Siria. Una rivoluzione vera, come in Iran nel 1978. Senza Khomeini, per fortuna

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Siria. Una rivoluzione vera, come in Iran nel 1978. Senza Khomeini, per fortuna

02 Marzo 2012

Le decine di migliaia di manifestanti che sono sfilati nel quartiere Jabroud e nel centro di Damasco, dieci giorni fa (cinque morti) hanno incrinato il controllo sulla capitale sull’unico bastione del regime. Contemporaneamente, il contagio è finalmente arrivato e si è radicato anche ad Aleppo, dove giorni fa le forze di sicurezza hanno sparato contro gli studenti che occupano l’università (tre morti). Homs intanto, continua incredibilmente a resistere alla pressione di un assedio feroce, al terrorismo nei confronti dei medici impediti di curare i feriti, in un contesto di crudeltà dei miliziani di Assad e di resistenza degli oppositori che riporta alla memoria –e non è una esagerazione- la rivolta di Varsavia del 1944. Un radicamento della protesta che porta ad una conclusione univoca: la Siria del 2012 è simile, se non uguale all’Iran della rivoluzione del 1978-’79, con poche –ma sensibili- differenze che però non intaccano il dato di fondo.

Non è una rivolta, come lo sono state quella tunisina, egiziana e yemenita; non è un conflitto tribale intrecciato con un golpe di palazzo come è stata la rivolta libica (che si è imposta solo e unicamente grazie alal forza militare della Nato, in caso contrario sarebbe stata schiacciata in poche settimane).

In Siria è in atto una rivoluzione, nel senso più pieno e anche tecnico del termine. Una rivoluzione che attraversa tutto il corpo della nazione, con chiare caratteristiche di classe, di poveri contro i ricchi. Una rivoluzione iniziata dai contadini affamati dalla siccità nella provincia di Deraa, che si è prima radicata nella provincia e che con lentezza si è imposta nelle città, là dove nelle ultime settimane persino le ricche famiglie sunnite (che controllano l’economia, là dove gli alauiti controllano partito Baath, esercito e Stato) caposaldo del regime, hanno iniziato a finanziare sottobanco i ribelli, alla ricerca di un salvacondotto.

Soprattutto una rivoluzione che mette in campo una straordinaria –per certi aspetti incredibile- forza politica avversa al regime, sì che il popolo siriano si domostra capace di sopportare il peso di 10-15.000 vittime civili (il doppio delle vittime di tutte le altre rivolte arabe sommate), in manifestazioni, scontri, piccole, ma vere e proprie battaglie militari, su un arco temporale che ormai si prolunga da 12 mesi, senza che la sua forza diminuisca. Anzi.

Il rilievo dato dalla stampa francese -Figaro, Le Monde, Libération- alle cronache siriane, le testimonianze raccolte, danno ampia conferma di questa analisi, che vede la stampa italiana stranamente distratta, con rare eccezioni.

Definire lo scontro in atto in Siria una vera rivoluzione, non è uno scrupolo lessicale, ma un passaggio di analisi indispensabile, non solo e non tanto per capire la sua possibile evoluzione, quanto per comprendere quello che può accadere nel paese e nella regione una volta che il regime di Beshar al Assad, come pare ormai inevitabile, sarà costretto alla resa.

Una rivoluzione popolare infatti accumula una massa critica di energia politica, di forza, forma una miriade di quadri intermedi e di leader, motiva non le centinaia di migliaia, ma i milioni di persone che le danno vita, per così lungo tempo, le anima di un tale spirito di vendetta per gli scherani e i gerarchi del regime, che questo insieme magmatico, questa massa critica, determinano poi il futuro del nuovo Stato, dei nuovi assetti, in modo destabilizzante non solo al suo interno, ma anche nei confronti dei paesi confinanti, per un lungo periodo a venire.

