“Solo con il consenso informato possiamo garantire la libertà di scelta”
08 Luglio 2011
Il disegno di legge che discutiamo in quest’aula si intitola “disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento. Non è per un superfluo scrupolo lessicale che è stata scelta questa definizione, ma perché le parole hanno significati precisi, e quando diventano norma, è fondamentale che siano scelte con cura. Nonostante si parli spesso di testamento biologico, o biotestamento, questo termine non ha niente a che vedere con il testo che ci accingiamo a votare. Vorrei, almeno su questo punto, sgombrare il campo da equivoci. Con il testamento noi disponiamo di beni materiali in previsione della nostra morte, mentre con le Dat diamo indicazioni circa le terapie a cui vogliamo o non vogliamo essere sottoposti quando siamo ancora vivi, ma incapaci di esprimere le nostre volontà. E dispiace che qualcuno, anche in quest’aula, parli delle persone in stato vegetativo come di “larve” o di persone senza più “soffio vitale”: in realtà sono -lo dice la scienza, ma anche la semplice esperienza- persone in stato di gravissima disabilità, ma assolutamente vive, che possono spesso provare sofferenze, avere reazioni cerebrali insospettate, che possono intraprendere un percorso riabilitativo, e della cui condizione tuttora la medicina sa pochissimo. Ma anche le volontà testamentarie, da attuarsi quando non ci saremo più, sono sottoposte a condizioni: ci deve essere una firma certificata, e una quota ereditaria è obbligatoriamente riservata ai figli e al coniuge. Nessun giudice, nonostante si tratti solo di oggetti, e non della vita umana, sarebbe disposto a consentire che un bene passasse a un erede sulla base della ricostruzione della volontà ex post, magari tenendo conto degli “stili di vita” del testatore. Questo, invece, è quello che la magistratura ha stabilito per Eluana Englaro, che è morta perché un tribunale ha ritenuto che il principio di autodeterminazione può non passare dal consenso informato.
Tutti i giuristi che si sono occupati della materia, anche i fautori della più assoluta libertà di scelta sulla vita da parte dell’individuo, sostengono che le Dat, o anche il testamento biologico, derivano dal consenso informato e ne costituiscono un’estensione. Ma Eluana Englaro il suo consenso informato, al protocollo di morte per disidratazione a cui è stata sottoposta, non l’ha dato mai. Non solo non lo ha dato perché non ha lasciato una dichiarazione scritta, nemmeno un foglietto, una pagina di diario, una semplice annotazione. Ma perché non ha avuto mai un colloquio con un medico che le spiegasse cosa è clinicamente una condizione di stato vegetativo, e cosa significa morire disidratati. Quando firmiamo il consenso informato alla vigilia della più semplice delle operazioni chirurgiche, non possiamo rifiutarci affermando di averne già parlato a sufficienza a tavola con gli amici o a casa con i genitori. Né la struttura sanitaria né il magistrato riterrebbero sufficiente un consenso informato che non fosse stilato da un medico, e non contenesse informazioni precise e circostanziate sul trattamento a cui stiamo per sottoporci. Eppure sia nel caso di Eluana che in quello di Terri Schiavo, qualche parola casuale è stata considerata come una volontà chiaramente espressa, ed espressa sulla base di conoscenze sufficienti.
No, cari colleghi. Noi, da liberali, non siamo d’accordo. Non è affatto una questione di fede religiosa, come qualcuno ha tentato di sostenere, o di diverse visioni del mondo da conciliare. È piuttosto una questione di fondamentali garanzie per la persona, per la sua dignità e libertà, ed è una questione di laicità. L’interpretazione delle volontà anticipate data dalla sentenza Englaro ha infatti innescato un meccanismo paradossale: in nome del principio di autodeterminazione si è scavalcato quello del consenso informato. Tanto è fumoso, astratto, ideologico, poco verificabile il primo, quanto è concreto, circoscritto, controllabile e laico il secondo. Con questa legge noi per la prima volta stabiliamo per legge il principio del consenso informato, estendendolo anche a quando non siamo più in grado di esprimere le nostre scelte. È una legge di libertà, che applica e regola l’articolo 32 della Costituzione, e la Convenzione di Oviedo, quando prevede che bisogna tenere conto dei desideri precedentemente espressi dal paziente quando non sia più in grado di farlo.
