Soldi pubblici ai giornali, per qualcuno la cuccagna sta per finire
10 Dicembre 2009
Un salto in avanti e due passi indietro. Da sempre, quando il governo di turno tenta di riformare il sistema di finanziamento ai giornali di partito e a quelli editi da cooperative e comincia a ipotizzare tagli all’editoria e riduzioni delle provvidenze dirette, si attiva una sorta di contraerea trasversale che, attraverso gli ottimi argomenti della salvaguardia del pluralismo informativo e di tanti posti di lavoro in pericolo, riesce magicamente a far mantenere lo status quo.
È avvenuto anche stavolta. Il ministro dell’economia, Giulio Tremonti, ha annunciato che il diritto soggettivo ai fondi pubblici per l’editoria, cancellato dalla finanziaria, sarà ben presto ripristinato, anche se “con un con un nuovo regolamento che garantirà trasparenza e salvaguarderà le testate storiche e politiche che sono un patrimonio storico, politico e culturale”. Un impegno preso direttamente con i direttori di Liberazione, Europa, l’Unità e il Secolo d’Italia, accorsi in batteria dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, considerato ormai un autentico oracolo bipartisan, di cui si fidano ciecamente anche i rifondaroli più convinti.
Si tratta, a dire il vero, di una marcia indietro a metà, perché non è dato sapere la sorte di quelle testate che “patrimonio storico e culturale” non potranno essere considerate.
Il modello italiano di sostegno alla carta stampata, si sa, è un caso praticamente unico: incassano i munifici bonifici governativi testate di ogni genere e tipo, dai giornali legati a partiti anche piccolissimi e fittizi a cooperative vere o presunte, da testate sportive a foglietti scarni che fingono di avere lettori per ottenere il finanziamento. Di fatto, in nessun altro paese il sostegno ai giornali si manifesta in maniera diretta, con elargizione di soldi a intervalli regolari. A fronte di tutto questo, in compenso, è noto però che l’aggravio maggiore alle casse dello Stato avviene per causa del finanziamento indiretto ai giornali più grandi, che di solito si manifesta tramite un forte alleggerimento delle spese postali, e che finisce per avvantaggiare quelle testate che, bene o male, hanno comunque mercato.
Nessuno, dunque, può ergersi a paladino della moralità, su questo argomento. Nessuno o quasi, visto che a dispetto della riduzione dei lettori di giornali e della crisi che attanaglia il settore, tra i quotidiani che hanno debuttato recentemente nelle edicole sembra andare di moda la rinuncia nobile e spontanea a qualsiasi contributo statale. Ha fatto così Il Fatto Quotidiano di Padellaro e Travaglio, che gode dell’attenzione di buona parte della gente che ha affollato Piazza San Giovanni sabato scorso, e ha fatto così anche Il Clandestino di Diaco e Crespi, il cui target di lettori disposti a pagare un euro e venti tutti i giorni è molto meno chiaro.
In ogni caso, nel decreto “mille proroghe” di fine anno o, tutt’al più, in quello di sviluppo che sarà varato a gennaio la situazione tornerà alla normalità. O quasi, visto che i giornali di partito sono i primi a voler togliere di mezzo le testatine sanguisuga, quelle che secondo Concita De Gregorio “hanno come ragione d’essere solo prendere i soldi pubblici”. E se questo repulisti che spazzerà via gli editori furbacchioni lascerà a casa anche un po’ di giornalisti e lavoratori, se ne farà una ragione persino la direttrice dell’Unità.