Questo è avvenuto nell’Iran khomeinista, questo non è avvenuto nelle rivolte, non rivoluzioni, di Tunisia, Egitto, Yemen e Libia, là dove, data in poche settimane la “spallata” a regimi marcescenti, dato spazio a putsch militari di palazzo, sempre e ovunque guidati dai principali ex collaboratori del raìs deposto, non toccati i tanti gangli occulti e palesi dei poteri forti,non ha impedito una certa continuità dei regimi. Continuità addirittura nelle élites di comando che hanno abbandonato per tempo il raìs contestato, palesissima nell’Egitto dominato dai generali riuniti attorno al feldmaresciallo Hussein Tantawi, evidente nella Libia con un Cnt che vede al vertice tutti stretti collaboratori di Gheddafi, con un quadro simile in Tunisia e nello Yemen. La dinamica politica di questi paesi è dunque tutt’altro che rivoluzionaria, ma vede il confronto/scontro tra le nuove istanze di democrazia e di istituzioni elettive (unico, debole risultato delle rivolte) e le vecchie èlites, innanzitutto militari, ben intenzionate a mantenere potere politico, controllo dell’economia, gestione degli eserciti.

La rivoluzione iraniana, per la violenza e la radicalità dello scontro, segnò invece la scomparsa totale e radicale di tutta la struttura dello stato Imperiale disegnato dai Pahlavi, l’epurazione feroce dell’esercito e il suo radicale ridimensionamento a favore dei Pasdaran, addirittura la spietata epurazione delle alte gerarchie sciite (a partire dal grande ayatollah Shariat Madari) e del corpo intermedio degli hojatoleslam e mullah non di cieca obbedienza khomeinista (circa 2.500 i religiosi uccisi nel dopo rivoluzione).

Qualcosa di simile accadrà in Siria, in un contesto ben più caotico di quello iraniano a causa della prima evidente, radicale, differenza tra le due situazioni: in Siria non agisce nessuna leadership vagamente comparabile con quella esercitata dall’ayatollah Khomeini.

Una differenza che pesa sui tempi e modi della rivolta, che rende più difficile quello che in Iran fu rapidissimo –la “egemonia” del movimento popolare sulle èlites, sugli strati alti della popolazione, pagata peraltro poi con purghe feroci- ma che offre –offrirebbe- uno straordinario spazio per una etero direzione del movimento rivoluzionario, se solo l’occidente se ne rendesse conto.

Ma né i paesi della Ue, né gli Usa si rendono conto dell’enorme spazio di manovra, dell’enorme influenza politica che potrebbero accumulare appoggiando alcune leadership che già operano sul terreno, con discreto seguito, sì che solo la Turchia di Erdogan, il Qatar dell’emiro Khalifa al Thani e l’Arabia Saudita di re Abdullah, stanno alacremente impegnandosi per rafforzare, definire ed eterodirigere questi leader.

Una inerzia, una carenza di analisi del fenomeno rivoluzionario, un verbalismo inerte che –di nuovo- ripete gli errori commessi da Jimmy Carter e dall’Europa nel 1978, come allora motivato da una paralizzante dottrina del multilateralismo che Barack Obama vive come paralisi, impossibilità di agire se non con il consenso Onu. Là dove non gli sarebbe necessario seguire le orme di George W. Bush, ma di Bill Clinton che il 24 marzo del 1999 costruì una coalizione imperniata sulla Nato che iniziò la guerra contro la Serbia di Slobodan Milosevic. Guerra assolutamente non coperta dall’avallo Onu (a causa del veto russo-cinese, che oggi blocca l’Onu sulla Siria), che portò nel 2000 alla caduta dello stesso regime di Milosevic.

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Come nella rivoluzione iraniana, e peraltro con meccaniche non dissimile dalla Rivoluzione dei Garofani del 1974 portoghese, elemento caratteristico della rivoluzione siriana è la spaccatura orizzontale delle Forze Armate provocata dalla rivolta morale di militari che hanno orrore dei massacri di cui sono stati partecipi, hanno disertato in massa e si sono schierati in armi con la rivolta.

E’ questo un fenomeno molto interessante, tipico esclusivamente di queste tre rivoluzioni (tutti gli altri esempi di spaccature rivoluzionarie di eserciti dal 1870 in poi sono avvenute in seguito a conflitti esterni, all’interno di dinamiche di guerra, mai in periodi di pace) stranamente poco messo a fuoco dagli analisti.

La figura del militare che ha ribrezzo di sé stesso, dei civili che lui stesso ha massacrato e che, in un contesto esterno di assoluta pace, diserta e si coalizza con altri disertori per rovesciare il regime ai cui ordini combatteva è di grande interesse politico nel suo percorso di maturazione, ed è anche di notevole interesse per la gestione futura del processo rivoluzionario.