Il consenso informato è la forma giuridica con cui possiamo garantire la libertà di scelta. Come è possibile, senza un consenso informato, affermare l’autodeterminazione? E se poi eleviamo l’autodeterminazione a criterio assoluto e inderogabile, come potremo negare che il suicida è certamente autodeterminato, e dunque ha diritto a scegliere la morte senza essere ostacolato o salvato, e anzi magari con l’aiuto dello stato? Se l’autodeterminazione fosse il cardine principale su cui legiferare, i reati di istigazione al suicidio e di omicidio del consenziente andrebbero rimodulati, e la morte dovrebbe essere considerata un diritto esigibile presso ogni struttura sanitaria. E’ questo, infatti l’obiettivo di alcuni: più chiaro ed esplicito in qualche caso, più mascherato in altri. Morire del resto è diventato un diritto esigibile in molti paesi, spesso sotto le spoglie di una “morte medicalmente assistita”. Lo abbiamo letto anche nell’anticipazione di un libro del professor Veronesi, nel quale si invita a non usare più il termine –troppo screditato- di eutanasia, ma ad ammettere finalmente che “anticipare la fine della vita su richiesta del malato inguaribile venga considerata una cura dovuta, e non un atto omicida da depenalizzare”. Anticipare la fine della vita venga considerata una cura dovuta: in questo modo il concetto di cura, così importante per le relazioni umane, così centrale per costruire i rapporti di fraternità e solidarietà tra gli uomini, viene completamente snaturato, e viene snaturato il concetto di alleanza terapeutica. Il nostro sistema sanitario, fondato sulla vocazione a curare e sul favor vitae, subirebbe una metamorfosi radicale e profonda, e così accadrebbe alla professione medica e al codice deontologico.
Tutti noi, in diversi momenti della nostra esistenza, siamo affidati alla cura di chi ci ama. Accade nell’infanzia, ma anche in qualunque momento di fragilità, solitudine o malattia. L’accudimento è un istinto di protezione del più forte verso il più debole, un istinto di reciproca solidarietà, di presa in carico amorevole dell’altro. In inglese si distingue tra “care” e “therapy”, mentre in italiano il termine cura ha un doppio uso semantico, vuol dire terapia e anche accudimento, ma distinguere è facile, perché ognuno di noi ne ha l’esperienza diretta. I gesti di cura non sono terapie, a prescindere da qualunque aiuto tecnologico. Non è terapia aiutare qualcuno a camminare se non ce la fa da solo, e non lo è nemmeno se usiamo un sostegno tecnologico, dal semplice bastone fino alla carrozzella. Non è terapia dare il latte a un neonato, anche se è latte artificiale, acquistato grazie a una ricetta medica, e somministrato con l’aiuto di un biberon. La sospensione di idratazione e alimentazione rappresentano, in questo senso, un confine evidente, una linea che separa nettamente il suicidio assistito e l’omicidio del consenziente dal rifiuto delle cure, anche anticipato. Ed è per questo, perché questo confine venga cancellato o perlomeno indebolito, che si insiste tanto sulla necessità di includere il rifiuto di acqua e cibo, in qualunque modo forniti, tra le opzioni delle Dat, come ha giustamente sottolineato l’on. Binetti. Non esiste una patologia per cui idratazione e alimentazione costituiscano la terapia elettiva, ma la persona a cui vengano sospese, che sia sana o malata, muore: dal diritto a scegliere le terapie si passa in questo modo al diritto di morire.
Si ribatte: non si tratta solo di autodeterminazione, ma di un gesto di pietà, di carità. Si rovesciano le categorie etiche a cui siamo stati educati: aiutare a morire è un gesto pietoso, chiedere la morte per qualcuno è un atto di carità, mentre è una forma di durezza e di costrizione cercare di sostenere la vita. Si parla di obbligo all’idratazione forzata, quando si tratta semplicemente di mantenere la situazione attuale. Si invoca la qualità della vita. Ma la vita non può essere associata a una categoria merceologica come la qualità. Se, con ogni buona intenzione, proviamo a farlo, applicando un criterio di valutazione soggettivo – cioè la qualità della vita stabilita da chi la vive- vediamo che il criterio diventa velocemente e inevitabilmente standard oggettivo, che passa nel senso comune e nella cultura. Se si accetta l’idea che la vita di una persona con forme di disabilità estrema o con gravi cerebrolesioni possa valere un po’ meno di quella di una persona sana, noi permettiamo che passi un principio pericoloso per la convivenza civile, e il rispetto dei diritti umani fondamentali.
