggi è una vera e propria inversione di ruoli che fa fuori ciò che caratterizza in modo essenziale la specie umana.

Seguiamo l’autore nella considerazione che, per quanto la scienza non riscontri nella presenza umana alcuna realizzazione di un progetto consapevole dello scopo a cui tende, tuttavia “non possiamo nemmeno fare a meno di considerare il costituirsi della nostra specie come un risultato eccezionalmente importante dal punto di vista evolutivo, né evitare di legare – sia pure sul filo della sola storia – l’insieme delle contingenze che per una quantità innumerevole di volte hanno giocato a nostro favore nel percorso che ci ha fatto arrivare dove siamo.” Ma se anche ammettiamo questo, non ci è consentito passare d’emblée dal caso al finalismo. Per l’autore, invece, molti casi per noi vantaggiosi sommati insieme fanno un fine, un’idea ispiratrice alla quale tendiamo, un progetto che la storia realizza. Anzi, fanno un destino, il destino, il nostro destino. Per chi sappia leggerlo, naturalmente.

Come si vede, sono le grandi domande sulle quali ha sostato e si è divisa la filosofia fin dai presocratici. Domande senza risposta, dal momento che quello che è importante probabilmente è porle e non trovare certezze. Ciò che convince meno in questa riflessione è il modo in cui queste domande sono poste stavolta. Prima di tutto, parlare di Tecnica con la maiuscola è stato un atteggiamento che ha caratterizzato la filosofia della tecnica per tutto il secolo scorso, e non ha dato grandi risultati conoscitivi: la Scuola di Francoforte in Dialettica dell’illuminismo e altre opere ha reso questo modo di trattare il problema esemplare e lo ha coniugato con l’identificazione del sistema tecnico con la società occidentale capitalista del proprio tempo. Altri autori hanno declinato la diagnosi pessimistica sulla tecnica: da Jaspers con le sue riflessioni sull’uomo-massa preso nel vortice di un mondo di oggetti e prestazioni a Heidegger che ha reso il discorso sulla tecnica paradigmatico e l’ha collegato con la metafisica occidentale, da Spengler che vi ha visto un segno importante del tramonto dell’Occidente a Anders che vi ha tessuto attorno la più dolente meditazione sull’uomo superato dalla tecnica. Forse inevitabile e filosoficamente motivata, questa riflessione critica non è servita affatto a comprendere meglio le tecniche svariate che fanno parte della nostra vita, che servono a produrre, a comunicare, a spostarsi, a istruirci e divertirci. Poco hanno fatto comprendere anche del mondo (moderno, e cosa sennò?) che a quelle tecniche ha dato luogo: si sono limitate a condannarlo in modo complessivo, radicale, senza appello, considerandolo un sistema totalitario, oppressivo, fagocitante e automatico, indipendente cioè dall’uomo.

A maggior ragione ai giorni nostri ci sarebbe bisogno di una considerazione seria e approfondita della tecnologia, delle tecniche, che usiamo in ogni aspetto della nostra vita, e non di una invettiva apocalittica sulla Tecnica che cancella l’Uomo. Anche perché tale invettiva è l’ennesima e non riesce a essere originale rispetto alle altre: di scomparsa del futuro aveva già parlato Koselleck anni fa, di perdita della memoria discutono a giorni alterni giornali, riviste e trasmissioni televisive mentre ci narrano per l’ennesima volta la storia del nostro passato. E ancora, la critica alla tecnica, che è stata l’esercizio preferito di alcuni grandi filosofi del passato alle prese con un mondo che non piaceva loro, riprende vecchi paragoni tra il mondo della mano e l’universo della macchina, nell’onda lunghissima delle reazioni provocate dalla rivoluzione industriale (prima, seconda e terza). Affermare che di tutto questo ha colpa la globalizzazione è ormai non più di uno stanco riflesso. E l’intelligenza collettiva è doc come il Castelmagno, e proprietà privata di Pierre Lévy. D’altra parte, la fine della storia è stata il cavallo di battaglia per almeno un decennio di Fukuyama e del postmodernismo. Secondo Schiavone infatti la storia finisce, termina qui, è impossibile. Questo vale sia per la storia futura sia per quella passata, per quella fatta e per quella da fare, per l’historia rerum gestarum e per le res gestae. Il presente è oscuro; e, perduto il passato, si perde anche il senso del rapporto fra passato e presente, fra presente e futuro.