In Portogallo, si sa, furono le forze armate con il Mfa ad abbattere il regime e a avviare la democratizzazione del paese a seguito del trauma di tutti i quadri intermedi, i capitani. (e di parte della truppa) conseguente ai massacri compiuti in Mozambico, Angola, Guinea e Capo Verde. Il maggiore Tomé, in Mozambico era stato aiutante di campo del generale Kaulza de Arriaga, un vero e proprio macellaio dei ribelli del Frelimo, dopo il 25 aprile 1974  assieme a Otelo Saraiva de Carvalho era nell’estrema ala sinistra del Mfa, e quando gli chiesi cosa avesse ribaltato la sua mente e la sua anima mi rispose: “compresi l’orrore che stavamo commettendo leggendo Pasolini e Vittorini”.

In Iran, nel 1978-79, le diserzioni continue, l’inaffidabilità dei reparti che si rifiutavano di continuare a massacrare i manifestanti, costrinse lo scià Reza Pahlevi a contare solo sugli Javedan (la Guardia Imperiale degli Immortali), che furono infine sconfitti sul campo in una vera e propria battaglia con gli avieri della caserma di Fahrabad, disertori fedeli a Khomeini.

In Siria il maggiore Riad al Asad ha disertato nel giugno 2011 con alcune centinaia (diventati nei mesi successivi, decine di migliaia) di soldati e ufficiali e il 29 luglio ha fondato in Turchia e con pieno supporto dell’esercito turco la Free Syrian Army, che ha ingaggiato con l’esercito regolare decine di scontri e le vere e proprie battaglie degli assedi di Deir Ezzor, Rastan,  Talbiseh e  Jabal al-Zawiya, regge da due mesi la forza devastante dell’assedio di Homs e ha portato a termine alcune operazioni spettacolari come l’assalto con razzi Rpg e mortai a due sedi dei Servizi Segreti a Damasco e una ad Hama.

La Free Syran Army gode sicuramente di un consistente appoggio logistico, della fornitura di armi leggere e di munizioni e dell’intero apparato di comunicazioni forniti dall’esercito turco e –secondo tutti i media turchi e molti media libanesi e arabi- anche dell’azione congiunta con commandos inviati fin dentro il territorio siriano dalla Turchia (Damasco sostiene di averne arrestati 15 in uno scontro a fuoco), dal Qatar, dall’Arabia Saudita e forze anche dalla Libia come afferma il comandante militare di Tripolli, il filo quatariota Abdulhakim Belhadj. Sicuramente,  anche sotto il profilo militare, la resistenza incredibile di Homs è dovuta all’appoggio, in armi, uomini e viveri da parte delle forze libanesi che fanno capo a Saad Hariri a partire daTiro e Sidone, distanti poche decine di chilometri (nonostante una frontiera siro libanese minata e per presidiata proprio per impedire queste infiltrazioni).

Questo quadro di intervento militare “coperto” e assolutamente unilaterale (questo è il dato politicamente più rilevante, perché prodotto dal fallimento del multilateralismo obamiano), è autorevolmente confermato da mesi da Debka, l’agenzia di informazioni ufficiosa del Mossad israeliano, che inoltre il 12 febbraio ha scritto: “Unità operative delle forze speciali britanniche e del Qatar stanno operando con le forze ribelli sotto copertura nella città siriana di Homs”.

Non esiste traccia della collocazione politica di Riad al Asad e del suo quadro di comando, è però evidente che oggi, ma soprattutto domani, questi militari che si stanno conquistando sul campo la leadership attuale e futura, saranno legati a filo doppio non tanto all’esercito turco, quanto al governo turco, senza il quale ben poco avrebbero potuto fare, Elemento questo di grande interesse per la determinazione della futura leadership del paese che vede peraltro l’attuale leader del Consiglio Nazionale Siriano Burhan Ghailun è –non a caso- molto vicino al partito turco di Tayyp Erdogan Akp (che ne ha imposto la leadership).  Poco chiaro, a oggi, il radicamento del Coordinamento nazionale per il cambio democratico (Ncb) guidato da Hassan Abdul Azim, che rappresenta l’ultima evoluzione del “socialismo arabo” di matrice laico-nasseriana che ebbe il suo leader in Jamal al Atassi, più volte tentato negli ultimi mesi ad un dialogo costruttivo col Baath (di cui fu di fatto una scissione) movimento palesemente concorrenziale sia del Cns che dei Fratelli Musulmani. Chiarissima invece la dipendenza dalle suggestioni saudite dei Fratelli Musulmani, guidati da Mohammed Riad Shaqfa, che vive da anni in esilio a Riad e che occupano la meta netta della direzione del Cns di Ghailun.

