Sindrome del crac e sindrome  del boom: le malattie di Pd e Pdl

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Sindrome del crac e sindrome del boom: le malattie di Pd e Pdl

09 Giugno 2009

Caro Direttore,

ti scrivo mentre osservo Piero Fassino in tv affermare che “c’è un consolidamento del Partito democratico e un arretramento del centrodestra rispetto alle politiche dello scorso anno”. Considero Fassino una delle persone più serie e intelligenti del Pd e per questo non voglio battere la facile via dell’ironia, accantono il paradosso e la sorpresa per cercare di esplorare le ragioni di queste sue parole. Non trovandole nei numeri (sono sotto gli occhi di tutti e non mi pare il caso di ripetere ciò che hanno scritto i giornali stamattina) ho provato a usare delle chiavi nuove per aprire la porta del pensiero fassiniano. Lo stesso mazzo di chiavi cercherò di usarlo per schiudere i cancelli dell’inconscio che alberga nel Popolo della Libertà.

Il pezzo è un movimento in tre tempi: premesse, conclusioni e mosse.

Premessa 1. La Sindrome del crac. Un partito che esulta dopo aver perso sette punti rispetto alle politiche del 2008 (33/26) evidentemente temeva un tracollo di proporzioni più ampie. Nel Palazzo circolavano nei mesi scorsi sondaggi che davano il Pd al 22%, il punto più basso toccato dalla gestione di Walter Veltroni. Il dato finale delle Europee dunque sembra un successo, quando in realtà è un disastro, inserito in un ciclo continentale supernegativo per i progressisti. Ciclo che non sarà di breve periodo se si guarda il proliferare di liste di destra e il cono d’ombra culturale in cui si è confinata la sinistra. Il tracollo dei socialisti in Europa dovrebbe preoccupare moltissimo i dirigenti del Pd, ma così non è. Neppure di fronte al fallimento nelle amministrative il Pd riesce a muovere verso una salutare seduta di autocoscienza per capire come mai perda al primo turno 15 amministrazioni provinciali su 50 e si appresti a perderne molte altre nei prossimi 22 ballottaggi. E’ un crollo sul territorio di enormi proporzioni che sembra non scalfire la certezza che “il Pd ha tenuto”. Perché? Siamo entrati nel mondo della politica virtuale, dove non contano i numeri reali, ma quelli immaginati nei sondaggi. Questa bislacca interpretazione del voto è pericolosa: tra un anno si vota alle regionali e senza una seria analisi il Pd rischia l’immersione rapida alla profondità del 22% evocata dai sondaggi. Basta fare un raffronto – inimmaginabile fino a ieri – con il livello toccato verso il basso dai socialdemocratici tedeschi (21%) e dal Labour party inglese (18%). E parliamo di voti veri e non di sondaggi.

Conclusione 1. Degli spettri. Un Pd che non ragiona sulla sconfitta finirà per materializzare i propri spettri.

Premessa 2. La sindrome del boom. Il Pdl viene descritto “in frenata” dopo aver perso due punti rispetto alle elezioni politiche. E’ un crollo? E’ una sconfitta? No. Ci sono validissime ragioni per sostenere il contrario. Ma anche in questo caso ci troviamo di fronte a un’analisi proiettata su un contesto virtuale e non reale. Il Pdl, pur avendo messo a segno il più importante risultato dei conservatori in Europa, si sente meno solido e forte dell’Ump di Nicolas Sarkozy, celebrato vincitore delle elezioni con meno undici punti finali sul tabellino. E’ lo stesso Pdl che ha vinto a man bassa le elezioni amministrative, ma non riesce a capitalizzare questa vittoria nella comunicazione. Perché? Anche qui, la base di partenza sono i sondaggi: sappiamo che ne circolavano alcuni che davano il Pdl addirittura al 45%. Il dato migliore possibile visto il contesto sarebbe stato il 38%, ma si trattava in ogni caso di una previsione imprudente, perché il governo è in carica da oltre un anno, la “luna di miele” è finita da un pezzo, il ciclo economico è ancora di recessione. In queste condizioni il risultato complessivo del Pdl è ottimo, ma la lettura offerta è minimalista proprio perché l’asticella virtuale era alta. Qualcuno dirà “meglio così, non si fan squillare le trombe”. E infatti non siamo di fronte a una questione di fiati, per il domani serve l’armonia degli archi. Le vere elezioni di mid-term per il centrodestra saranno, infatti, le regionali: saranno il test per l’azione del governo e per l’identità del Pdl. Anche in questo caso, una seria analisi del voto dovrebbe basarsi sul risultato delle urne, sulla dinamica e la geografia del voto.

Conclusione 2. Dei sogni. Un Pdl che non ragiona sulla vittoria finirà per smaterializzare i propri sogni.

