Solo Gianni Vattimo poteva andare al Festival della Filosofia in Iran

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Solo Gianni Vattimo poteva andare al Festival della Filosofia in Iran

19 Novembre 2010

Compito più noto (a detta dei maligni, l’unico) dell’Unesco, agenzia culturale delle Nazioni Unite, è quello di riempire il calendario di “giornate mondiali”: della “diversità culturale”, “del libro e del diritto d’autore”, “della lingua madre” e via elencando. Non manca la “Giornata mondiale della Filosofia”, simposio planetario itinerante fra amanti della Sapienza provenienti da Oriente e da Occidente, che pur essendo una giornata, dura ben quattro dì. Per l’edizione 2010, che si terrà dal 21 al 24 novembre prossimo, la scelta del paese ospitante era sembrata a qualcuno poco saggia, trattandosi dell’Iran. È così capitato che l’Unesco si sia trovata costretta a ritirare il proprio patrocinio dopo il sollevarsi da più parti di voci sdegnate (in Italia quella della rivista “Reset”, in Francia quella del “nouveau filosophe” Bernard-Henri Lévy). In effetti sembrava un po’ contraddittorio benedire ufficialmente l’incontro mondiale fra esploratori del pensiero in un paese dominato da un regime difficilmente accostabile alla libertà speculativa ed al rispetto della dialettica interna ed esterna.

Dovrebbe essere quasi superfluo rammentare le violazioni costanti dei più elementari diritti umani praticate dalla teocrazia degli ayatollah e del presidente Ahmadinejad. Ma è bene ricordare, a mo’ di esempio, la sorte che toccò al filosofo Ramin Jahanbegloo: rinchiuso in una cella di isolamento del famigerato carcere di Evin, una cella bassa al punto da non permettere la stazione eretta ed illuminata ventiquattrore su ventiquattro. La sua colpa? Aver fomentato per mezzo dei suoi scritti, una “rivoluzione di velluto” contro la Repubblica Islamica. Fortunatamente la rivoluzione di Jahanbegloo era di velluto e non di cemento armato: se l’è cavata con soli quattro mesi di reclusione. Ha però preferito abbandonare l’Iran ed ora vive ed insegna in Canada. Anche lui era comprensibilmente rimasto un poco sconcertato dalla notizia del summit filosofico a Teheran. Chi non lo sarebbe stato? Quale filosofo, in effetti, accetterebbe a cuor leggero la discussione sui massimi sistemi o sulla ricerca di un’etica condivisa in un paese in cui le adultere rischiano la lapidazione e gli omosessuali la forca?

In realtà, uno, ben noto, italiano, ci sarebbe: Gianni Vattimo. Lui a Teheran andrà molto volentieri. Mica è pavido come l’Unesco, il filosofo piemontese; non si è arreso alle pressioni degli Usa, che con sfoggio di ironia socratica definisce “paladini del mondo libero”. Non si fa certo dettare agenda e speculazioni dialettiche dalla Cia e dalla sua “disciplina poliziesca”. In fondo, ha tenuto a rammentare, anche negli States vige la pena capitale e tante Sakineh marciscono ignorate dai media nel braccio della morte (che poi non succeda in tutti gli stati dell’Unione e non certo per scelte sessuali o religiose ma casomai per omicidio, saranno dettagli poco significativi, a suo parere).  

In effetti ci sono cose che il professor Vattimo non riesce proprio a prendere con filosofia: gli Usa, Israele (ovvero sempre gli Usa, dato che “la metà delle ragioni per cui non sto con Israele è perché sono culo e camicia con gli Stati Uniti”), il Vaticano ed il “puttaniere” Berlusconi.

Il professore deve la sua notorietà e gran parte dell’autorevolezza attribuitagli all’aver teorizzato “il pensiero debole”, la moda italiana filosofica degli anni ’80; ma è sfuggente nel pensiero quanto risoluto nelle scelte politiche. Certo, nel campo dell’impegno civile ha cambiato più volte casacca, ma mantenendo una certa coerenza di fondo. Cresciuto nell’Azione cattolica, dopo la laurea, gli studi in Germania, la cattedra prima dei trent’anni, contribuì alla ricostruzione morale e culturale dell’Italia postbellica muovendosi fra studi Rai torinesi e soffitte fumose con amici ora non meno famosi: Umberto Eco e Furio Colombo.