Mai come nella nostra civiltà si è invocata tanto la memoria del passato, mai si è considerato il passato come qualcosa da conservare, proteggere, venerare. Mai si è lamentata tanto la perdita (che sarebbe in corso a causa della tecnica) della memoria. Ma ogni periodo storico in parte dimentica quello che l’ha preceduto: è fisiologico che sia così. Se restassimo troppo attaccati al passato, non avremmo neppure la capacità di vivere, di sopravvivere, di mutare. Sono i popoli proiettati nel futuro, e perfino un po’ incuranti di ciò che è vetusto, che sono divenuti grandi potenze. La lezione della quarta Inattuale, nella quale Nietzsche legava la giovinezza storica alla grandezza di una nazione, forse è da rimeditare.

Quanto alla Tecnica e alle sue malefatte, continuiamo a pensare che sarebbe opportuno scomporla nelle varie tecnologie che la compongono. Sarebbe anche il caso di distinguere la tecnologia dalla tecnica: la prima industriale e scientifica, la seconda artigianale e tradizionale. Perché nel nostro mondo esistono entrambe. Ma abbiamo l’impressione che chi riflette sui massimi problemi non abbia alcun interesse a occuparsi di questioni specifiche, determinate, diverse nel loro funzionamento e nelle loro caratteristiche. Lanciare invettive sul mondo che ci circonda dalla postazione informatica alla quale lavoriamo dà una soddisfazione molto maggiore.  

L’affermazione che l’epoca che viviamo è unica, la tesi della “eccezionalità assoluta della condizione che si sta preparando per noi, con la sua esplosiva combinazione di rischi e di opportunità sinora inconcepibili”, è stata spesso attribuita al proprio tempo: ogni età si è sentita unica a suo modo, ma sovente nel senso della eccezionalità in negativo, quella che precede una catastrofe. Così gli apocalittici del passato. Quelli del presente sottolineano l’angoscia, l’imprerscrutabilità, l’arresto del presente, la sua perdita di senso. Descrivono una serie di superamenti con un misto di paura e liberazione: il mondo di domani sarà post-moderno, post-naturale, post-sessuato, post-mercantile, post-democratico. Potrebbero essere smentiti da qualunque sguardo su un passato anche prossimo: siamo certi che le altre epoche comprendessero se stesse e scorgessero un senso al loro procedere? Davvero le epoche che venerano il passato vedono meglio il futuro? L’ansia per minacce incombenti è spesso stata la fedele compagna della specie umana, e per mutamenti che oggi ci fanno sorridere: il passaggio dalla radio alla televisione, l’avvento del cinema, l’invenzione della diligenza, la sostituzione di questa con il treno, o del treno con l’automobile. Tutti cambiamenti vissuti come distruttivi e insensati. Tutti cambiamenti ai quali siamo sopravvissuti e che possiamo guardare con simpatia, gratitudine, trovando in essi perfino una direzione di sviluppo.

Il pensiero apocalittico è un pensiero aristocratico, convinto di saper scorgere ciò che i più non vedono. Fa riferimento al passato, alla tradizione, ma li decontestualizza fino a far perdere loro ogni significato: il paradosso dei neo-apocalittici è che, a differenza dei vetero-apocalittici della prima metà dell’Ottocento, non hanno un archetipo di riferimento, non rimpiangono il mondo di ieri ma solo frammenti di quel mondo: i frammenti isolati, però, perdono il loro valore originario. Lamentano la fine dell’uomo, della comunità, del bene comune, della libertà, dell’autoderminazione, ma sia ciò che rimpiangono sia ciò che propongono sono evocati in vitro e non seguiti fino in fondo nei loro legami reciproci e nelle loro conseguenze politiche.

Il pensiero apocalittico è un pensiero senza regole e disciplina, che si propone di sovvertire il modo usuale di pensare anche quando ripete tesi già sostenute molte volte o rispolvera luoghi comuni. “Non possiamo restare sempre prigionieri di vedute rigorosamente limitate”, afferma Schiavone. “Vi dovrà pur essere chi rintraccia connessioni su un raggio più ampio, insegue fin dove possibile la linea dell’orizzonte, e rende evidente la presenza di tendenze che attraversano il tempo e danno una ‘forma’ alla storia, l’affiorare di grandi strutture di senso.” Sia. Ma fra l’uscire dai limiti e il triplo salto mortale senza rete ci sono molte misure intermedie. E’ nella mancanza di ogni limite che saggi come questo trovano la loro cifra e il loro senso: l’unico che sia possibile rintracciarvi.

A. SCHIAVONE, Storia e destino, Torino, Einaudi, 2007, pp. 109, euro 8.