Mossa 1. Organizzazione. I partiti dovrebbero leggere meglio i risultati di queste elezioni perché quello che abbiamo appena cercato di descrivere non è uno stato immobile, mentre i partiti che vogliono essere un segno permanente nella storia della politica non sono né il solo tocco di un leader né riducibili in forme organizzative “leggere”. Anche i partiti americani hanno una struttura tutt’altro che liquida, pensate al semplice fatto che gli elettori per votare si iscrivono in un registro. Il Partito Democratico ha 72 milioni di elettori registrati, il Partito Repubblicano ne ha 55 milioni, gli elettori indipendenti sono altri 42 milioni. I partiti hanno una dimensione nazionale e locale ramificata, al loro fianco proliferano istituzioni che lavorano nella società e hanno i più vari scopi. Non in Italia. Qui il numero di iscritti ai partiti è una parte piccolissima rispetto al corpo elettorale, la presenza delle organizzazioni politiche sul territorio è totalmente inadeguata, per non dire in gran parte assente. Così il Pd attende un congresso e si accontenta di fare quattro salti sul satellite con YouDem, il Pdl ha celebrato la sua assemblea costituente ma oggi si rende conto (forse) di aver bisogno di un coordinamento pieno e autorevole e una struttura solida e autonoma per far funzionare una realtà che si avvia a guidare non solo il governo nazionale, ma gran parte del territorio. Anche qui, finora è stata la dimensione virtuale a dettare l’agenda. Si è vissuti da una parte con la mitologia delle primarie fatte in casa, dall’altra con l’idea solo catodica della mobilitazione quando s’aprono le urne. E poi? E’ chiaro che né il Pd né tantomeno il Pdl possono continuare ad essere una forma partito “leggera” o, peggio, veltronianamente “liquida”. Il Pd deve ritrovare la perduta via dell’organizzazione e provare – ci vorranno anni – a innovare il linguaggio dei progressisti per non essere svuotato di senso proprio da destra, com’è accaduto finora. Il Pdl vede crescere le sue responsabilità sul territorio e non può pensare di vincere continuamente le elezioni per assenza dell’avversario. L’immobilità è per entrambi un pericolo, alla loro destra e sinistra infatti ci sono due partiti in pieno assetto da sbarco: Italia dei Valori e Lega Nord. Chi dice che questi due soggetti non saranno mai capaci di lanciare un’Opa sui movimenti più grandi si sbaglia e non tiene conto dell’assetto istituzionale futuro del Paese: l’Italia diventerà federalista e immaginare il territorio diviso di fatto in macroaree è un esercizio di pensiero corretto. L’Italia di domani sarà unita nelle istituzioni centrali, ma i governi regionali conteranno sempre di più e non ci sarà forza nazionale senza potere locale. Chi sono alla luce di questo scenario i partiti meglio attrezzati? La Lega, senza dubbi, che fin dai suoi albori è “movimentista”; i partiti regionali come l’Mpa di Raffaele Lombardo; la stessa Idv di Di Pietro, che nel Mezzogiorno pesa parecchio. Organizzazioni e strutture capaci di attrarre i consensi delle “Piccole patrie” dell’Italia dei 100 campanili. È la storia d’Italia. Forse non sempre unificanti ma spesso disgregatrici e capaci di trarre slancio dalla naturale forza centrifuga del federalismo fiscale.

Mossa 2. Identità e progetto. Pd e Pdl sotto molti aspetti hanno problemi comuni e a tratti speculari. Uno deve gestire la sconfitta e rilanciarsi, l’altro gestire la vittoria e consolidarsi. Il primo non ha ancora un leader e cerca un’identità e un progetto. Il secondo ha un leader ma deve migliorare l’identità e il progetto. Nel Pd c’è un equivoco irrisolto tra anima postcomunista e popolare, nel Pdl un rapporto tutto da creare tra gli ex di Forza Italia e An. Nel Pd c’è un sulfureo Massimo D’Alema che fa origami dietro le quinte. Nel Pdl c’è uno scalpitante Gianfranco Fini che vuol fare futuro davanti al palcoscenico. Nel Pd ci sono alleanze variabili e friabili. Nel Pdl c’è un alleato in crescita e in movimento come la Lega. Il Pd è in preda a forze centrifughe per assenza di potere. Il Pdl è nel pieno di una forza centripeta perché ha il vincolo del potere. In estrema sintesi: il Pd è all’opposizione, mentre il Pdl governa.

La situazione non è cristallizzata, la politica dovrebbe fare lo sforzo per niente sovrumano di immaginarsi nel futuro prossimo: in Italia nel 2030 l’aspettativa di vita sarà di 84 anni per gli uomini e 90 per le donne, l’invecchiamento della popolazione e i bassi livelli di fecondità faranno scendere i residenti a 51,9 milioni. Possiamo pensare che i partiti restino uguali in un Paese che cambia? Si può fare per una volta il gioco contrario della politica e cioè immaginare non il bacino potenziale massimo di elettori, ma quello minimo? Le elezioni europee ci consegnano un Vecchio Continente pieno di sconfitti. I sondaggisti non calcolano quanto un partito può perdere, ma i politici hanno il dovere di farlo, proprio per uscire dalle urne nuovi e vincenti e non frastornati da un imprevisto che in realtà era sotto gli occhi di tutti.

*Mario Sechi è vicedirettore di Panorama