L’altro punto del ddl che ha originato discussioni e polemiche è quello sulla vincolatività delle Dat nei confronti del medico. Il medico però, anche quando il paziente è cosciente, non è mai obbligato ad eseguire un trattamento se non corrisponde alle sue valutazioni in scienza e coscienza. E’ un principio assicurato anche dal codice deontologico, e infatti la Federazione degli ordini dei medici lo difende. Non si capisce perché il medico dovrebbe essere vincolato alle richieste del paziente proprio quando questi non è più cosciente, e quindi non può più ricevere spiegazioni e consigli che possano fargli comprendere meglio la propria specifica situazione clinica. Le scelte operate dal soggetto attraverso le Dat non possono che essere indicazioni generali, che vanno adattate e misurate sulla specifica e concreta condizione del singolo. Chi può farlo, se non il medico? Si ribatte, ma chi mi assicura che si terranno nel debito conto le mie volontà? In realtà il medico tenderà a eseguire i desideri espressi dal paziente, se non altro per il concreto e sempre crescente timore di contenziosi giudiziari, un timore che ormai ha portato alla cosiddetta medicina difensiva.
In molti, dentro e fuori quest’aula, hanno avanzato il sospetto che chi vuole questa legge in realtà intenda soltanto compiacere la Chiesa, magari per motivi di bassa politica. I fatti indicano il contrario. Il Parlamento, o almeno una sua parte, ha considerato fin da subito la sentenza Englaro come un’indebita invasione di campo da parte della magistratura, quando ancora il mondo cattolico era sostanzialmente contrario a legiferare in materia di fine vita. Forse è utile rievocare ancora una volta i momenti salienti della vicenda. Il presidente Cossiga, insieme ai senatori Schifani e Quagliariello, firmò già ai tempi del governo Prodi una mozione che non ebbe seguito. Nel luglio 2008, dopo la sentenza della Corte d’appello, fu sollevato il conflitto di competenze con la magistratura, ma la Corte Costituzionale non l’accolse, invitando piuttosto a legiferare in merito. Con le norme già in vigore non si è riusciti a impedire che Eluana fosse condotta alla morte per disidratazione e denutrizione, nonostante non ci fosse alcun obbligo giuridico a eseguire la sentenza (il decreto della Corte d’appello di Milano, che ha permesso di applicare la sentenza della Cassazione, era solo un atto di “volontaria giurisdizione” cioè autorizzava, ma non obbligava). Questo è accaduto nonostante un forte e tenace impegno del governo e della maggioranza: dopo la sentenza della Corte di Cassazione, i tentativi messi in campo per salvare la vita della Englaro, sono tutti falliti. Abbiamo invocato la Convenzione sui Diritti dei Disabili, che conteneva un articolo in cui si vietava di sospendere alimentazione ed idratazione alle persone con disabilità: inutilmente. Il Ministro Sacconi ha emanato un atto di indirizzo, ma l’esecuzione della sentenza è stata solamente rimandata, perché ci si è inventati una sorta di spazio sanitario extraterritoriale per la quale – secondo la magistratura – quell’atto non valeva. Quando Eluana è stata trasferita alla clinica “La quiete”, a niente sono servite le relazioni degli ispettori ministeriali e dei Nas che testimoniavano numerose irregolarità amministrative. Non è bastato neppure che un Consiglio di Ministri firmasse un decreto all’unanimità, ed Eluana è morta mentre il Senato discuteva d’urgenza un ddl composto da un unico articolo che impediva la sospensione di idratazione e alimentazione alle persone in stato vegetativo.
Ecco perché qualcuno vuole evitare di legiferare, lasciando ai giudici la materia. Una seconda sentenza della Corte di Cassazione, infatti, renderebbe praticamente impossibile tornare indietro attraverso un voto del parlamento. Ognuno di noi è chiamato prima di tutto a giudicare se la legge la debba fare il parlamento votato dagli elettori, o se la decisione sulla vita e la morte delle persone vada affidata ai tribunali. Io penso che dobbiamo assumerci questa responsabilità, perché è quello che il paese si aspetta dal Parlamento, e perché sono fin troppi anni che sono in corso tentativi di arrivare a una legge senza mai riuscirci. E’ nostro compito dare un esito legislativo a un dibattito che è in corso da almeno dieci anni, in particolare dopo casi che hanno turbato l’opinione pubblica. Non farlo significherebbe alimentare i dubbi dei cittadini sulla capacità dei propri rappresentanti, di maggioranza o di opposizione, di svolgere con efficacia il compito che è stato loro affidato. Fare una legge non è solo opportuno, è necessario: del resto è un impegno che abbiamo preso tutti insieme la sera drammatica della morte di Eluana Englaro, un impegno che anche le massime autorità istituzionali del paese ci hanno invitato ad onorare.
(Intervento alla due giorni di formazione "Per vincere domani. Famiglia e lavoro al tempo della sussidiarietà", promossa dall’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà – Roma, 18/19 novembre 2010)
* Sottosegretario al Ministero della Salute