Siria, quale alternativa propongono i critici della politica estera trumpiana?
11 Ottobre 2019
C’è qualcosa di molto strano, per non dire di incomprensibile, nelle reazioni scatenate in Europa – e in Italia – dal parziale disimpegno deciso dal presidente statunitense Donald Trump in Siria, che ha favorito l’invasione turca nel Nord del paese, abitato dalla popolazione curda.
Innanzitutto, stupisce la sorpresa rispetto alla decisione del Commander-in-chief. Trump è stato eletto qualche anno fa alla Casa Bianca sostenendo in politica estera, così come in altri campi, la linea dell’America first: promettendo cioè ai suoi elettori che sotto la sua presidenza gli Stati Uniti sarebbero intervenuti militarmente nei focolai di conflitto globali soltanto laddove fossero in questione i vitali interessi nazionali, e si sarebbero viceversa ritirati dai fronti dove si combattevano le cosiddette “endless wars”: cioè le guerre in cui le amministrazioni americane erano entrate, ma che a distanza di anni non presentavano ancora alcuna prospettiva di risoluzione.
L’annunciato ritiro dal tormentato contesto siriano è assolutamente coerente con questa linea, che si contrapponeva sia all’interventismo neo-con della presidenza Bush che a quello più sfumato e oscillante di quella Obama. E si porrebbe in piena continuità con la gestione trumpiana di altre crisi: come, solo per citare le più recenti, la mancata rappresaglia dopo gli attacchi dell’Iran e dei suoi alleati yemeniti nel Golfo Persico e in Arabia Saudita, o la strenua trattativa per il disarmo nucleare con il dittatore nordcoreano Kim Yong-un.
Alla luce di ciò, lasciano ancor più perplessi gli innumerevoli commenti scandalizzati da parte di politici e media, che accusano Trump di avere abbandonato i curdi e di cedere alle mire espansionistiche di Erdogan.
Intendiamoci: è più che legittimo disapprovare il disimpegno americano. Anch’io ritengo che esso sia strategicamente sbagliato, e che possa provocare (stia già provocando) conseguenze molto negative non soltanto per i curdi, ma per gli equilibri complessivi di quell’area geopolitica, e dunque per gli interessi vitali dell’Occidente. Ma se si critica questa decisione occorrerebbe specificare, contestualmente, anche cosa si vorrebbe che gli Stati Uniti facessero, nel contesto siriano ed in altri analoghi. Molte tra le censure più indignate all’operato di Trump, infatti, provengono da chi ha pressoché sempre criticato gli interventi militari statunitensi, condannandoli come atti imperialistici e come un pericolo per la pace mondiale.
Condannare il disimpegno trumpiano su basi puramente emotive, abbracciando la retorica vittimaria del “popolo oppresso” di turno, senza proporre una strategia di politica estera alternativa coerente, credibile, potenzialmente efficace è soltanto un esercizio di ipocrisia. Si ritiene che gli americani debbano rimanere in Siria? Che la loro presenza sia necessaria per la difesa dei diritti umani dei curdi, così come dei siriani? Si ritiene quindi che in alcuni casi gli interventi militari statunitensi in quell’area siano giusti e necessari? Su quali basi? Entro quali limiti? Questo equivarrebbe a rivalutare, almeno in parte e a certe condizioni, la tanto vituperata strategia bushiana (e, prima, clintoniana) dell’interventismo in nome della democrazia e dei diritti umani? Se la si pensa così, onestà vuole che lo si dichiari apertamente.
E poi: è plausibile criticare Trump per il tentativo di divincolarsi dal rompicapo siriano senza dire una parola sulle responsabilità di chi ne ha posto le basi, e cioè di Barack Obama?
Qualunque opinione si esprima sul tentativo di ritirata attuale, non si può in ogni caso dimenticare che in Siria (come in Libia) è il predecessore di Trump ad aver promosso la destabilizzazione dell’assetto di potere vigente senza riuscire ad imporre un’alternativa, causando l’emergere di forze distruttive e sostanzialmente poi abbandonando l’area in balia di esse. E’ ad Obama e a Hillary Clinton che va addebitata in gran parte l’ascesa dell’Isis, con le terribili conseguenze che tutti conosciamo in termini di vittime civili. E’ innanzitutto a loro che vanno imputati il consolidamento delle posizioni russe nella regione, la crescente intrusione iraniana e la pressione turca. La presidenza Trump eredita questa difficile situazione, e non è facile certo ad oggi immaginare una soluzione “magica” alle contraddizioni in essa implicite. Ogni pedina mossa sulla scacchiera rischia di produrre ulteriori smottamenti nel delicato incastro tra attori ed interessi in conflitto.
