“Silvio forever” è un album di ricordi. Ma la storia del Cav. è un’altra cosa
27 Marzo 2011
È un’apologia di Berlusconi. Macché, è l’ennesima demonizzazione. È un po’ l’uno e un po’ l’altro. È se c’è tutto, il bianco e il nero, il buono e il cattivo, il santo e il perverso, l’onesto e il disonesto, allora vuol proprio dire che non c’è niente. Gli ottantasei minuti di montaggio di immagini di repertorio che compongono “Silvio Forever”, regia di Roberto Faenza e Filippo Macelloni, scritto da due vecchie volpi del giornalismo come Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, alla fine non indignano né fanno spellare le mani.
“Draquila” di Sabina Guzzanti lo scorso anno colpiva duro, senza troppi giri di parole. Il “mostro” si aggredisce, si sbrana, lo si insegue, lo si bracca, non gli si dà tregua. E poi tutti i colpi, anche i più meschini e scorretti, sono utili pur di metterlo fuori gioco. In “Silvio Forever” non si usa la clava o la mazza ferrata, ma il fioretto. La punta della penna non è bagnata dal sangue, ma dal rosolio. Per carità, l’armamentario anti-berlusconiano viene utilizzato tutto. Da Marco Travaglio che al comico Daniele Luttazzi ricorda come i soldi del giovane imprenditore edilizio Berlusconi gli arrivino da provenienze ignote, sino alle avventure di Patrizia D’Addario e “Ruby rubacuori”. Non c’è passaggio importante che non venga rispolverato. Ma è solo la rivisitazione di un album di ricordi: Previti, Dell’Utri, Confalonieri, Letta, Fede. Tutti dovrebbero finire accanto all’amico nel mausoleo di Arcore.
Ci sarebbe dovuto stare anche Indro Montanelli. Ma il “vecchio”, come ci ricorda una spassosa “narrazione” di Travaglio (una volta era anche meno incazzato, è più divertente), declinò l’invito. Per fortuna non ci viene rammentata la storia dello stalliere di Arcore. E i fratelli della Loggia P2, e altre amenità. Vediamo però la minorenne Ambra Angiolini, e i vecchi Mike e Raimondo Vianello invitare dagli schermi di Mediaset a votare nel 1994 per Berlusconi, appena sceso in campo.
Proprio qui, nella televisione, sta uno dei punti davvero deboli del documentario “Silvio Forever”. Agli autori il protagonista appare come l’incarnazione autobiografica della nazione. Berlusconi è un venditore straordinario e un inarrivabile personaggio della commedia dell’arte. Insomma recita. E come tutti i grandi istrioni del palcoscenico, sa interpretare tutti i ruoli: costruttore e barzellettiere; tycoon televisivo e cantante; dirigente calcistico di primo piano e seduttore di tardone; politico sulla scena internazionale e amorevole padre di famiglia. Sempre un giudizio di Indro Montanelli riassume alla perfezione il punto di vista di “Silvio Forever”: è il più grande piazzista del mondo. Ormai Montanelli è diventato il passepartout dell’interpretazione di Berlusconi uomo, imprenditore e politico. Non viene mai preso in considerazione che Montanelli non solo aveva qualche debito di riconoscenza con Berlusconi (per i debiti ripianati del “Giornale”), ma sbagliò clamorosamente la mossa, fondando un quotidiano fallimentare e ritrovandosi, lui “anti-comunista viscerale” (così lo definivano i comunisti) a raccogliere applausi alle Feste dell’Unità. Non è forse Montanelli il giudice più sereno dell’avventura politica di Berlusconi.
Ma c’è poco da fare. L’anti-berlusconismo ha ridisegnato la tradizione culturale della sinistra. Dunque, seguendo l’oracolare intuizione del giornalista di Fucecchio, l’arte di recitare (e di sedurre) Berlusconi l’ha sempre praticata. L’ha fatta fruttare ricchezze nel ramo dell’edilizia milanese, ma poi è arrivata la televisione. Ovviamente anche su questo terreno Berlusconi ha imbrogliato, ricordano gli autori, contando sui favori di Craxi. Ma non è questo il problema. Con la televisione commerciale Berlusconi ha costruito il gregge, pascendolo e nutrendolo. Dopo, quando è stato il momento di cambiare cappello e passare in politica, il gregge lo ha seguito. Ed è quel gregge ancora oggi a tenerlo in vita. La televisione commerciale è stata una nicchia di lusso per modellare e dialogare con un paese di furbi, divoratori di risorse, poco inclini al rispetto della legge e della cosa pubblica, spregiudicati e culturalmente arretrati. Un paese di borghesi piccoli-piccoli, conservatori e pantofolai, teledipendenti e familisti, pronti ad iscriversi all’improbabile loggia massonica, come faceva Alberto Sordi nell’omonimo film di Mario Monicelli del 1977, pur di garantire un posto di lavoro al figliolo un po’ scemo. Il grande interprete della commedia dell’arte è diventato così il “leader massimo” di una maggioranza nazionale affetta da degenerazione morale.
Naturalmente questo non è stato né Berlusconi né il berlusconismo. Ma Roberto Faenza, Filippo Macelloni, Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo (assieme ad un‘estesa compagnia) ne sono convinti. Non lo affermano sguaiatamente, né ricorrono all’insulto. E di questo gli va dato atto. La loro è cronaca, spesso brillante, perlopiù sonnolenta. La storia è altra cosa.