I soldi, l’Europa e l’interesse nazionale sono cose serie!
26 Luglio 2020
In questi ultimi giorni sembrava di sognare. Un sogno dalle sembianze di un incubo. Da un lato l’epopea della “nuova centralità” dell’Italia in Europa, come se 26 Paesi bloccati a parlare dei nostri guai, compresi gli ex regimi comunisti dell’est, fossero un motivo di vanto e non qualcosa di preoccupante. Dall’altro un dibattito interno per metà ideologico e per metà dettato da tatticismi politici, senza alcuno spazio per i dati di realtà.
Quest’ultima, invece, nella sua complessità è piuttosto semplice. Il nostro Paese, non da oggi, a dispetto delle sue enormi potenzialità è gravato da una debolezza strutturale per il debito pubblico abnorme accumulato nei decenni e nelle generazioni e mai seriamente aggredito con politiche di abbattimento. E’ entrato per primo in Occidente nel girone infernale del Covid e ne è uscito per ultimo, anzi a dire la verità non è ancora uscito dalle sue conseguenze sia istituzionali che economiche e chissà per quanto ancora non ne verrà fuori. In questi mesi ha già contratto debiti straordinari per un centinaio di miliardi ma i ripetuti scostamenti di bilancio, per manifesta inettitudine degli inquilini della cabina di comando, non hanno prodotto neanche lontanamente gli effetti sperati in termini di ripresa. Sicché gli scenari sono allarmanti e l’autunno si preannuncia fosco. L’unico asset che la pandemia sostanzialmente non ha potuto scalfire è quello del risparmio privato, cornucopia di tutti i governi comunisti.
In questo quadro, come giudicare gli strumenti finanziari messi in campo dalla UE per il post pandemia?
Io credo che il metro debba essere uno soltanto: quello dell’interesse nazionale. Che non può essere declinato né in base a un acritico europeismo, che faccia finta di non vedere le controindicazioni e, in termini più generali, la debolezza di una costruzione che fin qui ha rassomigliato più a un comitato di burocrati che non a una comunità di destino dotata di un nucleo di potere politico condiviso; né in base all’impostazione ideologica opposta, che faccia finta di non sapere che stiamo messi male e che, presentandoci in Europa con reddito di cittadinanza, monopattini e la sfilata di Rocco Casalino sul red carpet, non è facilissimo dare torto a chi pretenda qualche garanzia prima di socializzare il debito.
Tradotto in termini pratici: nel valutare l’opportunità di avvalersi del Mes e/o del Recovery Fund (strumenti piuttosto differenti fra di loro), bisognerebbe evitare gli opposti paradossi, con gli uni a negare che i prestiti europei implichino condizionalità pesanti e rigorose (che invece ci sono eccome), e gli altri a interpretare le condizionalità stesse come un attentato alla sovranità nazionale. Con buona pace dei supporter dell’attuale presidente del Consiglio, farlo notare non significa essere anti-italiani ma l’esatto contrario.
La verità è che la partita, anche al di fuori dei nostri confini, è eminentemente politica. Se per la prima volta, con il Recovery Fund, è stato accettato il principio della mutualità del debito, la ragione non risiede in un improvviso attacco di filantropia ma nella consapevolezza, maturata soprattutto dalle potenze più grandi, che il passaggio è cruciale e l’alternativa sarebbe stata fare a meno dell’Europa in un contesto geopolitico planetario nel quale la massa critica di uno Stato nazionale, se non è delle dimensioni della Cina, degli Stati Uniti o della Russia, difficilmente è in grado di reggere la competizione globale.
In questo quadro, l’Italia dovrebbe approfondire, valutare e alla fine decidere in termini di esclusivo interesse economico nazionale di cosa avvalersi e di cosa no. E, nel caso in cui ci si orientasse ad accedere a qualcuna delle linee di credito in gestazione a Bruxelles, solo nel Paese dei balocchi le istituzioni comunitarie potrebbero varare un prestito così rilevante nei confronti di uno Stato così inguaiato senza pretendere qualche garanzia di entità proporzionata.
Soprattutto, ci vorrebbe una visione per capire cosa fare eventualmente di questi soldi e come impiegarli fruttuosamente per ripartire. Per comprendere, in sostanza, di quanto denaro abbiamo bisogno, come intendiamo procurarcelo, cosa farne, quali sono le condizioni reali alle quali il Paese sarà comunque sottoposto e qual è l’alternativa nel caso in cui si optasse per una soluzione domestica alla crisi in corso.
Il punto è che il nostro debito pubblico è gigantesco e il nostro risparmio privato lo è altrettanto. Prima di dire di no, nella consapevolezza che il momento è duro e lo sarà in ogni caso, bisogna evitare di dimostrarsi troppo affezionati al primo per poi assistere inermi a un attacco senza precedenti al secondo. Insomma, valutiamo laicamente le proposte europee. Sapendo però che, a debiti già contratti, oltre la strada di un rigore parzialmente eterodiretto potrebbe esserci soltanto l’alibi a uno dei governi più rossi e più inadeguati di sempre per realizzare l’eterno sogno della sinistra: la patrimoniale. E non è una bella prospettiva.