Sotto la scorza del cosmopolitismo di Joyce batte un cuore tutto irlandese
01 Marzo 2009
Secondo il poeta surrealista, nonché suo amico, Philippe Soupault, Joyce parigino “ogni giorno, ogni ora del giorno pensava all’Irlanda”. Andrew Gibson, inglese e prof di Teoria della Letteratura a Londra, in un ottimo e piuttosto revisionista studio biografico – intitolato semplicemente “James Joyce” – sullo scrittore di Dublino pubblicato mesi orsono da il Mulino, cerca di ribaltare il carattere tutto “cosmopolita” dell’ispirazione dell’autore dell’“Ulisse”. Il libro intende correggere l’idea di Joyce “fenomeno globale” che diventa prorompente a partire dal soggiorno parigino e che lo trasforma in una sorta di icona del nuovo. “La carriera parigina di Joyce”, scrive Gibson, “ lo lanciò sempre di più come uno scrittore modernista che per caso veniva dall’Irlanda, così come Picasso era un pittore modernista che sempre per caso proveniva dalla Spagna”. L’idea contraria che “Joyce fosse in realtà uno scrittore essenzialmente irlandese, che in primo luogo, anche se non esclusivamente, la sua opera fosse sempre e comunque legata alla storia, alla politica e alla cultura irlandese e che ciò che veniva considerato il suo aspetto modernista in origine esprimeva un programma centrato specificamente sull’Irlanda, non fu affatto, o solo raramente, presa in considerazione”.
Lo scrittore è così riportato alle sue dimensioni nazionali e alla sue radici. Un’operazione complessa eppure svolta con argomenti e con piglio incalzante. Il mettersi fuori dal suo paese, il sentirsi un esule non significa tout court aver scelto di sposare la causa “internazionalista”. Gibson ricostruisce i legami del giovane Joyce con le speranze autonomistiche di un pezzo della politica del suo paese. Un ruolo cruciale in proposito il saggista londinese assegna alla figura di Charles Stewart Parnell. Per chi scrive, “uno dei due grandi leader irlandesi dell’Ottocento, un orgoglioso, imponente aristocratico angloirlandes che conquistò non solo il rispetto timoroso dei suoi connazionali ma anche l’ammirazione di molti inglesi, soprattutto Gladstone”. Ma l’opzione Parnell non dura quanto sarebbe necessario. Il politico esce troppo in fretta di scena, messo fuori gioco da uno scandalo privato, a cui segue una repentina malattia. Allora, all’orfano Joyce non resta che l’esilio. E soprattutto l’opzione di un distacco dal contingente, di grana non molto differente di quella di altri pesi massimi del Novecento irlandese. Gibson cita al riguardo un’affermazione del Nobel e il poeta W.B. Yeats, secondo cui “la letteratura irlandese moderna inizia proprio con la caduta i disgrazia di Parnell quando una nazione ‘disillusa e amareggiata’ volse le spalle alla politica parlamentare e investì tutte le sue energie creative nella cultura”. Joyce, allora, si trasforma in errante. Prima dimora a Trieste, poi a Zurigo e infine a Parigi. La lontananza fisica non significa punto distanza spirituale. Ciò che si afferma nella sua isola è troppo dabbene e pudibondo per convincerlo a ritornare sui suoi passi, e tuttavia lo scrittore non smette di riflettere “sull’Irlanda contemporanea”. Non solo i suoi testi più noti vi sono ambientati, ma negli scritti occasionali, giornalistici, critici eccetera, il problema Irlanda è praticamente argomento unico. In un capitolo della sua biografia, peraltro passata piuttosto velocemente in cavalleria, Gibson avvicina un po’ a sorpresa Joyce a un altro grande innovatore del “Secolo breve”, il boemo Hasek, e ad entrambi affibbia l’etichetta di inventori di una moderna “epica nazionale”.