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La rivoluzione siriana potrebbe finire per costituire –il condizionale è d’obbligo- un inaspettato anticorpo, alla rivoluzione iraniana, e non perché è di marcata composizione sunnita e si contrappone al regime alauita (setta sciita), ma per il mutamento che indurrà negli equilibri regionali. Quando infatti cadrà il regime di Beshar al Assad, l’Iran degli ayatollah non si troverà solo azzoppato, letteralmente, nella sua area geopolitica di potenza, privo del raccordo strategico sul Mediterraneo con Hezbollah (e con Hamas), senza più un partner indispensabile per i suoi traffici di armi e terrorismo e per le triangolazioni commerciali per aggirare le sanzioni. La fine dell’alleato siriano innescherà anche e soprattutto un complesso effetto domino che porterà a un netto rafforzamento di quell’inedito asse tra partiti sunniti e partiti curdi che oggi costituisce in Iraq il più forte contraltare all’influenza iraniana sui partiti sciiti iracheni, rappresentata dalla politica oltranzista del premier al Maliki. Non solo: proprio grazie all’influenza dei due forti partiti curdi iracheni, l’eventuale, probabile, autonomia del Kurdistan siriano rafforzerà sensibilmente quella ribellione nel Kurdisatn iraniano che, a oggi, è la più grande fonte di instabilità per il regime per gli ayatollah.

Uno scenario determinato dal ribaltamento di tutte le previsioni apocalittiche  di chi criticava l’intervento Usa in Iraq nel 2003. Il Kurdistan iracheno, infatti, invece di trasformarsi nella variabile impazzita e destabilizzante per tutta l’area, a partire dalla Turchia, proprio grazie alla saggia rinuncia all’indipendenza da parte dei due leader Jalal Talabani e Massoud Barzani, ispirati dagli Usa, è diventato il baricentro di una forte alleanza politica con gli avversari di sempre: i partiti sunniti iracheni che hanno abbandonato, a loro volta, la loro rigida concezione di stato centralista.

Fonte di stabilità e sviluppo economico, anche grazie alla notevole statura politica di Talabani e Barzani, il Kurdisatn iracheno può agire quindi da baricentro per quella “trincea sunnita” che è la sola a potersi opporre all’espansionismo destabilizzante dell’Iran dell’ayatollah Khamenei, ancor più in caso di crisi successiva ad un intervento militare contro le centrali atomiche iraniane.

Con l’espansione alla Siria, questa area può diventare determinate nel calmierare le turbolenze iraniane e soprattutto disinnescare la vera, grande minaccia che l’Iran è tentato di scatenare per reagire all’assedio dell’occidente sul nucleare: una nuova guerra contro Israele a partire dal Libano.

A oggi, questo scenario –pur non ancora da escludere- pare ben difficilmente realizzabile. L’emorragia di disertori, lo sfinimento e le sanzioni dovrebbero ormai avere annullato qualsiasi capacità di iniziativa verso l’esterno delle Forze Armate siriane e quindi dovrebbero avere tolto ad Hezbollah quella copertura, indispensabile sia per un nuovo attacco contro Israele, sia per mantenere il controllo, la longa manus sul governo di Beirut.

Un quadro ancora incerto, dalle dinamich aperte, in cui è sempre più evidente l’impegno diretto dell’Iran a fianco di Assad. E’ nota e riscontrata da più fonti e testimonianze la partecipazione in Siria di squadre di pasdaran iraniani in funzione antisommossa. Ma  ancora più illuminante è stato l’invio, deciso dall’ayatollah Khamenei, del cacciatorpediniere Shahid Qandi e della nave di supporto Kharg che  hanno attraccato nel porto siriano di Tartus il 17 febbraio. Una dimostrazione di forza, ma anche un sostanziale supporto tecnico, perché le due navi hanno subito dispiegato le loro potenti attrezzature di oscuramento delle telecomunicazioni dell’esercito dei disertori siriani, fornite e gestite dalle forze armate turche. Una intensa guerra dell’etere, strategicamente vitale, in cui gli iraniani sono avanzatissimi (fu questo uno dei segreti –a sorpresa- della quasi sconfitta di Israele in Libano nel 2006), a cui  partecipano anche i russi. Le due navi iraniane sono infatti attraccate nel porto militare siriano di Tartus a pochi moli di distanza dalla portaerei russa Kuznetov e da due cacciatorpedinieri russi che operano attivamente nella stessa direzione di guerra informatica.