Dagli anni Sessanta affiancò il lavoro esegetico sui classici del nichilismo Nietzsche ed Heidegger alla lotta per i diritti degli omosessuali combattuta con il Partito Radicale. Dopo il crollo del Muro di Berlino, si scoprì, un po’ in ritardo, comunista. Timidamente in uno primo tempo, poiché aderì ai Democratici di sinistra; più convinto in seguito, si accasò fra i Comunisti Italiani di Cossutta e Diliberto. Dopo la scomparsa degli ultimi residui di Pci dal Parlamento, ha rimediato accettando nel 2009 la candidatura europea con l’Italia dei Valori. Ovvio che la stampa non si sia risparmiata nel fare ironia sull’improvviso feeling fra il raffinato filosofo che parla fluentemente l’idioma di Goethe ed il Tonino in trattore più noto per le carenze sintattiche nella lingua madre. Ironie fuori luogo; Vattimo apprezza nell’ex Pm “l’antiberlusconismo adamantino” e la sua “posizione da Cln” esternata con ardore dionisiaco di fronte alle telecamere.

Coerenza politica e lucidità non mancano nelle sue posizioni sulla politica estera. Ha sostenuto il boicottaggio dei prodotti israeliani, anche se non lo ha messo in atto giacché (è stata questa la bizzarra giustificazione) non si occupa di persona delle incombenze domestiche come riempire il frigorifero. Nonostante questa mancanza, evita il biasimo dei tanti compagni antisionisti con puntuali e meditate dichiarazioni: “non c’è un motivo perché Israele esista”, anzi, “gli ebrei starebbero meglio senza”. Ecco perché ha invocato, nel corso di un’intervista al Corriere, l’uso di missili più efficaci dei Qassam da parte di Hamas contro le città dei coloni sionisti.

Lo ricordiamo anche in prima fila, assieme ai “giovani” dei centri sociali che gli misero sulle spalle la bandiera palestinese, nel manifestare sdegno nei confronti del Salone del Libro torinese dello scorso anno, “provocatoriamente” dedicato alla cultura degli “sciagurati” israeliani. Guai accusarlo però di antisemitismo: risponde con un inconfutabile sillogismo aristotelico: “non sono antisemita perché amo Karl Marx” (forse la ripeteva anche Stalin perseguitando gli ebrei russi…).

Non stupiscono, a questo punto, altre sue recenti prese di posizione diffuse attraverso interviste, articoli e il posto d’onore fra i blogger presenti sul sito de Il Fatto quotidiano. Che dire dei cristiani perseguitati in Iraq e nel mondo islamico? Colpa del Papa, reo di aver sostenuto la politica di George Bush (quindi, sotto sotto, queste persecuzioni se le meritano, anche se non appartengono alla confessione cattolica…). Vattimo, fiero cristiano antipapista, rimpiange tra l’altro “che non ci siano stati i cosacchi a San Pietro”. Altri preziosi saggi di limpidezza mentale sono dedicati al centrodestra italiano: i suoi esponenti gli appaiono “moralmente repellenti”, quando vede Maurizio Gasparri gli capita di mettere in dubbio la sua appartenenza al genere umano. Non immune dal fascino complottista, considera l’11 settembre 2001 una gigantesca montatura ordita dai cattivi cow-boys, e l’aggressione di Tartaglia contro Berlusconi una astuta messinscena del regime (anche in questo caso è in buona compagnia). Aggiunse anzi che lo psicolabile col Duomo in mano avrebbe fatto meglio ad usare una pistola per essere più efficace. Forse più condivisibile il suo parere su Gianfranco Fini: “l’ultima speranza per la sinistra”.

Sono questi i frutti del “pensiero debole”, del nichilismo soft, dell’opzione postmoderna contro i dogmi del cristianesimo e dell’hegelismo, unica chiave, almeno così scriveva negli anni ’80, per la democratizzazione della società. C’era posto per Dio, anche se indebolito (la sua incarnazione non rafforzava e dignificava l’uomo ma svuotava di potenza il divino). Idem per Marx scoperto tardivamente e abbracciato in quanto “indebolito”, ovvero “epurato dagli sviluppi storici del suo pensiero, che vanno superati dialetticamente” (come dire, facciamo finta che non vi siano stati…).

Forse discuterà del barbuto di Treviri in quel di Teheran con i colleghi filosofi, o forse rispolvererà le sue interpretazioni di Nietzsche citandolo nell’originale tedesco (lingua che da quelle parti fa probabilmente un certo effetto). Nel caso il testo citato fosse il classico “Al di là del bene e del male”, potrebbe darsi che sorgano nuovi interrogativi. In fondo porsi al di là di questa distinzione presuppone l’aver ben chiaro cosa sia il bene e cosa sia il male. Può comunque telefonare al collega Jahanbegloo per sentirne il parere.