Questo ci riporta alle domande di fondo. Quale dovrebbe essere l’obiettivo degli Stati Uniti in quel quadrante geopolitico? Quali sono i mezzi più efficaci a conseguirlo? A questi quesiti occorre fornire una risposta, prima di ergersi a giudici dell’attuale presidente americano.
Personalmente, continuo a credere che gli interessi nazionali statunitensi coincidano con la difesa degli ordinamenti liberaldemocratici laddove essi esistano, nonché con la salvaguardia della sicurezza occidentale nel suo complesso (alla quale ancora dovrebbe essere destinata la Nato), e che a tale fine non sia sufficiente – come Trump pare spesso ritenere – un mix di relazioni personali, lusinghe e minacce economiche, ma sia invece sempre necessario un certo grado di potenziale o attuale impegno militare, oltre che di impegno politico continuativo nella gestione concreta dei contesti di crisi.
Benché gli eventi degli scorsi decenni abbiano dimostrato che nel dopo-guerra fredda gli Stati Uniti non sono in grado – per un complesso insieme di ragioni economiche, militari, culturali – di essere il “gendarme del mondo” in una prospettiva unipolare, tuttavia realisticamente la sicurezza degli Stati Uniti – e quella di tutto l’Occidente – rimane incompatibile con una logica isolazionistica o con rapporti diplomatici concepiti come mero deal, o “do ut des”.
Nella fattispecie, per quanto gli Stati Uniti possano essere riluttanti alla prospettiva di “cavare le castagne dal fuoco” in Medio Oriente, non è pensabile che essi si limitimo a sorvegliare la situazione di quell’area a distanza, lasciando scoperti alleati vitali: come Israele, unico presidio liberaldemocratico occidentale nella regione; come i curdi (che hanno non soltanto fatto il “lavoro sporco” nella guerra contro lo Stato islamico, ma già molti anni prima hanno sostanzialmente salvato l’Iraq post-Saddam dal collasso costruendo un ordinamento solido e stabile nella zona da loro controllata); o come, più ampiamente, gli europei, che sono i primi in Occidente ad essere investiti dalle conseguenze dell’instabilità e delle guerre mediorientali. Ma a tale scopo sarebbe necessaria una politica americana non tanto più diplomatica e multilateralista, quanto più interventista di quella attuale.
Infine, appunto, l’Europa. Si rendono conto gli attuali critici di Trump che per quanto difettosa possa essere oggi la politica estera statunitense in Medio Oriente – e nel contesto siriano in particolare – gli americani continuano a supplire in un ruolo che, dal punto di vista geopolitico, spetterebbe innanzitutto ai paesi europei? E che l’Ue, come i singoli stati, è a tutt’oggi ancora manifestamente incapace di esercitare una qualsiasi autorità in politica internazionale in quell’area rispetto ad attori ben più decisi come Russia, Iran o la Turchia “neo-ottomana” di Erdogan?
Trump ha più volte giustificato la sua scarsa propensione a perpetuare un impegno militare statunitense nel Mediterraneo anche con la mancata partecipazione e collaborazione degli alleati europei in un campo, come quello della difesa, che attiene direttamente ai loro interessi fondamentali. Da questo punto di vista è davvero difficile dargli torto. E’ sufficiente guardare alle attuali posizioni degli europei rispetto all’invasione turca – una flebile condanna evidentemente spuntata in partenza dalla condizione di oggettivo ricatto nella quale essi si sono messi rispetto ad Erdogan per il suo ruolo di contenimento del flusso degli immigrati: ricatto che quest’ultimo perfidamente sottolinea – per rendersi conto di quanto la debolezza, l’ambiguità, la mancanza di responsabilità delle democrazie del vecchio continente rappresentino attualmente il perfetto pendant del neo-isolazionismo trumpiano, contribuendo, prima e più di esso, a rendere impraticabile qualsiasi prospettiva di fronte comune dell’Occidente.