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Sul terreno di quanto è già oggi chiaro che accadrà in Siria quando cadrà il regime di Beshar al Assad, purtroppo si deve registrare la vita certo non facile che toccherà alla minoranza cristiana. Questo, si badi bene, non solo a causa del fanatismo delle frange estreme qaidiste (di cui però non vi è traccia ancora documentata), non solo a causa del fondamentalismo anticristiano della componente jhadista, ma anche –va detto con chiarezza- della aperta e per molti versi vergognosa complicità col regime dell’intera comunità cristiana siriana lungo tutti i lunghi mesi della mattanza baathista. Una ripetizione sciagurata dell’errore già compito dalla comunità cristiana irachena, complice –con alta, altissima garanzia di Tareq Aziz- sino alla fine dei crimini (ma anche degli eccellenti profitti economici) del regime di Saddam Hussein. Complicità per cui ha poi pagato un prezzo altissimo.

Rileggere oggi le parole del più alto esponente del clero cattolico (in Sira vi sono 11 chiese cristiane, 7 delle quali riconoscono il magistero del Pontefice di Roma) datate 11 maggio 2011, quindi dopo che già erano stati uccisi 2000 dimostranti, è risolutivo: ”Il presidente Bashar al Assad sta facendo bene, cerca di difendere il Paese, gran parte del popolo sta con lui, i cristiani lo sostengono e la repressione delle manifestazioni di protesta messa in atto dal regime nelle ultime settimane è questione di autodifesa. Fino ad oggi non avevano attaccato nessuno, ma dopo aver sopportato per un mese l’assassinio di poliziotti e soldati e l’aggressione a istituzioni ufficiali, credo che la polizia avesse il diritto di entrare in azione e unicamente come autodifesa, non mossa dall’intento di attaccare o uccidere persone. Possiamo affermarlo con obiettività. Qui i cristiani sono il 10 per cento della popolazione e stanno tutti dalla parte del presidente Assad. 

Quelli che manifestano vengono da fuori. Sono prezzolati e asserviti a interessi stranieri. Il 90 per cento della popolazione ama il nostro presidente e sta con il governo, come ha sempre fatto negli ultimi 20-40 anni. In definitiva il giudizio sulla Siria può essere positivo: abbiamo università e un buon sistema di istruzione. Certo, il gran numero di giovani laureati in cerca di un’occupazione è un problema reale, ma di ordine economico. Credo che nei prossimi mesi ci lasceremo questo momento di crisi alle spalle. Il presidente Assad, è un uomo molto amato, giovane e istruito, che lavora nell’interesse della Siria. Il nostro non è un Paese perfetto e come tutti gli altri siamo stati messi in difficoltà dalla situazione economica internazionale. Ma penso – conclude mons. Audo – che lui stia facendo molto bene e difenda il nostro Paese con grande dignità”.Parole che fanno ben comprendere come mai Assad abbia sostituito il suo ministro della Difesa alauita Ali Habib (si dice che fosse contrario all’eccesso nelle stragi di civili) con il generale cristiano Dawud Rajha.

Solo il 12 dicembre 2011, i tre patriarchi di Antiochia (siro-ortodosso, greco-melkita cattolico e greco-ortodosso) che hanno  sede a Damasco e l’Assemblea della gerarchia cattolica in Siria hanno espresso la loro profonda preoccupazione per la situazione in Siria con toni diversi, anche se sempre in aiuto al regime, con la richiesta di revocare le sanzioni internazionali. Lo stesso monsignor Audo, ha cessato di lodare Assad e di definire “prezzolati dagli stranieri” i manifestanti, ma le chiese cristiane (tranne qualche rara eccezione) rimangono ancorate ad una posizione mediana, di condanna delle violenze di tutte le parti. Una posizione politicamente cieca (quando non è stata apertamente cinica) che avrà pessime conseguenze in un futuro.

(tratto da Il Foglio)